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Conversione contratto pubblica amministrazione: no

Una lavoratrice ha richiesto la conversione dei suoi contratti di collaborazione pluriennali con un ente pubblico in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ribadendo il principio secondo cui la conversione contratto pubblica amministrazione è vietata. Anche in caso di abuso, il lavoratore non ottiene la stabilizzazione, ma ha diritto solo a tutele di tipo economico e contributivo per il lavoro effettivamente svolto.

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Conversione contratto pubblica amministrazione: la Cassazione ribadisce il divieto

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 18868/2025, è tornata a pronunciarsi su un tema cruciale nel diritto del lavoro pubblico: la possibilità di conversione contratto pubblica amministrazione da una forma di collaborazione autonoma a un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La decisione conferma un orientamento consolidato, negando la stabilizzazione del lavoratore anche in presenza di un utilizzo illecito di contratti flessibili da parte dell’ente pubblico. Questo caso offre spunti fondamentali per comprendere i limiti e le tutele previste per chi lavora con la P.A. in forme diverse dal pubblico impiego tradizionale.

I Fatti di Causa

Una lavoratrice aveva intrattenuto per molti anni, a partire dal 1999, una serie ininterrotta di contratti di collaborazione coordinata e continuativa con un Centro regionale pubblico. Sostenendo che la natura del suo rapporto fosse, nei fatti, quella di un lavoro subordinato, ha agito in giudizio per ottenere l’accertamento di tale natura, la conversione del contratto in uno a tempo indeterminato, la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento dei danni.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello avevano respinto le sue domande. In particolare, i giudici di merito avevano escluso la prova di un reale vincolo di soggezione gerarchica e avevano ritenuto inammissibile, perché nuova, la questione relativa all’assenza di un progetto specifico nei contratti, sollevata solo in appello. Infine, avevano sottolineato che la natura pubblica dell’ente datore di lavoro costituisce un ostacolo insormontabile alla conversione del rapporto.

Il divieto di conversione contratto nella Pubblica Amministrazione

La lavoratrice ha proposto ricorso in Cassazione, lamentando diversi vizi della sentenza d’appello. La Corte Suprema, tuttavia, ha dichiarato il ricorso inammissibile, cogliendo l’occasione per ribadire principi cardine del pubblico impiego.

I primi due motivi, relativi alla presunta novità della questione sull’assenza di progetto, sono stati ritenuti inammissibili per ragioni procedurali: la ricorrente non aveva adeguatamente documentato, come richiesto dal codice di procedura civile, il contenuto degli atti del primo grado di giudizio per dimostrare la tempestiva allegazione dei fatti.

Il cuore della pronuncia risiede nell’analisi del terzo motivo, con cui si contestava il divieto di conversione. La Cassazione ha spiegato che, anche qualora un contratto di collaborazione con una P.A. mascheri un effettivo rapporto di lavoro subordinato, la sua violazione non può mai portare alla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Le Motivazioni della Decisione

La Corte ha fondato la sua decisione su principi consolidati. La ratio del divieto, sancito dall’art. 36 del D.Lgs. 165/2001, non risiede solo nel rispetto della regola del pubblico concorso per l’accesso al lavoro nella P.A., ma anche in esigenze più ampie di buon andamento dell’amministrazione e di controllo della spesa pubblica.

Consentire la conversione automatica dei contratti significherebbe immettere in ruolo personale senza una preventiva valutazione dei fabbisogni e senza seguire le procedure di programmazione delle assunzioni, con un potenziale pregiudizio per l’efficienza amministrativa e la razionalizzazione delle risorse pubbliche. La tutela del lavoratore, in questi casi, è limitata: egli ha diritto alle retribuzioni per il lavoro svolto (in applicazione dell’art. 2126 c.c. sulla prestazione di fatto) e alla ricostruzione della posizione contributiva, ma non può pretendere la stabilizzazione.

Infine, la Corte ha dichiarato inammissibili anche gli ultimi motivi, relativi al mancato esame delle domande risarcitorie. I giudici hanno chiarito che, una volta esclusa in radice la natura subordinata del rapporto da parte della Corte d’Appello, tutte le domande conseguenti (differenze retributive, risarcimento del danno, ecc.) che su tale presupposto si fondavano, non potevano che essere respinte.

Conclusioni

L’ordinanza in esame conferma con fermezza il principio per cui la collaborazione illecita con un ente pubblico non si trasforma in un posto fisso. La tutela del lavoratore è esclusivamente di natura economica e previdenziale per il periodo lavorato, mentre la porta della stabilizzazione rimane chiusa, a salvaguardia dei principi costituzionali di accesso tramite concorso e di buona gestione della cosa pubblica. Questa decisione rappresenta un monito importante sia per i lavoratori che per le stesse pubbliche amministrazioni sull’uso corretto e trasparente delle forme contrattuali flessibili.

Un contratto di collaborazione con una Pubblica Amministrazione può essere convertito in un contratto di lavoro a tempo indeterminato se si dimostra che era, di fatto, subordinato?
No. La Corte di Cassazione ha ribadito che la stipulazione di un contratto di collaborazione con una P.A., anche se al di fuori dei presupposti di legge e con le caratteristiche della subordinazione, non può mai determinare la conversione del rapporto in uno a tempo indeterminato.

Quali tutele ha un lavoratore il cui rapporto di collaborazione con un ente pubblico si riveli abusivo?
Il lavoratore può conseguire una tutela limitata. Ha diritto al pagamento delle retribuzioni corrispondenti al lavoro effettivamente svolto, come se fosse stato un rapporto di lavoro subordinato (ai sensi dell’art. 2126 c.c.), e alla ricostruzione della sua posizione contributiva e previdenziale, ma non ha diritto all’assunzione a tempo indeterminato.

È possibile introdurre in appello un nuovo motivo di contestazione non sollevato in primo grado?
No, di regola non è possibile. La Corte ha ritenuto inammissibile la doglianza relativa all’assenza di un progetto specifico, poiché rappresentava un’indagine su un nuovo tema (ampliamento del thema probandum) non pienamente prospettato nel ricorso introduttivo. Introdurre nuovi fatti o nuove ragioni giuridiche in appello viola il principio del doppio grado di giudizio.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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