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Danno da demansionamento: come provarlo in giudizio

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 32534/2024, ha rigettato il ricorso di un dipendente bancario, confermando la decisione della Corte d’Appello. Il caso verteva su una richiesta di risarcimento per danno da demansionamento. La Suprema Corte ha ribadito un principio fondamentale: il danno non è una conseguenza automatica del demansionamento. Il lavoratore ha l’onere di allegare specificamente e provare concretamente il pregiudizio subito alla sua professionalità, immagine e dignità, non essendo sufficiente dimostrare il solo inadempimento del datore di lavoro.

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Pubblicato il 10 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Danno da demansionamento: Non basta l’inadempimento, serve la prova del pregiudizio

Il danno da demansionamento non è una conseguenza automatica dell’inadempimento del datore di lavoro. Per ottenere un risarcimento, il lavoratore deve fornire una prova specifica e dettagliata del pregiudizio subito. Questo è il principio chiave ribadito dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la recente ordinanza n. 32534 del 2024, che ha respinto il ricorso di un dipendente bancario.

La decisione chiarisce che la semplice dimostrazione di essere stati assegnati a mansioni inferiori non è sufficiente. È necessario illustrare concretamente come tale condotta abbia danneggiato la professionalità, la dignità e la vita del lavoratore.

I Fatti di Causa: Dal Risarcimento alla Restituzione

Il caso nasce dalla domanda di un dipendente di un istituto di credito che, dopo anni di servizio, si era visto dequalificato. In primo grado, il Tribunale di Roma aveva accolto parzialmente la sua richiesta, riconoscendogli un cospicuo risarcimento per il danno da demansionamento subito.

Tuttavia, la Corte d’Appello ha completamente ribaltato la sentenza. I giudici di secondo grado, richiamando i principi consolidati della Cassazione, hanno ritenuto che il lavoratore non avesse adeguatamente allegato e provato il danno. Nello specifico, non aveva indicato quali capacità lavorative fossero state compromesse, né aveva specificato gli effetti concreti del demansionamento sulla sua immagine e dignità professionale. Di conseguenza, la domanda è stata rigettata e il lavoratore condannato a restituire le somme precedentemente ottenute.

Il ricorso in Cassazione e l’onere della prova nel danno da demansionamento

Contro la decisione d’appello, il lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione, basandolo su due motivi principali:

1. Motivazione apparente: Secondo il ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe fornito una motivazione insufficiente, quasi inesistente, basando la sua decisione solo sull’esame del ricorso introduttivo e ignorando le prove documentali e orali raccolte durante il processo.
2. Omesso esame di fatti decisivi: Il lavoratore lamentava che la Corte avesse ignorato fatti cruciali già accertati in primo grado, come la perdita di professionalità e la lesione della sua personalità sul luogo di lavoro.

Entrambi i motivi sono stati respinti dalla Suprema Corte.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Cassazione ha giudicato infondati i motivi del ricorso, fornendo importanti chiarimenti sulla prova del danno da demansionamento.

La Corte ha spiegato che la motivazione della sentenza d’appello non era né apodittica né apparente. Al contrario, aveva correttamente applicato i principi giuridici secondo cui il risarcimento del danno non patrimoniale (professionale, esistenziale o biologico) derivante da demansionamento non è automatico. Esso richiede una specifica allegazione da parte del lavoratore.

Non è sufficiente dimostrare la condotta illecita del datore di lavoro. Il dipendente deve provare l’esistenza di un pregiudizio oggettivamente accertabile che abbia inciso sul suo ‘fare reddituale’, alterando le sue abitudini di vita e i suoi assetti relazionali. In altre parole, deve dimostrare come il demansionamento abbia concretamente peggiorato la sua vita, sia dal punto di vista professionale che personale, indicando quali abilità ha perso e come la sua immagine ne abbia risentito.

Riguardo al secondo motivo, la Corte lo ha dichiarato inammissibile. Il vizio di ‘omesso esame di un fatto decisivo’ si verifica solo quando il giudice ignora un preciso fatto storico, non quando omette di considerare singoli elementi istruttori. Nel caso di specie, il ricorrente non ha indicato un fatto storico tralasciato, ma ha tentato di proporre una diversa lettura delle prove, attività non consentita nel giudizio di legittimità.

Conclusioni: L’Onere della Prova a Carico del Lavoratore

Questa ordinanza consolida un orientamento ormai granitico: chi agisce in giudizio per ottenere il risarcimento del danno da demansionamento ha un preciso onere probatorio. Non può limitarsi a denunciare la dequalificazione, ma deve articolare e dimostrare, con fatti e circostanze precise, le conseguenze negative subite. Deve spiegare al giudice quali competenze professionali sono state erose, come la sua reputazione e dignità sono state lese e in che modo la sua vita personale e relazionale ne ha risentito. Senza questa specifica allegazione e prova, la domanda di risarcimento è destinata a essere respinta.

Il danno da demansionamento è una conseguenza automatica dell’inadempimento del datore di lavoro?
No, la Suprema Corte ha ribadito che il danno non è ‘in re ipsa’, ovvero non si presume automaticamente dalla condotta illecita del datore di lavoro. Deve essere specificamente provato dal lavoratore.

Cosa deve fare il lavoratore per ottenere il risarcimento del danno?
Il lavoratore deve allegare in modo specifico e fornire la prova del danno non patrimoniale subito. Deve indicare quali capacità lavorative sono state perse o compromesse e quali sono stati gli effetti concreti del demansionamento sulla propria immagine, dignità professionale e vita personale.

È sufficiente lamentare una generica perdita di professionalità?
No, non è sufficiente. La Corte d’Appello, con decisione confermata dalla Cassazione, ha rigettato la domanda proprio perché il lavoratore non aveva specificato le circostanze concrete del danno, limitandosi a un’allegazione generica.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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