Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 8315 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 8315 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 29/03/2025
Oggetto: NOME
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22206/2019 R.G. proposto da
COGNOME, rappresentata e difesa dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME.
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME
-controricorrenti –
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME quali eredi di COGNOME NOME
-intimati – avverso la sentenza n. 4163/2018 emessa dalla Corte d’Appello di Napoli, pubblicata il 17/9/2018 e non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 4/2/2025 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
1. Con atto di citazione notificato il 08/09/1984, COGNOME NOME, in COGNOME, convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Campobasso, la sorella COGNOME NOME, in Morrone, chiedendo la divisione giudiziale degli immobili relitti dal padre COGNOME NOME con testamento del 11/10/1953.
Costituitasi in giudizio, la convenuta dedusse che la divisione poteva essere effettuata soltanto in relazione ad alcune delle unità immobiliari, in quanto i primi due immobili menzionati in citazione erano posseduti dal fratello COGNOME NOME, il quale, in seguito a chiamata in causa autorizzata ed effettuata da COGNOME NOME, resistette alla pretesa di rilascio degli stessi.
Si costituì in giudizio anche NOMECOGNOME chiamata in causa, su autorizzazione, dalla medesima attrice, onde ottenere il rilascio, da parte sua, dell’immobile sito in Jesi, INDIRIZZO ricompreso tra i beni relitti e da essa detenuto.
Quest’ultima, costituendosi, chiese il rigetto della domanda attorea e, in via riconvenzionale, la declaratoria di avvenuto acquisto, da parte sua, della proprietà del bene per intervenuta usucapione. Sosteneva, al riguardo, di averne avuto il possesso e che, ancor prima, il bene era stato posseduto dalla madre, NOMECOGNOME dal 1916 e fino al suo decesso, avvenuto il 1986. Deduceva, quindi, che l’immobile era stato trasferito per debiti di gioco dal proprio padre, NOME COGNOME, a NOME COGNOME nel 1933 ma soltanto formalmente, tant’è che questi non ne aveva mai chiesto il rilascio.
Con sentenza n. 376/02 dal 27/6/2002, il Tribunale di Campobasso dichiarò cessata la materia del contendere tra i fratelli COGNOME
essendo intervenuta tra essi una transazione, mentre accolse la domanda riconvenzionale proposta dalla COGNOME.
Il giudizio di gravame, interposto da COGNOME NOME e COGNOME NOME, quali eredi di COGNOME NOME, e da COGNOME NOME, si concluse, nella resistenza di COGNOME NOME, con la sentenza n. 90/07 del 15/05/2007, con la quale la Corte d’Appello di Campobasso rigettò la domanda riconvenzionale da quest’ultima proposta, condannando la predetta al rilascio dell’immobile in favore degli appellanti.
Il ricorso per Cassazione, proposto da NOMECOGNOME nel quale resistettero COGNOME NOME e COGNOME NOME, restando invece intimati gli eredi di COGNOME NOME (COGNOME NOME, NOME, NOME e NOME), si concluse con la sentenza n. 6893/2014, depositata il 24/03/2014, con la quale questa Corte cassò la sentenza impugnata e rinviò alla Corte d’Appello di Napoli, davanti alla quale NOME riassunse la causa, insistendo per la pronuncia di avvenuta usucapione, da parte sua, della proprietà dell’immobile.
Il predetto giudizio, si concluse, nella resistenza di COGNOME NOME e COGNOME NOME, con la sentenza n. 4163/2018, pubblicata il 17/09/2018, con la quale la Corte d’Appello di Napoli rigettò la domanda riconvenzionale proposta da NOME e condannò la predetta al rilascio del bene in favore di COGNOME Antonio, COGNOME NOME e degli eredi di COGNOME NOME.
Contro la predetta sentenza, COGNOME NOME propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, illustrati anche con memoria. COGNOME NOME e COGNOME NOME si sono difesi con controricorso, mentre COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, quali eredi di COGNOME NOME, sono rimasti intimati.
Considerato che :
1.1 Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ. I giudici di merito, si sostiene, avrebbero reso una motivazione che non dà conto delle ragioni del proprio convincimento, e che ripropone le medesime argomentazioni già valutate negativamente in sede di legittimità, dissonanti rispetto ai principi affermati da questa Corte con la sentenza di cassazione con rinvio, affinché fosse rivalutata la questione della volontà delle parti, espressa con l’atto di trasferimento della proprietà dal padre della ricorrente a Santella Rocco, e del comportamento successivamente tenuto dalle stesse, onde accertare se effettivamente il possesso del bene fosse stato trasferito all’acquirente e se i venditori ne avessero mantenuto la disponibilità solo a titolo detentivo nomine alieno .
1.2 Il primo motivo è infondato.
Costituisce principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (affermato recentemente anche da Cass., Sez. U, 30/1/2023, n. 2767, in motivazione), quello secondo cui la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione
apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (tra le varie, Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629830).
Scendendo più nel dettaglio sull’analisi del vizio di motivazione apparente, la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che il vizio ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. tra le tante, Sez. U, del 03/11/2016, n. 22232, Rv. 641526; Sez. U, 21/6/2016 n. 16599; Sez. 6 – 1, 01/03/2022, n. 6758, Rv. 664061; Sez. 6 – 5, 23/05/2019, n. 13977, Rv. 654145).
Tale vizio non si riscontra però nel caso di specie, avendo i giudici di merito dato ampiamente conto dei motivi per i quali hanno ritenuto che, con l’atto di trasferimento della proprietà del bene da Santella Rocco a COGNOME‘COGNOME Michele fosse stato anche trasferito il possesso del bene, con la conseguenza che la mantenuta disponibilità dello stesso da parte della ricorrente e della madre per cinquant’anni, in quanto qualificabile in termini di detenzione, non poteva consentire l’acquisto della proprietà per intervenuta usucapione.
Ciò comporta l’infondatezza della censura.
2.1 Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 384 cod. proc. civ. e degli artt. 1158 e ss., 1164 e 1470 cod. civ. e ss., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, considerando la COGNOME mera detentrice, avevano omesso di svolgere l’accertamento per il quale
la sentenza rescindente della Suprema Corte aveva delimitato il giudizio di rinvio, non avendo seguito lo schema proposto in quella sede, ma riproposto pedissequamente questioni nei medesimi termini già prospettati nel provvedimento cassato. In tal modo i giudici avevano violato il principio di diritto enunciato nel provvedimento di rinvio, in virtù del quale avrebbero dovuto limitarsi ad accertare se nell’atto di vendita dell’immobile del 1933, da parte di Santella Rocco a COGNOME Michele, quest’ultimo fosse stato effettivamente immesso nel possesso del bene, perché solo in caso positivo la permanenza del venditore nell’immobile alienato avrebbe integrato gli estremi del costituto possessorio, in sé non presumibile, con sostituzione dell’originario ius possessionis del venditore in mera detenzione nomine alieno , inidonea ad integrare i presupposti per l’acquisto per usucapione, con indagine che avrebbe dovuto valutare la reale volontà delle parti espressa nell’atto anche in relazione al comportamento successivo alla stipula, tenendo conto delle prove, specie, testimoniali, acquisite in giudizio.
3. Con il terzo motivo di ricorso, si lamenta, infine, il vizio di motivazione in punto di mancato riconoscimento dell’usucapione, in relazione all’art. 360, nn. 4-5, cod. proc. civ., con riguardo agli artt. 1158 e ss. cod. civ., 1164 e 1470 cod. civ. e ss. ed erronea valutazione della prova, perché la Corte d’Appello di Napoli, al pari della Corte d’Appello di Campobasso, aveva ritenuto di accogliere la domanda di rilascio dell’immobile occupato dalla Santella sul falso presupposto che, con l’atto di trasferimento del 1933, fosse stato trasmesso al compratore anche il possesso, traendo convincimento dalla portata del contratto di compravendita e dalle attività poste in essere dal COGNOME per la riparazione dell’appartamento danneggiato dagli eventi bellici. Ad avviso della ricorrente, i giudici avevano sostanzialmente ritenuto automatico il costituto
possessorio connesso alla vendita, benché questo fosse stato smentito dalle molteplici prove raccolte.
4.1 Il secondo e il terzo motivo, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono parimenti infondati.
Va innanzitutto considerato come il giudizio di rinvio costituisca un processo chiuso tendente ad una nuova statuizione (nell’ambito fissato dalla sentenza di cassazione) in sostituzione di quella cassata, nel quale oggetto e limiti sono delimitati dalla sentenza di annullamento (ad es. da ultimo Cass. Sez. 5, 09/06/2020, n. 10953), e come i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio siano diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384, primo comma, cod. proc. civ., al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo; mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua potestas iudicandi, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità (Cass. Sez. L., 6/4/2004, n. 6707; Cass. Sez. 1, 7/8/2014, n. 17790; conf. Cass. n. 13719 del 2006; Cass. Sez. L., 24/10/2019, n. 27337; Cass. Sez. 2, 14/1/2010, n. 448).
Il caso di specie rientra nella seconda ipotesi, atteso che questa Corte, con l’ordinanza n. 6893 del 24/3/2014, aveva cassato con rinvio la precedente sentenza della Corte d’Appello di Campobasso, in quanto, non essendo ravvisabile, nel negozio traslativo del diritto di proprietà o di altro diritto reale, un costituto possessorio implicito, nel senso che ad esso segua automaticamente il trasferimento del possesso della cosa all’acquirente, costituente, invece, oggetto di specifica obbligazione ai sensi dell’art. 1476 cod. civ., risultava carente un’adeguata indagine sulla volontà delle parti, da operare con riferimento, ‘ oltre che alle clausole contrattuali, anche al comportamento di esse successivo al contratto, al fine di verificare se la prosecuzione, da parte del venditore NOME e dei suoi familiari (ovvero la moglie NOME e successivamente la figlia NOME), dell’esercizio del potere di fatto sull’immobile per circa cinquant’anni fosse qualificabile in termini di possesso, in quanto caratterizzata dall’intenzione di continuare ad abitare il bene quale proprietario, oppure di detenzione ‘, sicché, in sede di giudizio di rinvio, sarebbe stato necessario procedere ad un accertamento in questo senso di tale punto decisivo della controversia.
Pertanto, il giudice del rinvio, «nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse» (Cass. Sez. L., 6/4/2004, n. 6707, cit.) e quindi con preclusione di ogni nuova attività assertiva di fatti non allegati ritualmente nella precedente fase del giudizio (v. Cass. Sez. 2, 9/12/1972, n. 3555), era tenuto a verificare ex novo i fatti già acquisiti o quelli ulteriori al fine di valutare quale fosse stata la volontà delle parti in ordine al mantenimento della disponibilità del bene da parte del venditore, tenendo conto sia delle clausole del contratto, sia del comportamento da esse tenuto successivamente al contratto.
4.2 Al riguardo, la Corte d’Appello di Napoli ha ritenuto che, in seguito al contratto di compravendita del 1933, l’acquirente fosse stato immesso nel possesso del bene e che la sua permanenza al suo interno integrasse gli estremi di un costituto possessorio, valorizzando all’uopo sia la clausola contrattuale attestante l’immissione dell’acquirente nel possesso del bene, la quale non costituiva mera formula di stile in quanto era stata estesa anche ad altri immobili contestualmente trasferiti e non oggetto di contestazione; sia la previsione pattizia di una clausola di riscatto in favore del Santella, da esercitarsi nel termine di quattro anni dalla stipula del rogito dietro pagamento del prezzo e delle spese, che attestava la consapevolezza, in capo al venditore, della necessità di procedere all’operazione inversa e implicava, dunque, la perdita dell’ animus rem sibi habendi , restando altrimenti la previsione del tutto superflua e dovendosi le clausole interpretare le une per mezzo delle altre ex art. 1367 cod. civ.; sia gli importanti interventi di manutenzione straordinaria (rifacimento del muro maestro e della copertura, dei tramezzi e dell’intonaco, degli infissi e dei pavimenti) compiuti personalmente dall’acquirente sull’immobile danneggiato dagli eventi bellici (seconda guerra mondiale), come risultante dalla documentazione acquisita (verifiche della Guardia di Finanza), ciò che sarebbe stato in contrasto con l’assenza del possesso, stante l’effettiva e rilevante ingerenza dell’acquirente nella gestione del bene.
Con tali argomentazioni, i giudici di merito hanno con tutta evidenza dato seguito alle indicazioni contenute nel provvedimento rescindente, analizzando il compendio probatorio acquisito onde individuare quale fosse stata la volontà contrattuale delle parti, come arguibile non solo dalle clausole pattizie, ma anche dai comportamenti posti in essere successivamente.
4.3 Né può dirsi che, nello svolgimento di tale attività ermeneutica, la Corte d’Appello abbia falsamente applicato le norme in materia di possesso.
Questo istituto, che l’art. 1140 cod. civ. identifica nel ‘ potere sulla cosa che si manifesta in un’attività ‘, diretta o per mezzo di altra persona che lo detiene, ‘ corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale mediante ‘, consta, infatti, sia dell’elemento oggettivo ( corpus ), sia di quello soggettivo ( animus ), il quale non consiste nella convinzione di essere titolare del diritto reale, bensì nell’intenzione di comportarsi come tale, esercitando le corrispondenti facoltà (Cass., Sez. 6-2, 14/5/2021, n. 13153; Cass., Sez. 2, 6/5/2014, n. 9671).
Il possesso non è escluso dalla conoscenza del diritto altrui, né è subordinato all’esistenza della correlativa situazione giuridica, dacché è ricollegato, sia sotto il profilo materiale ( corpus ), sia sotto quello psicologico ( animus ), ad una situazione di fatto, che si concretizza nell’esercizio di un potere oggettivo sulla cosa manifestantesi in un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale e distinguentesi dalla detenzione solo per l’atteggiamento psicologico del soggetto che lo esercita, caratterizzato, nel possesso, dal cd. animus rem sibi habendi , ossia, l’intenzione o il volere di esercitare la signoria che è propria del proprietario o del titolare del diritto reale, e, nella detenzione, dal cd. animus detinendi , che implica il riconoscimento della signoria altrui (Cass., Sez. U, 27/3/2008, n. 7930).
Se è vero che il possesso può anche desumersi in via presuntiva dal corpus , allorché via sia stato lo svolgimento di attività corrispondenti all’esercizio del diritto di proprietà, ciò che impone al convenuto di dimostrare il contrario, provando che la disponibilità del bene è stata conseguita dall’attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale (Cass., Sez. 2,
11/6/2010, n. 14092), è anche vero che l’assenza del corpus non implica necessariamente la perdita del possesso, potendo questo essere esercitato e conservato anche solo animo , purché il possessore (o il detentore) sia in grado di ripristinare ad libitum il contatto materiale con la cosa (Cass., Sez. 2, 29/1/2016, n. 1723). Ed è proprio all’elemento psicologico del soggetto che occorre far riferimento al fine di stabilire se, in conseguenza di una convenzione (anche se nulla per difetto di requisiti di forma) con la quale questi riceve da un altro il godimento di un immobile, si abbia possesso idoneo all’usucapione, ovvero mera detenzione, dovendosi accertare, innanzitutto, se la convenzione sia un contratto ad effetti reali o ad effetti obbligatori, atteso che solo il primo è idoneo a determinare nell’indicato soggetto l’ animus possidendi (Cass., Sez. 3, 8/6/2017, n. 14272; Cass., Sez. 2, 25/7/1981, n. 4819; Cass., Sez. 2, 25/5/1987, n. 4698; Cass., Sez. 2, 27/1/1983, n. 741).
Orbene, a fronte di un contratto ad effetti reali, quale quello stipulato nella specie dalle parti, lo svolgimento, da parte dell’acquirente, di attività di manutenzione straordinaria del bene (in questo caso resasi necessaria dagli eventi bellici) ben può dirsi compatibile con la situazione soggettiva dell’ animus possidendi , siccome indicativa della volontà di mantenere intatto e fruibile l’oggetto del proprio diritto, ciò che esclude, correlativamente, la sussistenza della medesima condizione soggettiva in colui che si trovi nella disponibilità dell’immobile, necessariamente qualificabile in termini di animus detinendi , e, di conseguenza, la sussistenza di uno degli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva (sulla necessità che, in caso di vantata usucapione, siano dimostrati tanto il corpus , quanto l’ animus vedi, tra le tante, Cass., Sez. 2, 27/09/2017, n. 22667; Cass., Sez. 2, 11/06/2010 , n. 14092).
In ragione di ciò, le censure devono essere rigettate.
In conclusione, dichiarata l’infondatezza di tutti i motivi, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico del ricorrente.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 4/2/2025.