Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 21527 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 21527 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 26/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17926/2021 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall ‘Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME
-ricorrente/controricorrente incidentalecontro
COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO presso lo studio RAGIONE_SOCIALE
-controricorrente/ricorrente incidentale- avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze n. 372/2021 depositata il 04/05/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 02/07/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Firenze, in parziale accoglimento del gravame proposto dall’Azienda Ospedaliera Universitaria Meyer, ha rideterminato nella complessiva somma di euro 35.677,566, oltre interessi legali, la condanna a carico dell ‘Azienda in favore di
NOME COGNOME con ciò accogliendo la richiesta intesa alla liquidazione del trattamento di fine rapporto e respingendo, invece, le ulteriori domande già accolte in primo grado a titolo di differenze retributive; ha confermato, nel resto, la sentenza del Tribunale di Firenze, con particolare riferimento al l’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato dissimulato da una serie di contratti di lavoro autonomo intercorsi fra l’Azienda e la dott.ssa COGNOME in qualità di dirigente psicologo, nel periodo dal 2000 al 2015, ed al riconoscimento del risarcimento del danno per l’abusiva reiterazione dei contratti di lavoro, che ebbero a svolgersi come rapporti di lavoro subordinato a tempo determinato con durata complessiva superiore a trentasei mesi.
Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione l’Azienda Ospedaliera Universitaria Meyer articolando quattro motivi, cui resiste la dott.ssa COGNOME con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale affidato ad unico motivo. L’ Azienda resiste al ricorso incidentale con controricorso.
Le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, dell’art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2015, degli artt. 2229 e ss. e 1223 e ss. c.c., ai sensi dell’art. 360 , primo comma, n. 3 c.p.c., sul rilievo che il cd. danno comunitario, siccome elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, non sarebbe applicabile nel caso di contrati di lavoro autonomo.
1.1. La censura non è fondata, avuto riguardo alle peculiari caratteristiche del cd. danno comunitario, proprio del lavoro pubblico contrattualizzato, rispetto al l’indennità ex art. 32 della legge n. 183 del 2010, che contraddistingue la diversa realtà del lavoro alle dipendenze di privati.
In effetti, come evidenziato dalla Azienda ricorrente anche in memoria, questa Corte, sulla questione dell ‘ applicabilità o meno del regime risarcitorio forfettizzato, di cui all ‘ art. 32 della legge n. 183 del 2010, anche all ‘ ipotesi di riqualificazione del rapporto autonomo a termine in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, si è orientata in senso negativo (cfr., in particolare, Cass. 17/12/2020, n. 29006, ove è affermato che il regime indennitario istituito dall ‘ art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 non si applica all ‘ ipotesi di conversione in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato di un contratto di lavoro autonomo a termine dichiarato illegittimo), così superando la diversa linea interpretativa espressa da Cass. 21 giugno 2018, n. 20500. Si è, quindi, determinato un indirizzo contrario, poi seguito da numerose pronunzie (così, Cass. Sez. L, 11/01/2024 n. 1134, che ha citato espressamente Cass. 10/02/2023, n. 4134; Cass. 4/10/2022, n. 28825; Cass. 28/02/2022, n. 6577; Cass. 24/02/2022, n. 6224; Cass. 19/11/2021, n. 35675; Cass. 30/04/2021, n. 11424).
Tale consolidato orientamento si fonda sulla lettera del menzionato art. 32, commi 3 e 4, della legge n. 183 del 2010, che riguarda, infatti, i contratti a termine e le altre tipologie contrattuali ivi previste, tra cui non rientrano i contratti di lavoro autonomo, non potendo neppure invocarsi la disciplina di cui al citato comma 4, lett. d (così Cass. Sez. L, 10/02/2023, n. 4134, che richiama Cass. n. 29006 del 2020 e Cass. n. 20209 del 2016).
E’, tuttavia, importante rimarcare che si tratta di pronunce emesse in relazione a rapporti di lavoro intercorsi con datori privati.
1.2. Viceversa, in materia di lavoro pubblico privatizzato, questa Corte, dando continuità al l’arresto dell’8 maggio 2018 n. 10951, ha chiarito che il principio enunciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 5072 del 2016 – relativo alla presunzione del danno ‘ comunitario ‘ derivante dall’abusiva reiterazione di contratti a termine -deve trovare applicazione anche nell’ipotesi di
reiterazione, mediante proroga o rinnovo, di rapporti che, sebbene formalmente qualificati di collaborazione, si siano svolti nelle forme tipiche del lavoro subordinato, a condizione che il lavoratore abbia allegato la illegittimità degli stessi anche in ragione del carattere abusivo della reiterazione del termine (Cass. Sez. L, 05/08/2022, n. 24399).
Tale conclusione si fonda sul rilievo che, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro non ha valenza dirimente il nomen iuris utilizzato dalle parti, dovendo piuttosto considerarsi le concrete modalità di svolgimento del rapporto, da cui è ricavabile la loro volontà effettiva; pertanto, ove per il rapporto, di fatto subordinato, sia stato previsto un termine finale, lo stesso dovrà essere sussunto nella fattispecie del lavoro subordinato a tempo determinato, con applicazione della relativa disciplina e con la conformazione del diritto interno al diritto dell’Unione in caso di abuso derivante dalla successione dei rapporti a termine.
1.3. L’apparente contrasto fra i due orie ntamenti va risolto proprio facendo leva sulla differenza, per così dire, ontologica fra l’indennità forfettizzata ex art. 32 della legge n. 183 del 2010 e il danno ‘comunitario’, ancorché quest’ultimo abbia trovato proprio nello stesso art. 32 cit. un parametro di liquidazione, secondo l’elaborazion e giurisprudenziale di questa Corte, a partire da Sez. U. n. 5072 del 2016.
Il fondamento di tale diversità risiede nel divieto di conversione del rapporto a tempo indeterminato, sancita per il lavoro pubblico dall’art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001, la cui legittimità è stata ripetutamente vagliata dalla Corte costituzionale (n. 89 del 2003; n. 34 del 2004; n. 190 del 2005; n. 110 del 2017; n. 40 del 2018, n. 248 del 2018) e riconosciuta anche sul piano della conformità alla direttiva 1999/70/CE in materia (CGUE, 7 settembre 2006, C-53/04, COGNOME e COGNOME ; CGUE, 7 settembre 2006, C-180/04, COGNOME ; CGUE, 1° ottobre 2010, C-3/10,
Affatato ; CGUE, 12 dicembre 2013, C-50/13, Papalia ; CGUE, 26 novembre 2014, C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, COGNOME e altri , CGUE, 7 marzo 2018, C-494/16, Santoro ).
Infatti, nel lavoro privato, l’indennità prevista dall ‘ art. 32, commi 5 e 6, della legge n. 183 del 2010 «va chiaramente ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato», come sottolineato dalla Corte costituzionale (n. 303 del 2011), che ebbe a respingere la questione di illegittimità della nuova misura sul rilievo che la «tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato -che è la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario -che la normativa censurata presuppone, comporta altresì l’infondatezza delle censure formulate sull ‘ assunto dell ‘ onnicomprensività del trattamento forfettario previsto dalla normativa in oggetto e, quindi, della sua insufficienza». Pertanto, come pure evidenziato dalla Corte costituzionale nella richiamata pronuncia, l’indennità forfettizzata fu introdotta dalla legge n. 183 del 2010 con la finalità di «introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione» rispetto al risarcimento riconosciuto dalla giurisprudenza in base alla normativa generale di diritto comune; con la precisazione che la predetta indennità copre esclusivamente il periodo cosiddetto ‘ intermedio ‘ , quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto. In sintesi, nel lavoro privato l’indennità omnicomprensiva si aggiunge alla conversione proprio per coprire il periodo ‘intermedio’ .
Nel lavoro pubblico, invece, come risulta chiaramente dalla già richiamata sentenza a Sezioni Unite (Cass. Sez. U., 15/03/2016, n. 5072), i criteri di liquidazione dell’indennità forfettizzata sono stati utilizzati in chiave di agevolazione dell’onere probatorio gravante sul lavoratore, al fine di assicurare l’effettività
della tutela, in conformità alle pronunce della Corte di Giustizia UE (in particolare, ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13). Ribadita la legittimità del divieto di conversione del rapporto, è stato di conseguenza escluso il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, mentre è stato reputato possibile il riferimento alla fattispecie omogenea di cui all ‘ art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come ‘ danno comunitario ‘ , determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto.
Nella medesima pronuncia è stato pure espressamente escluso che la soluzione ermeneutica così espressa possa comportare una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l ‘ indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l ‘ onere probatorio del danno subito.
1.4. In base a tali considerazioni, può concludersi che l’interpretazione restrittiva adottata con riferimento al lavoro privato, di cui al precedente par. 1.2., si fonda su una lettura costituzionalmente orientata, che limita l’applicazione dell’indennità ex art. 32 cit. rispetto al risarcimento conseguibile dal lavoratore secondo il diritto comune: infatti, poiché il lavoro subordinato a termine è stato dissimulato attraverso la forma del lavoro autonomo, il datore non può avvalersi della norma sulla forfettizzazione, ma è chiamato a risarcire integralmente il danno.
All’opposto, nel lavoro pubblico, l’aver dissimulato una pluralità di rapporti a tempo determinato attraverso il ricorso a contratti di lavoro autonomo può configurare un’ ipotesi di abusiva reiterazione del termine, rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva europea in materia. Ne consegue la necessità di assicurare al lavoratore una tutela effettiva, nei termini già delineati, e quindi, il riconoscimento, anche in questi casi, del danno ‘ comunitario ‘ .
1.5. Nella specie, come emerge dalla sentenza impugnata, una volta accertata la natura subordinata del rapporto, dissimulata da una pluralità di contratti di lavoro autonomo (ventisei nel periodo dal 2000 al 2015), è stata apprezzata la reiterazione abusiva di rapporti a termine oltre il limite di trentasei mesi, con conseguente riconoscimento del danno ‘ comunitario ‘ , commisurato in dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2126 c.c., dell’art. 2, comma 2, del d.P.C.M. 20 dicembre 1999, come modificato dall’art. 1 del d.P.C.M. 2 marzo 2001, della legge n. 297 del 1982, ai sensi dell’art. 360 , primo comma, n. 3 c.p.c., con riferimento al riconoscimento del trattamento di fine rapporto, asseritamente non dovuto perché troverebbe applicazione solo l’art. 2126 c.c. In ogni caso, il rapporto avrebbe avuto inizio il 1° giugno 2000, allorché era applicabile solo il diverso regime del trattamento di fine servizio, non rivendicato, sicché nulla spetterebbe alla lavoratrice.
2.1. La censura, incentrata sull ‘infondatezza del diritto al TFR, è infondata, salvo quanto si osserverà in ordine al computo del predetto trattamento con riferimento al terzo motivo di ricorso.
Preliminarmente occorre precisare che l’obbligazione prevista dall’art. 2126 c.c. è espressione del principio di rilievo costituzionale secondo cui la prestazione lavorativa deve essere remunerata con un corrispettivo che sia proporzionato alla qualità e quantità del lavoro svolto e costituisce un’eccezione al principio della improduttività degli effetti del contratto nullo, ma non muta la natura della obbligazione, tanto che per l’impiego pubblico contrattualizzato trova applicazione l’intera disciplina dettata dalla contrattazione collettiva (Cass. Sez. L, 08/10/2019, n. 25169). È stato, inoltre, affermato che, se il rapporto di lavoro non sorge per divieti normativi che lo impediscono, la previsione di cui all’art. 2126 c.c. è essa stessa fonte del diritto al trattamento retributivo
dovuto per il lavoro in concreto prestato. (così Cass. Sez. L, 10/05/2024, n. 12868).
Pertanto, è stato riconosciuto il diritto al trattamento di fine rapporto, in caso di stipulazione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa che, in seguito ad accertamento giudiziario, risulti avere la sostanza di contratto di lavoro subordinato; infatti, in tali casi il lavoratore non può conseguire la conversione del rapporto in uno di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la P.A., ma ha diritto alla tutela di cui all ‘ art. 2126 c.c., nonché alla ricostruzione della posizione contributiva previdenziale ed alla corresponsione del trattamento di fine rapporto per il periodo pregresso (Cass. Sez. L., 13/02/2023, n. 4360).
I principi sono senz’altro mutuabili anche nel caso di contratti di lavoro autonomo che, in realtà, dissimulano un rapporto di lavoro subordinato, attesa l’applicabilità della medesima tutela di cui all’art. 2126 c.c.
2.2. Nella specie, tuttavia, l’Azienda ricorrente obietta , altresì, che non sarebbe applicabile il regime proprio del TFR, bensì la differente disciplina di cui al TFS, non rivendicata dalla lavoratrice, in ragione dell’epoca di inizio del rapporto.
Il rilievo non può trovare accoglimento.
Infatti, come già ricordato con riferimento al primo mezzo, n ell’impiego pubblico contrattualizzato opera il divieto di conversione di cui all’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, con la conseguenza che ciascun rapporto, seppure diversamente qualificato, resta autonomo rispetto a quello precedente ed al successivo, cosicché vengono in rilievo una pluralità di contratti, senza poter configurare un unico rapporto di lavoro subordinato decorrente dall’epoca di sottoscrizione del primo contratto (in tal senso, Cass. Sez. L, 10/05/2024, n. 12868, che richiama in proposito anche la disciplina sulla decorrenza del termine di
prescrizione dei crediti retributivi, in costanza di rapporto dal momento di loro progressiva insorgenza ovvero dalla sua cessazione per quelli originati da essa, come ribadito da Cass. Sez. U, 28/12/2023, n. 36197).
Di conseguenza, l’applicazione dell’art. 2126 c.c. deve rimanere circoscritta al segmento temporale nel quale la prestazione è stata resa, senza poter configurare, come assume l’Azienda ricorrente, un unico rapporto decorrente dal giugno 2000, epoca del primo contratto.
È, dunque, corretta la valutazione espressa dalla Corte territoriale in ordine al riconoscimento del diritto al TFR, ai sensi dell’art. 2126 c.c. , quale retribuzione differita da attribuire per ciascun rapporto lavorativo, secondo i criteri di liquidazione che verranno precisati in riferimento al terzo motivo.
Con il terzo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1241 e ss. c.c. e dell’art. 437 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., sul rilievo che, esistendo un saldo negativo a carico della lavoratrice (che aveva percepito più di quanto le sarebbe spettato come dipendente pubblico), doveva farsi applicazione del regime di compensazione cd. impropria, decurtando la somma versata in eccesso da quanto ritenuto dovuto dall’Azienda a titolo di TFR.
3.1. La censura è fondata nei sensi di seguito specificati.
In proposito, la lavoratrice ha invocato l’applicazione d ei principi espressi da questa Corte per escludere l’assorbimento rispetto al riconoscimento del TFR (v. Cass. Sez. L, 03/01/2017, n. 46; Cass. Sez. L, 22/01/2020, n. 1387; più di recente, nel senso che il principio dell ‘ assorbimento per le indennità di fine rapporto non opera neanche nell ‘ ipotesi in cui venga accertata in giudizio l ‘ esistenza d ‘ un rapporto di lavoro subordinato in contrasto con la qualificazione operatane dalle parti in termini di autonomia, Cass. Sez. L, 19/07/2023, n.21327 e precedenti ivi richiamati).
Anche in questo caso, tuttavia, occorre sottolineare che si tratta di pronunce rese con riferimento a rapporti di lavoro privato, per i quali vige il principio che il datore può sempre riconoscere al dipendente un trattamento economico più favorevole.
3.2. Viceversa, nel rapporto di lavoro pubblico, è consolidato l’orientamento per cui il trattamento economico del dipendente scaturisce dalla combinazione delle regole della contrattazione collettiva sulla misura della retribuzione con quelle sull ‘ inquadramento del personale, senza possibilità di riconoscere trattamenti e inquadramenti non previsti dalla stessa contrattazione collettiva o dalla legge, nemmeno se di miglior favore; di conseguenza, non è configurabile un diritto quesito del dipendente a continuare a percepire somme erogate in contrasto con tali previsioni, principio che vale anche per le retribuzione spettanti ex art. 2126 c.c. e per le somme percepite a titolo di TFR, il quale può essere riconosciuto solo nella misura derivante dalle retribuzioni dovute in base alla piena e corretta applicazione della contrattazione collettiva (Cass. Sez. L., 27/03/2025, n. 8134).
In base a tale assunto, trova anche applicazione il consolidato principio per cui, nell ‘ impiego pubblico contrattualizzato, il riconoscimento al lavoratore di un trattamento economico maggiore di quello previsto dalla contrattazione collettiva risulta essere affetto da nullità, con la conseguenza che la P.A., anche nel rispetto dei principi sanciti dall ‘ art. 97 Cost., è tenuta al ripristino della legalità violata mediante la ripetizione delle somme corrisposte senza titolo (Cass. Sez. L., 29/05/2018, n. 13479; in senso conforme, anche in esito alla decisione n. 8 del 2023 della Corte cost., Cass. Sez. L, 27/03/2025, n. 8136)
3.3. Nella specie, secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, la lavoratrice ha ricevuto compensi in misura superiore a quanto spettante in virtù della contrattazione collettiva (con un
saldo negativo, fra quanto spettante e quanto percepito, pari a 10.520,14 euro).
Pertanto, in applicazione dei principi sopra richiamati, occorre in primo luogo verificare che il TFR già riconosciuto in favore della lavoratrice sia stato correttamente computato, sulla base di quanto spettante in applicazione della contrattazione collettiva; in esito a tale operazione, dovrà valutarsi la compensazione con quanto risulta percepito dalla lavoratrice in misura maggiore, ai fini della determinazione della eventuale condanna dell’Azienda per la differenza fra quanto ricevuto e quanto spettante a titolo di trattamento di fine rapporto.
Con il quarto motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., ex art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., nonché l’ omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., proposto in via subordinata rispetto al primo motivo, perché si censura la base di calcolo utilizzata per la liquidazione del danno, ai sensi dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010. Si assume che la Corte territoriale abbia erroneamente utilizzato per la base di calcolo la somma indicata dalla lavoratrice invece che quella indicata dal CTU.
4.1. La questione è inammissibile per difetto del requisito di specificità, oltre che per incoerenza rispetto al decisum (fra molte, Cass. Sez. 2, 09/04/2024, n. 9450), considerato che, per come emerge dalla sentenza impugnata, la Corte ha liquidato il danno assumendo come parametro l’importo indicato dall’appellata e non contestato dall’Azienda; pertanto, la censura non tiene conto della ratio decidendi addotta, che si riferisce espressamente al criterio della non contestazione da parte dell’Azienda del parametro utilizzato.
Con l’unico motivo di ricorso incidentale si denuncia la violazione e falsa applicazione art. 20 CCNL del 5 dicembre 1996 della dirigenza SPTA del SSN, nonché la violazione degli artt. 1218,
2109, 2126, 2697, e 2727 cc., oltre che la violazione dell’art. 36 Cost., con riferimento al rigetto dell’indennità per ferie non godute, festività soppresse e Santo Patrono, per violazione della regola sull’onere probatorio, spettando al datore di provare l’avvenuto regolare pagamento. Si assume che le ferie, pur godute nella misura indicata, non erano state retribuite, come peraltro indicato anche nella CTU. Tale argomento viene addotto anche per le festività soppresse e il Santo Patrono. Si assume che la domanda atteneva alla liquidazione di tutte le somme spettanti per il rapporto di lavoro subordinato, fra cui, il pagamento delle ferie, circostanza mai dedotta dall’Azienda, che , dunque, non ha contestato il mancato pagamento.
5.1. La censura non è ammissibile, per incoerenza rispetto al decisum , analogamente a quanto ritenuto per il quarto motivo del ricorso principale.
Infatti, per come emerge dalla sentenza impugnata, la lavoratrice aveva rivendicato il pagamento delle ferie non godute, che, al contrario, risultavano effettivamente godute, in assenza di precise indicazioni circa l’inclusione delle festività soppresse e del Santo Patrono.
Rispetto a tale ratio decidendi , nel motivo si prospetta di aver rivendicato il mancato pagamento delle ferie e delle ulteriori festività , con onere probatorio a carico dell’Azienda . Tuttavia, la decisione della Corte d’appello non è stata censurata come error in procedendo , per aver omesso di decidere in conformità alla domanda ovvero di aver erroneamente intrepretato la domanda, bensì come error in iudicando , nell’applicazione della disciplina sulla giusta retribuzione e dell’onere della prova .
In definitiva, va accolto il terzo motivo del ricorso principale, nei termini sopra indicati, respinti i primi due motivi ed inammissibile il quarto. Va, altresì dichiarato inammissibile il ricorso incidentale. Di conseguenza, va cassata la sentenza
impugnata in relazione al motivo accolto e la causa va rinviata alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, cui demanda anche la regolazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie nei termini di cui in motivazione il terzo motivo del ricorso principale, che respinge nel resto, dichiara inammissibile il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 2 luglio 2025.