Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 13623 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 13623 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 17446-2020 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE MOLISE, in persona del Direttore legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente principale –
contro
COGNOME, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
contro
ricorrente – ricorrente incidentale nonché contro
RAGIONE_SOCIALE AZIENDA SANITARIA REGIONALE MOLISE;
ricorrente principale – controricorrente incidentale avverso la sentenza n. 3/2020 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO depositata il 03/04/2020 R.G.N. 270/2017;
Oggetto
Conversione rapporto di lavoro pubblico differenze retributive
R.G.N.17446/2020
COGNOME
Rep.
Ud.22/01/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/01/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME conveniva in giudizio l’Azienda sanitaria Regionale Molise (d’ora in avanti ASR EM) per sentire accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con conseguente nullità dei contratti di collaborazione e delle proroghe. Chiedeva, quindi, la conversione del rapporto di lavoro in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con reintegra e riammissione presso RAGIONE_SOCIALE nelle mansioni svolte e regolarizzazione della posizione assicurativa e previdenziale e condanna alle differenze retributive. Nel caso di mancato accoglimento della domanda di riconversione e danni chiedeva la condanna alle differenze retributive.
Si costituiva RAGIONE_SOCIALE chiedendo il rigetto del ricorso; al riguardo rimarcava che tutti i contratti di collaborazione erano stati stipulati per sopperire alla necessità di ricorrere a professionalità con alto livello di specializzazione non reperibili in organico per la realizzazione di progetti specifici.
Il Tribunale di Campobasso, con sentenza n. 176/2017, accoglieva parzialmente il ricorso.
La signora COGNOME proponeva appello. La Corte d’appello di Campobasso, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 3/2020, accoglieva per quanto di ragione l’appello.
Ad avviso della Corte territoriale, dalla documentazione prodotta e dalle dichiarazioni rese dalla COGNOME in sede di interrogatorio libero era emersa la natura subordinata del rapporto di lavoro. Al riguardo, rilevava la protrazione del rapporto di collaborazione per sei anni circa senza soluzione di continuità, in contrasto con la natura occasionale e temporanea
del rapporto di collaborazione, secondo le previsioni dell’art. 7 D.L.vo n. 165/2001, nonché l’utilizzazione della COGNOME per l’espletamento delle ordinarie attività di ufficio proprie del Servizio cui, di volta in volta, era addetta (dapprima presso l’Ufficio Bilancio e successivamente presso il Distretto di Campobasso con mansioni di sportello con orari prestabiliti, con controllo delle presenze da parte del dirigente col quale doveva concordare le ferie).
Conseguentemente, la Corte di merito riconosceva il diritto della COGNOME al risarcimento del danno c.d. comunitario in applicazione di quanto affermato dalle SS.UU. di questa Corte (SU n. 5072/2016), confermando quanto deciso in primo grado con applicazione al rapporto a termine, con reiterazione abusiva dei contratti della disciplina stabilita in materia di lavoro privato dall’art. 32, comma 5, della legge 183/2010 per l’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato secon do cui ‘il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai cr iteri indicati nell’art. 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604’; ciò al fine di colmare quel deficit di tutela ritenuto dalla Corte di Giustizia europea, la cui mancanza esporrebbe la norma interna di cui all’art. 36 comma 5 D.L.vo n. 165/2001 ad entrare in conflitto con il diritto UE.
Ciò posto, la Corte distrettuale riconosceva, altresì, le retribuzioni che in relazione all’incontestato inquadramento nella categoria D sarebbero spettate nel periodo di servizio, ove la COGNOME fosse stata assunta con contratto di lavoro a tempo determinato.
RAGIONE_SOCIALE proponeva ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.
La COGNOME si è difesa con controricorso e proponendo ricorso incidentale con due motivi.
Le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente principale lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001, art. 7, co 6 del D.Lgs. n. 165/2001, dell’art. 2222 c.c., della L. n. 267/2000 art. 110, comma 6 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
La Corte territoriale avrebbe riconosciuto la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato senza analizzare il contenuto dei contratti di collaborazione e senza che la signora COGNOME abbia dato prova in tal senso.
In particolare, ad avviso della ricorrente, la Corte di merito avrebbe erroneamente riconosciuto la natura subordinata del rapporto de plano, sulla scorta della ‘protrazione del rapporto di collaborazione per circa sei anni’.
Tale assunto violerebbe il senso della normativa sui contratti di collaborazione coordinata e continuativa, in considerazione della circostanza che il rapporto intercorso fra le parti è stato posto in essere in virtù del progetto ‘Skill Generation’ e proro gato al solo fine di non compromettere la continuità degli adempimenti in essere.
Ai fini della valutazione circa la legittimità del conferimento dell’incarico di collaborazione, la ASREM deduce che: i) veniva verificata l’assenza di dipendenti con titolo abilitativo utile alle attività progettuali; ii) veniva disposta la proroga del contratto in forza dell’art. 4, comma 5, L. 189/2012: la protrazione del rapporto, pertanto, era stata determinata dalla necessità di
portare a termine le attività progettuali anche in base ai finanziamenti stanziati che, una volta esauriti, hanno determinato la cessazione del rapporto.
1.1. Il motivo è inammissibile.
Con la proposizione del ricorso per Cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente. L’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., 25348/2018; Cass. 7921/2011). Orbene, la censura, piuttosto che aggredire la sentenza impugnata sotto il profilo della violazione di legge che solo formalmente viene indicato, è finalizzata a richiedere a questa Corte un riesame delle prove che hanno condotto il giudice di merito a ritenere sussistente un rapporto di lavoro subordinato, con esclusione di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa. Nel caso di specie, la Corte distrettuale ha ampiamente motivato in ordine alla sussistenza degli indici sintomatici della subordinazione, per cui tale accertamento risulta insindacabile in tale sede.
Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2126 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3 c.p.c., nella parte in cui la Corte territoriale oltre
al c.d danno comunitario riconosce le differenze retributive per l’espletamento delle mansioni di collaboratore amministrativo cat. D, in assenza di prova circa lo svolgimento effettivo delle mansioni stesse. In particolare, la Corte avrebbe violato l’art. 2126 c.c. riconoscendo il diritto alla retribuzione, previo accertamento della nullità dei contratti di collaborazione che, viceversa, sarebbero pienamente validi ed efficaci, atteso il legittimo operato dell’amministrazione. Inoltre, la pronuncia avrebbe violato l’art. 2697 c.c. in tema di ripartizione dell’onere probatorio, secondo cui è il lavoratore assunto tramite reiterati contratti di collaborazione coordinata e continuativa a dover provare il suo assoggettamento al potere direttivo, disciplinare ed organizzativo, onere che nel caso di specie non è stato assolto dalla lavoratrice.
2.1 Entrambi i profili di censura sono, come il primo motivo, inammissibili. Per un verso, la ricorrente si duole della mancanza di prova dell’inquadramento nella categoria D non confrontandosi con la decisione che riconosce le differenze retributive ‘che in relazione all’incontestato inquadramento nella categoria D le sarebbero spettate nel periodo in cui ha prestato servi zio’. In sintes i, la censura in esame non coglie la ratio decidendi, laddove afferma la non contestazione dell’inquadramento.
Per quanto concerne l’asserita violazione dei criteri di riparto dell’onere probatorio è da rilevarsi come la censura sia finalizzata a contestare l’accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito che ha ritenuto sussistente nel caso concreto l’eserci zio del potere direttivo del datore di lavoro ai fini della integrazione della subordinazione.
Con il terzo ed ultimo motivo si contesta l’omesso esame e valutazione in ordine alla circostanza determinante
dell’insussistenza degli indici di subordinazione così come risultante dalle stesse dichiarazioni della resistente già oggetto di discussione fra le parti in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
La sentenza avrebbe omesso di valutare che la COGNOME non ha mai rispettato un orario predeterminato, né avrebbe esaminato e valutato la documentazione offerta dalla amministrazione e le dichiarazioni dalla stessa rese in ordine alla insussistenza degli indici sintomatici della natura subordinata del rapporto di lavoro.
3.1 Il motivo è inammissibile.
Quanto all’omessa considerazione di fatto decisivo e controverso, la giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai consolidata (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053; Cass., Sez. Un., 18 aprile 2018, n. 9558; Cass., Sez. Un., 31 dicembre 2018, n. 33679; da ult. Cass., Sez. Un., 21 febbraio 2019, n. 5200) nell’affermare che: i) il novellato testo dell’art. 360, n. 5, c.p.c. ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo; ii) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; iii) neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma; iv) nel giudizio di legittimità è denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, alla
luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, in quanto attiene all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Orbene, è evidente che la censura non coglie nel segno nella misura in cui non viene aggredita la motivazione per omesso esame, ma ci si duole di un asserito cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito.
In conclusione, il ricorso principale è inammissibile.
Con il primo motivo di ricorso incidentale ci si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 2126 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c. nella parte in cui La Corte di appello di Campobasso, nell’accogliere il gravame proposto dall’appellante principale, ha erroneamente omesso di condannare RAGIONE_SOCIALE, in aggiunta al pagamento delle differenze retributive ai sensi dell’articolo 2126 cod. civ. anche alla ricostruzione regolarizzazione della posizione previdenziale della COGNOME, omettendo così di valutare ed accertare un elemento altrettanto determinante per il corretto trattamento economiconormativo della lavoratrice.
4.1 Il motivo è inammissibile, atteso che la pronuncia della Corte distrettuale è esente da errori in quanto la domanda di condanna concernente i contributi previdenziali ed assistenziali non poteva essere pronunciata se non in confronto con l’INPS che non era parte del presente giudizio in quanto non ritualmente convenuto dalla COGNOME.
Con il secondo motivo di ricorso incidentale si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 91, c.p.c., 4, comma 1, D.M. 55/2014, nella parte in cui la Corte di appello di Campobasso, nell’accogliere il gravame proposto dall’appellante
principale, erroneamente applicando il principio della soccombenza, ha condannato l’RAGIONE_SOCIALE alla refusione in favore dell’appellante principale delle spese del grado di giudizio liquidate in complessivi euro 1800,00 oltre accessori, in misura di gran lunga inferiore ai minimi di legge ed omettendo, altresì, di provvedere ritualmente a un nuovo regolamento delle spese di entrambi i giudizi alla stregua dell’esito complessivo della lite. 5.1 Il secondo motivo è fondato.
La corte di merito non ha tenuto minimamente conto dei criteri stabiliti dall’art. 4 del D.M. n. 55/2014 per la liquidazione delle spese di lite, condannando la soccombente parte appellata, nonché appellante incidentale, al pagamento di una somma non corrispondente ai parametri stabiliti nella norma sopracitata.
Orbene, in accoglimento del motivo e decidendo nel merito, applicando lo scaglione di riferimento da 26.001 a 52.000, si ritiene congruo liquidare per il giudizio di appello la somma di € 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori, escludendo la fase di trattazione e istruttoria.
Inoltre, la sentenza di seconde cure va riformata anche per non aver rideterminato d’ufficio le spese di primo grado ponendole a carico della parte soccombente nella misura in cui la sentenza di appello ha riformato quella del Tribunale accogliendo la domanda di pagamento delle differenze retributive.
Ciò alla luce del principio secondo cui il giudice di appello in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza di primo grado è tenuto a provvedere anche d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese di lite alla stregua dell’esito complessivo della c ontroversia, considerato che in base al principio di cui all’art. 336 c.p.c. la riforma della sentenza del primo giudice determina la caducazione del capo della pronuncia che ha statuito sulle spese (cfr. Cass. 2017/1775).
Anche di recente questa Corte ha ribadito il suddetto principio secondo cui in tema di impugnazioni, il potere del giudice d’appello di procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, in quanto il relativo onere deve essere attribuito e ripartito in relazione all’esito complessivo della lite, laddove, in caso di conferma della decisione impugnata, la decisione sulle spese può essere dal giudice del gravame modificata soltanto se il relativo capo della decisione abbia costituito oggetto di specifico motivo d’impugnazione. Tuttavia, anche in ragione dell’operare del c.d. effetto espansivo interno di cui all’art. 336, comma 1, c.p.c., l’accoglimento parziale del gravame della parte vittoriosa in cui favore il giudice di primo grado abbia emesso condanna alla rifusione delle spese di lite non comporta, in difetto di impugnazione sul punto, la caducazione di tale condanna, sicché la preclusione nascente dal giudicato impedisce al giudice dell’impugnazione di modificare la pronuncia sulle spese della precedente fase di merito, qualora egli abbia valutato la complessiva situazione sostanziale in senso più favorevole alla parte vittoriosa in primo grado (Cass., Ordinanza n. 33412 del 19/12/2024).
Conseguentemente, anche sotto questo profilo, la sentenza va cassata con decisione nel merito, liquidando le spese del giudizio di primo grado per compensi professionali in € 6.700,00, oltre accessori di legge.
Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso principale inammissibile; dichiara inammissibile il primo motivo del ricorso incidentale; accoglie il
secondo motivo del ricorso incidentale e decidendo nel merito determina le spese giudiziali nel seguente modo a carico di ASREM: € 6.700,00 per compensi professionali oltre accessori per il giudizio di primo grado; € 5.000,00 per compensi professionali oltre accessori per il giudizio di appello.
Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio di cassazione che liquida in € 5.000,00 per compensi professionali oltre € 200,00 per esborsi, nonché al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione