Danno conseguenza: perché l’atto illegittimo da solo non basta per il risarcimento
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ribadisce un principio fondamentale del nostro ordinamento in materia di risarcimento del danno: l’esistenza di un atto illegittimo, da sola, non è sufficiente a fondare il diritto al ristoro economico. È necessario dimostrare il cosiddetto danno conseguenza, ovvero le specifiche ripercussioni negative che quell’atto ha causato. La pronuncia in esame chiarisce la netta distinzione tra l’illecito e il danno, un aspetto cruciale per chiunque intenda agire in giudizio contro la Pubblica Amministrazione.
I Fatti del Caso: Una Sospensione Illegittima
Il caso trae origine dalla vicenda di un dipendente pubblico che aveva subito un procedimento disciplinare culminato in una sospensione dal servizio. La durata di tale sospensione era stata successivamente riconosciuta come illegittima. Di conseguenza, il lavoratore aveva avviato un’azione legale per ottenere il risarcimento dei danni che, a suo dire, derivavano direttamente da questo periodo di sospensione ingiustamente prolungato. La sua tesi si basava sull’idea che il danno fosse insito nella durata stessa della sanzione illegittima.
La Decisione della Corte: La Necessità di Provare il Danno Conseguenza
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del dipendente, confermando le decisioni dei giudici di merito. Gli Ermellini hanno sottolineato che il ricorrente non aveva fornito alcuna prova di un danno concreto. Sostenere che il danno ‘si concreta nella complessiva durata illegittima del periodo di sospensione’ equivale a descrivere l’illecito commesso dall’amministrazione, non a dimostrare il pregiudizio subito. L’ordinamento italiano, salvo rare eccezioni, non ammette la figura del danno in re ipsa (cioè implicito nell’atto stesso), ma si fonda sul principio del danno conseguenza.
Le Motivazioni: Il Principio del Danno Conseguenza
La Corte ha spiegato in modo dettagliato le ragioni della sua decisione. In primo luogo, ha chiarito che allegare l’illecito (l’atto illegittimo) e allegare il danno (le sue conseguenze negative) sono due attività distinte e necessarie. Il ricorrente si era limitato alla prima, descrivendo l’azione della P.A. come una ‘macroscopica deviazione dall’iter ordinario’ e ‘irragionevole’, ma senza specificare quali effetti o ricadute tangibili questa avesse avuto sulla sua sfera personale, professionale o patrimoniale.
In secondo luogo, la richiesta di una liquidazione del danno in via equitativa non può supplire alla mancata prova della sua esistenza. La valutazione equitativa riguarda la quantificazione di un danno la cui esistenza è già stata accertata, non può servire a dimostrarlo.
La Suprema Corte ha quindi riaffermato che il sistema della responsabilità civile è incentrato sul danno-conseguenza. Chi chiede un risarcimento ha l’onere di allegare e provare non solo il comportamento illecito della controparte, ma anche le specifiche conseguenze pregiudizievoli che ne sono derivate. La semplice violazione di una norma o l’illegittimità di un provvedimento non generano, in automatico, un diritto al risarcimento.
Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche
Questa ordinanza offre un importante monito per chiunque si appresti ad intraprendere un’azione di risarcimento danni, specialmente nei confronti della Pubblica Amministrazione. Le implicazioni pratiche sono chiare:
1. Onere della prova rafforzato: Non basta lamentare un’ingiustizia o un’irregolarità. È indispensabile raccogliere e presentare prove concrete del pregiudizio subito. Questo può includere danni alla professionalità, alla reputazione, alla salute (se provato) o perdite economiche dirette.
2. Distinzione tra illecito e danno: È fondamentale che l’atto introduttivo del giudizio distingua nettamente tra la descrizione del comportamento illegittimo e l’elencazione puntuale delle sue conseguenze dannose.
3. Limite al danno in re ipsa: La decisione conferma che il ricorso alla categoria del danno in re ipsa è assolutamente eccezionale e non può essere utilizzato per eludere l’onere di provare il danno effettivo.
In sintesi, la giustizia non risarcisce l’illegittimità in sé, ma le sue conseguenze dannose e provate. Un principio che garantisce certezza e rigore nel sistema della responsabilità civile.
La semplice illegittimità di un atto della Pubblica Amministrazione è sufficiente per ottenere un risarcimento del danno?
No. Secondo la Corte di Cassazione, l’illegittimità dell’atto costituisce l’illecito, ma non prova automaticamente l’esistenza di un danno risarcibile. Il danneggiato deve allegare e dimostrare le specifiche conseguenze negative (danno-conseguenza) che ha subito a causa di quell’atto.
Che cos’è il ‘danno-conseguenza’?
È il pregiudizio effettivo che deriva da un comportamento illecito. A differenza del ‘danno in re ipsa’ (che è presunto nell’atto stesso), il danno-conseguenza deve essere provato da chi chiede il risarcimento, dimostrando quali effetti o ricadute negative ha subito sui propri diritti o sulla propria situazione.
Indicare la ‘durata illegittima di una sospensione’ è una prova del danno?
No. La Corte chiarisce che indicare la durata illegittima della sospensione descrive l’illecito, ovvero l’azione sbagliata della P.A., ma non costituisce di per sé la prova del danno. Il ricorrente avrebbe dovuto specificare quali pregiudizi concreti (ad esempio, professionali, reputazionali, ecc.) sono derivati da quella durata eccessiva.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31794 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 31794 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/12/2024
disciplinare, sicché restano al di fuori di esso i profili di danno patrimoniale e biologico parimenti disconosciuti dalla Corte territoriale;
3.1 la censura non può essere accolta; con essa si sostiene che vi sarebbe stata allegazione del danno, che « si concreta nella complessiva durata illegittima del periodo di sospensione », ma in tal modo non si adduce un danno, ma il solo illecito, così come non è allegazione di danno l’indicazione di una possibile determinazione di esso secondo equità, perché ciò attiene alla liquidazione del ristoro pecuniario e non è il danno subito; ancora, sono profili di ulteriore descrizione dell’illecito e non del danno -il richiamo ad una « macroscopica deviazione dall’iter ordinario » o « all’irragionevolezza » dell’attività della P.A. datrice di lavoro o infine anche l’affermazione di una « ingiustizia costituzionalmente qualificata » in relazione all’art. 97 Cost. ed ai principi di imparzialità e buon andamento; è del resto noto come la categoria del c.d. danno in re ipsa (come anche del danno meramente punitivo) sia assolutamente eccezionale nell’ordinamento (tra le molte, Cass. 22 gennaio 2024, n. 2203 e, anche rispetto a diritti fondamentali, Cass. 29 novembre 2023, n. 33276), incentrato sul danno-conseguenza, che nel caso
di specie non è appunto neanche allegato, perché nulla si dice su quali effetti o ricadute abbia avuto -tenuto anche conto del rigetto della domanda quanto a danni patrimoniali e danno biologico quella durata e reiterarsi delle contestazioni disciplinari, su diritti e situazioni dell’interessata suscettibili di subire un pregiudizio o una menomazione tangibili;
a ciò nulla aggiunge il richiamo all’art. 2 -bis della legge n. 241 del 1990, perché esso, al comma 1, prevede solo che le P.A. siano tenute «
4. all’integrale rigetto del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di cassazione;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 4.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro