Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 15755 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 15755 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 05/06/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22018/2021 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliati in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, ABBATE RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE)
avverso SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 3618/2021 depositata il 14/05/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/01/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
–RAGIONE_SOCIALE, già RAGIONE_SOCIALE, e la sig. NOME COGNOME, quale erede di NOME COGNOME, propongono ricorso per cassazione articolato in tre motivi ed illustrato da memoria nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME, NOME COGNOME e COGNOME NOME, per la cassazione della sentenza n. 36182021, pronunciata dalla Corte d’appello di Roma in data 14.5.2021, non notificata.
– Resistono con unico controricorso illustrato anch’esso da memoria RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME, NOME COGNOME e COGNOME NOME.
-Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale. All’esito della discussione il collegio ha riservato la decisione nei successivi sessanta giorni.
– Questi i fatti da cui trae origine la vicenda:
Il signor NOME, detto NOME, NOME, presidente del consiglio di amministrazione della società RAGIONE_SOCIALE e noto imprenditore capo di un vasto gruppo imprenditoriale nel campo della ristorazione (le pizzerie delle catene RAGIONE_SOCIALE Pomodoro, RAGIONE_SOCIALE la RAGIONE_SOCIALE ed altro) assumeva di aver subito un grave danno all’immagine e alla reputazione personale, sua e del gruppo societario che a lui faceva capo, a causa di un articolo apparso sul settimanale L’RAGIONE_SOCIALE nel 2011, in cui si ricostruiva e si descriveva un’inchiesta in atto presso la Procura antimafia di Napoli, che aveva condotto a numerosi arresti, facendo intravedere il tentativo di
infiltrazione della camorra nelle iniziative imprenditoriali della ristorazione campana in generale, e in particolar modo in quelle che facevano capo al COGNOME, allo scopo di riciclare denaro proveniente dall’attività illecita della camorra. Sia il COGNOME che il gruppo di imprese che si identificava nel brand RAGIONE_SOCIALE venivano più volte citati nell’articolo, con riferimento a presunte concertazioni tra il COGNOME e il principale indagato, NOME COGNOME, anch’esso impegnato nel ramo della ristorazione e ritenuto dedito al riciclo di denaro da parte degli inquirenti. Nell’articolo si riferiva l’esistenza di trattative tra NOME COGNOME, definito uno dei big della cucina campana vincente, pur precisandosi che ‘contro il quale non sono state mosse accuse’ ed altri imprenditori, questi ultimi vicini alla camorra, e si aggiungeva che la retata dei carabinieri aveva fatto saltare le trattative in atto, volte all’acquisizione di partecipazioni azionarie in favore dello NOME in una o più società facenti capo al COGNOME, e i contatti tra i vari soggetti citati impedendo, in questo modo al denaro di provenienza illecita di introdursi per questa via nel settore della ristorazione.
Il COGNOME e la sua società assumevano di essere stati citati in un reportage che informava i lettori del tentativo in atto, di penetrazione della criminalità organizzata nel comparto commerciale, sebbene estranei alla vicenda giudiziaria narrata dai cronisti, riportando con ciò un grave pregiudizio.
Chiedevano la condanna del settimanale RAGIONE_SOCIALE e dei suoi direttori ad un cospicuo risarcimento dei danni, assumendo che l’articolo avesse diffuso un messaggio falso e tendenzioso, integrando una fattispecie scolastica di esercizio illegittimo del diritto di cronaca ad effetti diffamatori e aveva severamente vulnerato l’immagine e la reputazione sia del COGNOME che delle numerose imprese da lui dirette, tanto più che il coinvolgimento del COGNOME nel tentativo di inserimento all’interno delle aziende di ristorazione posto in essere dallo COGNOME e da altri soggetti in vario
modo a questi legati era stato ritenuto reale e rilanciato anche, all’interno di una trasmissione televisiva, da una deputata ivi intervistata, che aveva poi promosso una interrogazione parlamentare per sollecitare l’adozione di misure, da parte dei ministeri competenti, per contenere l’ingerenza criminale nel comparto della ristorazione.
-Il Tribunale di Roma rigettava la domanda.
-Proponevano appello la RAGIONE_SOCIALE e la signora NOME COGNOME, coniuge superstite del COGNOME nonché unica degli eredi ad aver accettato l’eredità dello stesso.
-La Corte d’appello di Roma confermava il rigetto della domanda di risarcimento danni per diffamazione.
Ricostruiva il quadro giurisprudenziale in tema di esercizio del diritto di critica e di cronaca giudiziaria, e riteneva che il percorso motivazionale seguito dal primo giudice fosse stato corretto e costruito nel rispetto dei principi giurisprudenziali citati, là dove aveva ritenuto che sussistesse l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria, essendo stati fedelmente riportati i fatti scaturenti dall’inchiesta giudiziaria, nel rispetto del limite della verità della notizia, da essere restrittivamente inteso; riteneva altresì che fosse stato rispettato il requisito della continenza, che esige, in riferimento alla cronaca giudiziaria, un racconto asettico.
RAGIONI DELLA DECISIONE
I ricorrenti, come detto, ricorrono avverso la sentenza d’appello con tre motivi.
-Con il primo motivo denunciano la violazione dell’articolo 132, secondo comma, numero 4 c.p.c., ai sensi dell’articolo 360 numero 4 c.p.c.
In particolare, denunciano l’illogicità della motivazione, sviluppata esclusivamente per relazione avendo la Corte territoriale dichiarato congruo e fatto proprio il contenuto della sentenza di primo grado,
ove era operato un raffronto tra gli atti giudiziari e la pubblicazione giornalistica.
Segnalano che la motivazione era costituita esclusivamente dall’integrale recepimento, in sede d’appello, della motivazione del giudice di primo grado, e che la stessa risultava irrimediabilmente perplessa perché la Corte d’appello avrebbe prima formalmente richiamato e poi sostanzialmente disapplicato il principio secondo il quale, in tema di cronaca giudiziaria, il requisito della verità dei fatti deve essere restrittivamente inteso, nel senso che è necessaria una rigorosa corrispondenza tra i contenuti degli atti giudiziari e le informazioni diffuse. La sentenza, infatti, al contempo dichiarava la veridicità delle notizie propalate dall’articolo di stampa ed enunciava la sostanziale difformità tra il contenuto dei provvedimenti giudiziari e quanto riportato nell’articolo di stampa, con un risultato complessivamente contraddittorio e privo di logica complessiva.
-Con il secondo motivo , i ricorrenti denunciano l’omesso esame di fatti astrattamente decisivi siccome determinanti al fine di stabilire se l’esercizio di cronaca giudiziaria dedotto in lite fosse conforme al principio di verità, resi oggetto di espressa e reiterata deduzione nella fase di merito, il tutto ai sensi dell’articolo 360 primo comma numero 5 c.p.c.
In particolare il giudice d’appello, travisando le prove acquisite al processo, avrebbe omesso di valutare il fatto che tutte le condotte attribuite agli attori nel corpo dell’articolo di stampa non trovavano poi nessun riscontro negli atti dell’autorità giudiziaria, costituenti la fonte principale se non unica di quel reportage, vanificando in tal modo la formale adesione al principio di verità cui deve sempre uniformarsi la pubblica informazione, particolarmente in tema di cronaca giudiziaria.
I ricorrenti aggiungono poi che la Corte territoriale non ha descritto affatto una propria, autonoma attività di confronto tra gli atti
giudiziari e il reportage giornalistico ma piuttosto ha affermato di aver verificato la congruenza dell’esercizio di comparazione svolto dal primo giudice, rimettendosi nella sostanza all’altrui valutazione. I ricorrenti sostengono, quindi, che le lacune della sentenza di primo grado, tramite questa modalità redazionale e valutativa, si sono trasmesse alla pronuncia d’appello e che le due decisioni contengono le stesse imperfezioni: nella sentenza di primo grado, che poi viene recepita e richiamata dalla sentenza di appello, sono riportati vari passi delle intercettazioni effettuate, in cui il soggetto intercettato non è mai il COGNOME ma sono lo COGNOME e altre persone in rapporto con lui e dagli stralci di conversazioni emerge l’esistenza di un progetto dello COGNOME di acquisire una partecipazione nel gruppo che faceva capo al COGNOME e si intravedono dei contatti col COGNOME ma null’altro. In particolare, in nessuna intercettazione si registra la presenza né la voce del COGNOME e del resto lo stesso articolo dà atto che il COGNOME non è soggetto a investigazioni. Su questa esile base il tribunale ritiene che risponda al vero che il gruppo RAGIONE_SOCIALE abbia intavolato trattative per inserirsi nelle società di NOME COGNOME e che il gruppo RAGIONE_SOCIALE avesse intenzione di investire capitali nella rete estera di attività dei RAGIONE_SOCIALE.
I ricorrenti sottolineano che non emergerebbe, invece, dai dati obiettivi nessun elemento a comprova di un coinvolgimento diretto del COGNOME, né alcuna traccia o prova di trattative effettivamente in corso tra NOME COGNOME e NOME COGNOME, quindi dalla lettura delle intercettazioni emergerebbe non l’esistenza di trattative in corso tra le parti, come l’articolo scorrettamente lasciava intendere, ma solo l’intenzione o il progetto di avviare una trattativa, elaborati esclusivamente da parte dello NOME e dei suoi sodali.
Da qui la violazione del canone della verità nella cronaca giudiziaria, in quanto l’articolo si limitava a dare atto che nell’inchiesta penale il COGNOME non era indagato né tanto meno imputato, ma poi faceva intendere che fosse in corso la conclusione
di un accordo che coinvolgeva anche il COGNOME per la compartecipazione dello NOME e del suo gruppo nelle attività di ristorazione che a lui facevano capo.
I ricorrenti sostengono che la Corte d’appello avrebbe solo formalmente richiamato il canone del rispetto della verità dei fatti negli articoli di cronaca giudiziaria per poi recepire le valutazioni del primo giudice discostandosi dal canone stesso, nel senso che avrebbe ritenuto conforme a verità l’articolo giornalistico in cui le intenzioni unilaterali di avviare una trattativa e raggiungere un accordo col COGNOME, emergenti dalle conversazioni, si trasformavano in trattative in corso e quindi in un attuale ed effettivo coinvolgimento del COGNOME e del suo gruppo in possibili accordi con gli COGNOME.
Assumono che il ragionamento del giudice d’appello sia viziato perché non dà contezza della assoluta estraneità ai fatti di penale rilevanza del COGNOME, lo ritiene inizialmente coinvolto e che sia stata solo successivamente accertata la sua estraneità ai fatti, per cui ritiene del tutto legittimo, in quanto conforme alla verità dei fatti, che si riportino tutti i vari stralci delle intercettazioni dandone una lettura secondo la quale sarebbe stato in corso non mero ed unilaterale tentativo dello COGNOME di approcciare il gruppo imprenditoriale COGNOME ma una trattativa tra ambo le parti, interrotta proprio dagli sviluppi dell’inchiesta.
-Con il terzo motivo denunciano l’omesso esame di fatti astrattamente decisivi, in quanto determinanti al fine di stabilire se l’esercizio di cronaca giudiziaria dedotto in lite fosse conforme ai canoni della pertinenza e della continenza, ex articolo 360, primo comma, n. 5 c.p.c.
Nella illustrazione del motivo tornano a sottolineare che la Corte territoriale non avrebbe compiutamente esaminato le risultanze istruttorie o comunque le avrebbe travisate, in tal modo omettendo di esaminare i fatti ed anche di mettere appropriatamente in luce,
nella esposizione dei fatti contenuti nell’articolo, che il COGNOME e le sue imprese erano in effetti estranei alla vicenda giudiziaria narrata nell’articolo di stampa, cosa ben nota ai cronisti che avevano redatto la pubblicazione.
All’interno del motivo pongono in rilievo anche la violazione del requisito della continenza, non essendo stata posta nel giusto rilievo la circostanza che il COGNOME era estraneo alla vicenda giudiziaria, come ben sapevano i due redattori, e che lo stesso veniva gratuitamente citato diverse volte in un articolo di stampa in cui l’intero contesto rimandava inequivocabilmente ai tentativi della malavita organizzata, nel suo connubio con gli imprenditori della ristorazione, a prendere il controllo di questo settore.
Il ricorso è infondato .
-In primo luogo, non è configurabile la nullità della sentenza di appello per mancanza di una autonoma valutazione, denunciata all’interno del primo motivo.
La Corte d’appello recepisce e fa propria l’attività di ricostruzione istruttoria svolta dal primo giudice, tiene in considerazione il processo logico seguito dal giudice di primo grado nella formazione del proprio convincimento e lo condivide, e formula una propria autonoma valutazione che legittimamente si allinea a quella del primo giudice, sulla base della attività istruttoria legittimamente espletata in primo grado, acquisita ed autonomamente valutata.
La sentenza non manca quindi di un percorso argomentativo autonomo, svolto in appello sia pur sulla base delle risultanze istruttorie del primo grado, e legittimamente arriva ad un risultato finale di condivisione della valutazione del primo grado.
-Le censure relative ai vizi di motivazione, contenute nel secondo ed anche nel terzo motivo, secondo le quali la sentenza d’appello avrebbe erroneamente percepito e posto a base del suo ragionamento che il COGNOME fosse effettivamente coinvolto, in prima persona, nell’inchiesta giudiziaria, e solo successivamente
ritenuto dall’autorità giudiziaria estraneo ai fatti, in sé non possono essere prese in considerazione in presenza di due decisioni di merito conformi, ex art. 348 quater , quinto comma, c.p.c..
Va considerato, in proposito, che in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione e la valutazione dell’esistenza o meno dell’esimente dell’esercizio dei diritti di cronaca e di critica costituiscono oggetto di accertamenti in fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione; pertanto, con specifico riguardo al diritto di cronaca, il controllo affidato alla Corte di cassazione è limitato alla verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla diffusione delle notizie, nonché al sindacato della congruità e logicità della motivazione, secondo la previsione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., applicabile “ratione temporis”, restando estraneo al giudizio di legittimità l’accertamento relativo alla effettiva capacità diffamatoria delle espressioni in contestazione (Cass. n.18631 del 2022).
Il contenuto delle predette censure è comunque, di seguito, considerato sotto i prospettati e connessi profili di violazione di legge.
6. -Quanto al rispetto del requisito della verità dei fatti, del quale è stata denunciata la carenza sia col primo che col secondo motivo, la decisione è conforme ai principi più volte enunciati da questa Corte, secondo i quali l a lesione dell’onore e della reputazione altrui non si verifica quando la diffusione a mezzo stampa delle notizie costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca, condizionato all’esistenza dei seguenti presupposti: la verità oggettiva della
notizia pubblicata; l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (cosiddetta pertinenza); la correttezza formale dell’esposizione (cosiddetta continenza). In particolare, quanto al primo presupposto soltanto la correlazione rigorosa fra fatto e notizia realizza l’interesse pubblico all’informazione, sotteso all’art. 21 Cost., e rende non punibile la condotta ai sensi dell’art. 51 cod. pen., sempre che ricorrano anche la pertinenza e la continenza. Ne consegue che il giornalista ha l’obbligo di controllare l’attendibilità della fonte informativa, a meno che non provenga dall’autorità investigativa o giudiziaria, e di accertare la verità del fatto pubblicato, restando altrimenti responsabile dei danni derivati dal reato di diffamazione a mezzo stampa, salvo che non provi l’esimente di cui all’art. 59 ultimo comma cod. pen. e cioè la sua buona fede (Cass. n.2271 del 2005).
Nel caso di specie, peraltro, i ricorrenti neppure si dolgono di un oggettivo mancato rispetto della verità dei fatti, quanto piuttosto che sia stato ritenuto non diffamatorio l’articolo in questione, che pur riportando i fatti tratti dall’inchiesta giudiziaria con esattezza, ne dava poi una lettura atta a gettare una luce di discredito sull’imprenditore COGNOME, pur avendo riferito correttamente che lo stesso non fosse direttamente coinvolto nell’inchiesta né sottoposto ad intercettazioni.
Occorre rilevare però che l’articolo in questione non era un semplice articolo di cronaca giudiziaria, in relazione al quale si richiede una fedele ed asettica riproduzione dei fatti appresi dalle fonti, ma un articolo di approfondimento giornalistico, pubblicato da un settimanale nell’ambito di una inchiesta sul tema dei tentativi di infiltrazione della camorra nelle attività commerciali. Per quanto concerne il giornalismo di inchiesta e di approfondimento, se la verità dei fatti va sempre rispettata, ovvero se i fatti vanno riferiti così come sono stati appresi, non può confiscarsi al giornalista il diritto-dovere di analizzarli, di interpretarli, di porli in correlazione
l’uno con l’altro prospettando una chiave di lettura, che è il proprium della sua attività -pur sempre nel rispetto dei limiti esterni della pertinenza e della continenza.
Mentre la cronaca (giudiziaria) contiene solo la ricostruzione fedele dei fatti per come risultanti dalle fonti a disposizione del giornalista, che deve cercare anche di verificarne l’attendibilità, salvo che le fonti non siano di provenienza dall’autorità giudiziaria, nel giornalismo di inchiesta o di approfondimento, i fatti devono essere esposti nel rispetto del criterio della verità, ma poi possono essere letti e messi in correlazione tra loro con quel contributo di originalità che è dato proprio dall’approfondimento giornalistico, che può essere anche teso allo sviluppo di una tesi della quale si cerca il riscontro nello sviluppo dell’inchiesta. Ciò che conta, ai fini della esclusione di una colorazione diffamatoria del giornalismo di inchiesta è che i due elementi -verità dei fatti riferiti, analisi ed interpretazione degli stessi da parte del giornalista – non vengano confusi all’interno dell’articolo, disorientando il lettore ed alterando la sua percezione, ovvero che rimanga chiaro, all’interno dell’articolo, quali sono i fatti obiettivi e quali sia la lettura che di essi dà il giornale, e la valutazione che ne trae.
7. -Quanto al mancato rispetto dei limiti della pertinenza e della continenza, le censure, contenute nel terzo motivo, sono alquanto generiche e comunque infondate.
La sentenza impugnata è esente dai vizi denunciati: da un lato analizza i profili di rilevanza della inchiesta e dà atto, correttamente, della sua conformità all’interesse pubblico, che sussisterebbe quand’anche, accedendo alla ricostruzione dei fatti prospettata dai ricorrenti, il COGNOME fosse del tutto estraneo ai fatti di penale rilevanza, non indagato e non sottoposto a dirette intercettazioni, perché sarebbe comunque conforme all’interesse pubblico venire a conoscenza dei tentativi della malavita organizzata di infiltrarsi nel tessuto economico sano della società.
Anche quanto alla denunciata violazione della continenza, segnalata come particolarmente evidente nel titolo e nelle immagini ad esso accostate per enfatizzarlo e nei toni enfatici utilizzati per i sottotitoli e i cappelli introduttivi dei vari paragrafi più che nel testo, le censure sono infondate. La corte d’appello definisce il criterio della continenza richiamando proprie precedenti pronunce di merito in linea con i principi più volte affermati da questa Corte, secondo i quali essa deve essere correttamente intesa come correttezza formale dell’esposizione e non eccedenza dai limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse (Cass. n. 11767 del 2022), aggiungendo peraltro che la narrazione giornalistica, per essere rispettosa dell’altrui interesse a non essere screditati, non per questo può equivalere all’obbligo di utilizzare un linguaggio grigio ed anodino (richiama in proposito Cassazione penale n. 37442 del 2009).
Il ricorso per cassazione è pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.
Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell’ art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico dei ricorrenti le spese di lite sostenute dalla parte controricorrente, e le liquida in complessivi euro 10.000,00 per compensi, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre contributo spese generali ed accessori.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.