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Danno da demansionamento: come provarlo in giudizio

Una lavoratrice si è vista negare il risarcimento per danno da demansionamento perché i giudici di merito ritenevano non avesse allegato prove sufficienti del danno. La Corte di Cassazione ha annullato la decisione, stabilendo che il danno, pur non essendo automatico (in re ipsa), può essere provato tramite presunzioni. I giudici devono valutare tutti i fatti specifici allegati dal lavoratore (durata del demansionamento, natura delle mansioni, perdita di professionalità) come elementi per dedurre l’esistenza del pregiudizio. Il caso è stato rinviato alla Corte d’Appello per una nuova valutazione.

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Pubblicato il 5 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Danno da Demansionamento: La Cassazione Spiega Come Provarlo

Il danno da demansionamento rappresenta una delle questioni più delicate nel diritto del lavoro, poiché tocca la dignità e la professionalità del lavoratore. Spesso, la difficoltà maggiore per chi subisce un demansionamento non è tanto dimostrare l’assegnazione a mansioni inferiori, quanto provare il danno concreto che ne è derivato. Con l’ordinanza n. 6275 del 2024, la Corte di Cassazione offre un’importante chiave di lettura, chiarendo che la prova del danno può essere fornita anche attraverso presunzioni, a partire da fatti specifici allegati dal lavoratore.

I fatti del caso: la richiesta di risarcimento respinta in appello

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda una lavoratrice che aveva citato in giudizio il proprio datore di lavoro, chiedendo il risarcimento dei danni professionali, patrimoniali ed esistenziali subiti a causa di un prolungato demansionamento. Sia in primo grado che in appello, la sua domanda era stata respinta. I giudici di merito, applicando il cosiddetto principio della “ragione più liquida”, avevano ritenuto che la lavoratrice non avesse allegato sufficienti elementi per dimostrare un danno effettivo e concreto, distinguendo tra la prova presuntiva e il danno in re ipsa (cioè automatico), che la giurisprudenza consolidata esclude in questi casi.

La prova del danno da demansionamento: non è automatica ma presuntiva

La lavoratrice ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che i giudici avessero erroneamente ignorato le numerose allegazioni contenute nel suo atto introduttivo, dove venivano descritti nel dettaglio i pregiudizi sofferti, come “l’impossibilità di trovare altre opportunità di lavoro”, la “perdita di chance” e le “ragionevoli aspettative di carriera frustrate”.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ribadendo un principio fondamentale: se è vero che il danno da demansionamento non è in re ipsa, è altrettanto vero che la sua prova può essere fornita attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, ai sensi dell’art. 2729 c.c. Questo significa che il giudice deve valutare una serie di elementi fattuali per risalire, tramite un processo logico-deduttivo, all’esistenza del danno.

Le motivazioni della Suprema Corte

La Corte ha censurato la decisione dei giudici di merito per non aver correttamente applicato il procedimento presuntivo. Essi avrebbero dovuto considerare tutte le circostanze specifiche allegate dalla lavoratrice come potenziali “fatti noti” da cui desumere il “fatto ignoto”, ossia l’esistenza del danno. Tra gli elementi che la Corte d’Appello avrebbe dovuto valutare figurano:

* La qualità e la quantità dell’attività lavorativa precedentemente svolta.
* Il tipo e la natura della professionalità coinvolta.
* La durata del demansionamento.
* La nuova e diversa collocazione lavorativa dopo un corso di formazione.
* I solleciti rivolti ai superiori per ottenere mansioni più consone.

Questi fattori, secondo la Cassazione, sono tutti suscettibili di valutazione per accertare un danno professionale, sia sotto il profilo del deterioramento delle capacità acquisite, sia sotto quello del mancato accrescimento del bagaglio professionale. In sostanza, il giudice non può limitarsi a dire che il danno non è stato provato senza prima esaminare se, dai fatti allegati, sia possibile presumerlo. La Corte ha inoltre ricordato che, una volta allegato il demansionamento, è onere del datore di lavoro provare di aver adempiuto correttamente al proprio obbligo.

Conclusioni: cosa cambia per i lavoratori?

Questa ordinanza rafforza la tutela dei lavoratori vittime di demansionamento. Sebbene rimanga necessario allegare in modo puntuale e specifico i fatti che costituiscono il demansionamento e i pregiudizi subiti, la decisione chiarisce che il lavoratore non è tenuto a fornire una prova diretta e “scientifica” del danno. Spetta al giudice il compito di analizzare attentamente il contesto e dedurre l’esistenza del danno sulla base degli elementi forniti. L’applicazione errata del principio della “ragione più liquida” non può tradursi in un diniego di giustizia. La sentenza è stata cassata con rinvio alla Corte di Appello, che dovrà riesaminare il caso attenendosi ai principi stabiliti dalla Suprema Corte.

Il danno da demansionamento è considerato automatico una volta provato l’illecito del datore di lavoro?
No, la giurisprudenza costante, ribadita in questa ordinanza, esclude che il danno da demansionamento sia “in re ipsa”, ovvero automatico. Il lavoratore ha sempre l’onere di allegare e provare, anche tramite presunzioni, il pregiudizio subito.

Quali elementi può usare un lavoratore per provare il danno da demansionamento in via presuntiva?
Il lavoratore può allegare una serie di circostanze di fatto, come la durata del demansionamento, la natura e la qualità della sua professionalità, il passaggio da mansioni impiegatizie a mansioni di produzione, il mancato accrescimento professionale, la perdita di chance di carriera e le aspettative frustrate. Spetta poi al giudice valutare questi elementi nel loro complesso.

A chi spetta l’onere della prova in una causa per demansionamento?
Quando il lavoratore allega di aver subito un demansionamento, che costituisce un inadempimento dell’obbligo del datore di lavoro (art. 2103 c.c.), spetta a quest’ultimo dimostrare di aver adempiuto esattamente al proprio obbligo, provando l’assenza del demansionamento o che l’assegnazione a mansioni inferiori era legittima e giustificata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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