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Danno da concorrenza sleale: la scelta del giudice

Un imprenditore ha citato in giudizio un concorrente per concorrenza sleale, a causa dell’apertura di un’attività identica in un immobile adiacente. La Corte d’Appello ha riconosciuto il danno, ma lo ha quantificato basandosi sui ricavi contabili, inferiori rispetto alle stime di un perito. L’imprenditore ha fatto ricorso in Cassazione, sostenendo che il giudice avrebbe dovuto usare le stime del perito. La Suprema Corte ha respinto il ricorso, affermando il principio per cui il giudice, in sede di liquidazione equitativa del danno, ha ampia discrezionalità nella scelta del metodo di calcolo, soprattutto se la parte danneggiata non ha fornito prove complete del pregiudizio subito. La scelta di basarsi su dati contabili effettivi è stata ritenuta legittima e non censurabile.

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Danno da Concorrenza Sleale: Come si Calcola? Il Potere del Giudice

Un recente caso di concorrenza sleale ha portato la Corte di Cassazione a ribadire un principio fondamentale riguardo la quantificazione del danno: il giudice ha un’ampia discrezionalità nella scelta del metodo di calcolo quando la prova del pregiudizio non è completa. Questa ordinanza offre spunti cruciali per gli imprenditori su come tutelarsi e sull’importanza di documentare meticolosamente le proprie perdite.

I Fatti di Causa

La vicenda ha origine dalla decisione di una società di aprire un’attività di noleggio biciclette in un locale adiacente a quello di un imprenditore individuale che svolgeva la stessa identica attività. L’imprenditore, sentendosi danneggiato, ha avviato un’azione legale per concorrenza sleale, ottenendo in primo grado una sentenza a suo favore. Tuttavia, la Corte di Appello, pur confermando l’illecito, ha ridotto significativamente l’importo del risarcimento.

La Decisione della Corte di Appello

La Corte territoriale ha basato la sua decisione su un punto specifico: il metodo di calcolo del danno. Invece di affidarsi alle stime elaborate da un consulente tecnico (CTU), che si basavano anche su studi di settore, i giudici di secondo grado hanno preferito utilizzare i dati contabili ufficiali dell’impresa danneggiata. Poiché il fatturato dichiarato era piuttosto basso, la Corte ha calcolato il danno partendo da quella cifra (circa 20.000 euro), per poi ridurla del 40% per tenere conto dei costi e degli oneri d’impresa che l’imprenditore avrebbe comunque sostenuto. Il risultato è stato un risarcimento liquidato in 12.000 euro, una somma ben inferiore alle aspettative dell’attore.

I Motivi del Ricorso e la questione della Concorrenza Sleale

Insoddisfatto, l’imprenditore ha presentato ricorso in Cassazione, lamentando diversi errori. Il motivo principale era che la Corte d’Appello avrebbe sbagliato a non utilizzare le stime del CTU, soprattutto perché, a suo dire, in primo grado le parti avevano concordato sull’uso di quel metodo. Secondo il ricorrente, i dati contabili erano inattendibili e il giudice avrebbe dovuto preferire un calcolo presuntivo più realistico. Inoltre, ha contestato la parziale compensazione delle spese legali, ritenendola ingiusta.

Le Motivazioni della Cassazione

La Suprema Corte ha respinto integralmente il ricorso, fornendo motivazioni molto chiare che rafforzano il potere discrezionale del giudice di merito.

In primo luogo, la Corte ha stabilito che l’affermazione del ricorrente su un presunto ‘accordo’ sul metodo di calcolo del CTU non era stata provata. In Cassazione, non è sufficiente allegare un fatto: bisogna indicare specificamente gli atti processuali che lo dimostrano, cosa che il ricorrente non ha fatto.

In secondo luogo, e questo è il punto cruciale, la Cassazione ha ribadito che il giudice è peritus peritorum, ovvero l’esperto degli esperti. Ciò significa che non è vincolato dalle conclusioni del consulente tecnico. Quando si procede a una liquidazione equitativa del danno (necessaria quando il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare), il giudice è libero di scegliere il criterio che ritiene più aderente alla realtà e più equo.

Nel caso specifico, la scelta di basarsi sui ricavi risultanti dalle scritture contabili, piuttosto che su studi di settore più astratti, è stata considerata una decisione logica e prudente, pienamente rientrante nei poteri del giudice. La Corte d’Appello, infatti, aveva ritenuto questo metodo più aderente all’equità giudiziale, specialmente a fronte del fatto che l’imprenditore non aveva fornito prove documentali sufficienti a dimostrare un danno di entità maggiore. Di conseguenza, non vi è stata alcuna violazione di legge.

Le Conclusioni

L’ordinanza conferma un principio fondamentale: chi agisce in giudizio per ottenere un risarcimento per concorrenza sleale ha l’onere di provare il danno subito. Se questa prova è incompleta o insufficiente, il giudice può ricorrere a una valutazione equitativa, ma userà gli elementi concreti a sua disposizione. Affidarsi a dati contabili ufficiali, anche se bassi, è un criterio legittimo e difficilmente contestabile in sede di legittimità. Per gli imprenditori, la lezione è chiara: la tenuta di una contabilità precisa e la capacità di documentare ogni perdita di fatturato sono essenziali non solo per la gestione aziendale, ma anche per tutelare i propri diritti in un’aula di tribunale.

In un caso di concorrenza sleale, come può il giudice calcolare il danno se la prova precisa del suo ammontare è carente?
Il giudice può procedere a una ‘liquidazione equitativa’ del danno, scegliendo il metodo di calcolo che ritiene più corretto e aderente alla situazione, come basarsi sui ricavi contabili effettivi dell’impresa danneggiata piuttosto che su stime o studi di settore.

Il giudice è vincolato alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio (CTU)?
No, il giudice è ‘peritus peritorum’ (esperto degli esperti) ed è libero di scegliere tra le diverse soluzioni tecniche proposte dal consulente o anche di discostarsene, purché motivi adeguatamente la sua scelta.

Cosa succede se un ricorrente in Cassazione afferma che in primo grado c’era un accordo tra le parti su un metodo di calcolo, ma non lo prova?
Il motivo di ricorso viene dichiarato inammissibile per difetto di specificità. Il ricorrente ha l’onere di indicare precisamente gli atti e i documenti da cui si evince tale accordo, non potendo la Corte di Cassazione cercarli autonomamente nel fascicolo processuale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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