Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 16634 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 16634 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25747/2022 R.G. proposto da
COGNOME NOME COGNOME, in proprio e in qualità di titolare dell’AZIENDA RAGIONE_SOCIALE COGNOME NOME, rappresentato e difeso dagli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, INDIRIZZO;
-ricorrente –
contro
PROVINCIA DI PIACENZA, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dagli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO;
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna n. 1269/22, depositata il 6 giugno 2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9 gennaio 2025 dal
Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME NOME COGNOME, in proprio ed in qualità di titolare dell’Azienda RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOMECOGNOME convenne in giudizio la Provincia di Piacenza, per sentir dichiarare l’illegittimità del provvedimento del 17 giugno 2010, con cui era stata disposta la decadenza dal contributo di Euro 35.429,32, concessogli ai sensi dell’art. 18 della legge della Regione Emilia-Romagna 28 giugno 1994, n. 26 per la realizzazione di fabbricati, l’acquisto di arredi, la realizzazione di piazzole esterne e allestimenti, servizi e attrezzature da utilizzare per l’esercizio dell’attività agrituristica nel Comune di Vernasca.
A sostegno della domanda, riferì di aver ottemperato agl’impegni assunti, assumendo di non essere riuscito a svolgere l’attività con profitto a causa del difficile accesso al sito, alla mancanza d’acqua ed al diniego dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività di ristorazione. Negò che la struttura fosse destinata ad abitazione, aggiungendo di aver ottenuto l’iscrizione nell’elenco regionale degli operatori agrituristici fin dal 5 marzo 2001 e precisando che i tecnici della Provincia avevano effettuato controlli sull’esercizio dell’attività, con esito positivo.
Si costituì la Provincia, e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto.
1.1. Con sentenza del 17 aprile 2018, il Tribunale di Piacenza accolse la domanda, dichiarando l’insussistenza del diritto della Provincia alla restituzione del contributo.
L’impugnazione proposta dalla Provincia è stata accolta dalla Corte d’appello di Bologna con sentenza del 6 giugno 2022.
Premesso che la fattispecie era disciplinata dal bando, configurabile come lex specialis , e dagli artt. 18 e 19 della legge regionale n. 26 del 1994, non abrogati dalla legge regionale 31 marzo 2009, n. 4, la quale non disciplinava la sorte dei contributi pubblici erogati per il sostegno dell’attività, la Corte ha affermato che le sanzioni dui cui l’attore aveva invocato l’applicazione in luogo della revoca non riguardavano la gestione delle risorse pubbliche erogate per lo sviluppo dell’attività, ma violazioni relative a quest’ultima. Ciò posto, ha
ritenuto che il COGNOME non avesse destinato allo svolgimento dell’attività agrituristica l’immobile ristrutturato con il contributo pubblico e ne avesse alienato una porzione, senza rispettare il vincolo di destinazione decennale. Rilevato infatti che lo stesso attore aveva dichiarato di non aver mai esercitato attività ricettiva presso la struttura e la relativa domanda di autorizzazione era stata presentata soltanto nel 2008, ha precisato che fino a quell’epoca i tecnici della Provincia non avevano effettuato alcuna verifica sull’effettiva destinazione dell’immobile allo svolgimento dell’attività, ma solo sull’iscrizione nell’albo degli esercenti l’attività agrituristica, avvenuta peraltro in epoca anteriore alla ristrutturazione. Ha aggiunto che il COGNOME non aveva mai svolto attività di ristorazione né richiesto la relativa autorizzazione sanitaria, concludendo quindi per la legittimità della revoca del contributo, indipendentemente dalle altre circostanze dedotte, rilevanti ma non necessarie.
Avverso la predetta sentenza il COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi, illustrati anche con memoria. La Provincia ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112, 329, 342, 345 e 346 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini dell’accertamento della legittimità della revoca, ha tenuto conto dell’avvenuta alienazione di una parte dell’immobile, non menzionata nel provvedimento impugnato e dedotta per la prima volta con la citazione in appello. Aggiunge che l’alienazione non aveva comportato la distrazione dell’immobile dalla sua destinazione, per la quale aveva continuato ad essere utilizzato, sia pure pro quota .
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 18 della legge regionale 1997, n. 15, dell’art. 2 della legge regionale n. 26 del 1994, dell’art. 3 della legge regionale n. 4 del 2009 e degli artt. 2697 e 2702 cod. civ., nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata per aver escluso l’applicabilità della legge regionale n. 26 del 1994, poi sostituita dalla legge regionale n. 4 del 2009, senza tenere conto della nozione di attività agrituri-
stica dalle stesse prevista, la quale non coincide necessariamente con la somministrazione di cibo e bevande, potendo consistere alternativamente in una pluralità di attività, anche disgiunte tra loro. Ribadisce l’irrilevanza del periodo anteriore al mese di agosto 2008, assumendo di aver avviato l’esercizio dell’attività a seguito del rilascio della relativa autorizzazione, richiesta ed ottenuta dal Comune successivamente all’intimazione inviatagli dalla Provincia. Precisato infine di non aver mai sottoscritto la dichiarazione contenuta nel verbale redatto dai tecnici della Provincia, sostiene che gli stessi non hanno tenuto conto delle attività ricreative, culturali, sociali e didattiche da lui svolte nell’immobile.
3. Il ricorso è infondato.
E’ pur vero, infatti, che l’oggetto del giudizio d’impugnazione del provvedimento di revoca o decadenza da contributi, sovvenzioni e finanziamenti pubblici è costituito dall’accertamento della fondatezza delle ragioni addotte a sostegno del provvedimento impugnato, la cui prova, trattandosi di fatti estintivi del diritto al contributo, riconosciuto con il provvedimento di concessione e fatto valere dal beneficiario con l’atto d’impugnazione, è a carico dell’ente erogatore. Tali fatti, in ossequio al principio generale di cui all’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, devono costituire oggetto di puntuale contestazione nel provvedimento di revoca o decadenza, a garanzia del diritto di difesa del beneficiario, il quale deve essere messo in grado di conoscerne le motivazioni, in modo tale da poter sollevare specifiche censure con l’atto di impugnazione, nonché da poter allegare puntualmente le cause che gli hanno impedito di adempiere gli obblighi posti a suo carico dal provvedimento di concessione; essi non possono quindi essere dedotti dall’ente erogatore nel corso del giudizio, e tanto meno con l’atto di appello, configurandosi in quest’ultimo caso come nuove eccezioni, inammissibili ai sensi dell’art. 345 cod. proc. civ. In sede giudiziale, l’integrazione della motivazione del provvedimento è infatti ammissibile soltanto se effettuata sulla base degli atti del procedimento amministrativo, nella misura in cui i documenti dell’istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci che consentano di ricostruire le concrete ragioni della determinazione assunta, oppure attraverso l’emanazione di un autonomo provvedimento di convalida, restando invece inammissibile un’in-
tegrazione postuma, effettuata mediante atti processuali o comunque scritti difensivi (cfr. in tema di agevolazioni tributarie, Cass., Sez. Un., 4/09/2023, n. 25665; Cass., Sez. V, 24/02/2022, n. 6289; 31/01/2018, n. 2382).
Nella specie, è pacifico che la decadenza dal contributo, disposta dalla Provincia con il provvedimento del 17 giugno 2010, trovava giustificazione 1) nella difformità delle opere strutturali dalla destinazione d’uso decennale prescritta dalla legge, 2) nella distrazione delle agevolazioni finanziarie dalle finalità per le quali erano state concesse, 3) nella frustrazione delle aspettative economiche e della finalizzazione dell’intervento, 4) nel risultato negativo della gestione, imputabile a negligenza del beneficiario, 5) nella tardiva richiesta dell’autorizzazione comunale allo svolgimento dell’attività, presentata solo a seguito di sollecito da parte dell’Amministrazione, quale conseguenza di una visita volta a verificare il mantenimento dei requisiti per l’iscrizione nell’elenco regionale degli operatori turistici. Come si evince dalla narrativa della sentenza impugnata, l’intervenuta alienazione di parte dell’immobile destinato allo svolgimento dell’attività agrituristica era stata allegata soltanto nel corso del giudizio, e precisamente con la comparsa di costituzione in primo grado, inidonea, come si è detto, ad integrare le ragioni poste a fondamento della decadenza, quanto meno in relazione a tale circostanza, non menzionata in alcun modo nella motivazione del provvedimento: la relativa questione non avrebbe quindi potuto essere presa in esame, ai fini dell’accertamento della legittimità del provvedimento di decadenza dal contributo, risultando del tutto nuova rispetto a quelle desumibili dalla motivazione di tale provvedimento, in ordine alle quali l’attore era stato messo in grado di articolare le proprie difese.
3.1. L’alienazione parziale dell’immobile ha costituito peraltro soltanto una delle ragioni addotte dalla sentenza impugnata a fondamento della ritenuta legittimità del provvedimento, avendo la Corte d’appello considerato provati gli addebiti riportati nella motivazione dello stesso, sulla base di una pluralità di elementi, desunti dall’istruttoria espletata nel corso del giudizio, dai quali erano emerse la mancata destinazione dell’immobile ristrutturato con il contributo pubblico allo svolgimento dell’attività agrituristica e la conseguente distrazione del beneficio dalle finalità per cui era stato concesso. In
proposito, essa ha menzionato, in particolare, la destinazione dell’immobile aziendale ad abitazione del nucleo familiare del titolare, accertata dal personale della Provincia nel corso di un sopralluogo, e il mancato avvio dell’attività agrituristica recettiva, comprovato dal ritardo nella presentazione della relativa domanda di autorizzazione, avvenuta a cinque anni di distanza dal completamento delle opere, dalla mancata richiesta dell’autorizzazione sanitaria necessaria per lo svolgimento dell’attività di ristorazione, e soprattutto dall’esplicita ammissione da parte dell’attore, il quale si era limitato ad addurre, a propria giustificazione, difficoltà cagionate da eventi naturali (frane e conseguente mancanza d’acqua), peraltro verificatisi a distanza di anni l’uno dall’altro.
3.2. Le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata non trovano smentita nella tesi sostenuta dalla difesa del ricorrente, secondo cui, ai fini del predetto accertamento, la Corte d’appello avrebbe accolto una nozione di attività agrituristica eccessivamente restrittiva rispetto a quella emergente dalla disciplina di settore, avendo ritenuto necessario l’esercizio congiunto di una pluralità di forme di recezione ed ospitalità, che non troverebbe riscontro nell’art. 2 della legge regionale n. 26 del 1994, ai sensi del quale le attività comprese nella predetta nozione potevano anche non essere svolte per intero dalla medesima struttura.
L’art. 2 cit., nel disporre che «per attività agrituristiche si intendono esclusivamente le attività di ricezione e di ospitalità esercitate dai soggetti di cui all’ art. 5» (comma primo), precisava che «costituisce, in particolare, attività agrituristica: a) dare alloggio in appositi locali dell’azienda agricola; b) ospitare in spazi aperti, perché attrezzati di servizi essenziali nel rispetto delle norme igienico-sanitarie; c) somministrare pasti e bevande, ivi comprese quelle a contenuto alcolico e superalcolico, comunque tipici del territorio così come specificato all’art. 6; d) vendere agli ospiti e al pubblico generi tipici alimentari ed artigianali prodotti dall’azienda, o ricavati, anche attraverso lavorazioni esterne, da materie prime prodotte nell’ azienda; e) allevare cavalli, a scopi di agriturismo equestre, od allevare altre specie zootecniche ai fini di richiamo turistico; f) organizzare attività ricreative, culturali, musicali e sportive finalizzate al trattenimento degli ospiti» (comma secondo). Il tenore let-
terale di tale disposizione rende evidente l’intento del legislatore regionale di rappresentare in modo sufficientemente chiaro l’attività di cui intendeva promuovere lo sviluppo con la legge in esame, attraverso una definizione imperniata da un lato sull’indicazione del relativo oggetto («recezione» e «ospitalità») e dei soggetti abilitati al suo esercizio (quelli indicati dall’art. 5, ovverosia «gli imprenditori agricoli, di cui all’art. 2135 cod. civ., singoli od associati, che svolgono l’attività agricola da almeno un biennio, mediante l’utilizzazione della propria azienda»), e dall’altro su un’elencazione meramente esemplificativa (evidenziata dall’espressione «in particolare») delle prestazioni in cui normalmente si articola, che non ne presupponeva necessariamente l’offerta completa né quella congiunta, dovendosi ritenere sufficiente anche lo svolgimento di una o alcune delle attività menzionate, la cui indicazione non aveva peraltro carattere esaustivo, a condizione che le stesse fossero riconducibili ai concetti di recezione od ospitalità, intese rispettivamente come accoglienza a scopo d’intrattenimento o fornitura di alloggi o locali a fini di soggiorno. Tale interpretazione trova d’altronde conforto nella legge regionale n. 4 del 2009, che, nel disciplinare nuovamente la materia in questione, ha abrogato la legge regionale n. 26 del 1994, all’art. 35, ma ne ha riprodotto pressocché integralmente l’art. 2, disponendo espressamente, all’art. 3, che le attività in questione possono essere svolte «anche disgiuntamente».
3.3. Il confronto della predetta definizione con l’accertamento compiuto dalla sentenza impugnata consente peraltro di escludere che, nel ritenere provato il mancato avvio dell’attività agrituristica, la Corte territoriale abbia inteso fare riferimento all’offerta contemporanea di tutte le prestazioni previste dallo art. 2, comma secondo: essa si è infatti limitata a dare atto a) della destinazione dell’immobile aziendale ad abitazione del nucleo familiare del ricorrente, accertata dal personale della Provincia nel corso di un sopralluogo, ed evidentemente incompatibile con l’utilizzazione dello stabile a fini di ospitalità, come previsto dalla lett. a) della predetta disposizione, b) della mancata richiesta dell’autorizzazione sanitaria necessaria per l’esercizio dell’attività di ristorazione, preclusiva della legittima somministrazione di pasti e bevande, contemplata dalla lett. c) del medesimo comma, e c) dell’esplicita ammissione da parte del Gianellini di non avere mai esercitato attività agrituri-
stica recettiva presso la struttura in questione, riportata nel verbale relativo al predetto sopralluogo.
La valenza probatoria attribuita a tale ammissione non risulta in alcun modo inficiata dalla mancata sottoscrizione del verbale di sopralluogo da parte del NOME, trattandosi di un documento che, in quanto redatto da funzionari pubblici incaricati dell’effettuazione dei previsti controlli sul regolare esercizio dell’attività, era qualificabile come atto pubblico, ai sensi dello art. 2700 cod. civ., facente piena prova, fino a querela di falso, non solo della provenienza del documento dai predetti funzionari e delle operazioni da loro compiute, ma anche dei fatti avvenuti e delle dichiarazioni rese in loro presenza, senza che fosse necessaria a tal fine la sottoscrizione del dichiarante.
Inammissibile risulta poi l’affermazione della difesa del ricorrente, secondo cui, nel conferire rilievo al mancato esercizio dell’attività agrituristica nel periodo anteriore al mese di agosto 2008, la sentenza impugnata non ha considerato che la Provincia aveva provveduto ad intimargli l’avvio della stessa soltanto con nota del 6 giugno 2008, a seguito della quale egli si era attivato per ottenere la relativa autorizzazione, rilasciatagli il 31 luglio 2008: tale circostanza è stata infatti presa puntualmente in esame dalla Corte di merito, la quale, pur senza menzionare specificamente la predetta intimazione, ha osservato che dal 2003 al 2008 la Provincia non aveva effettuato alcuna verifica in ordine all’effettiva destinazione della struttura, essendosi limitata a controllare l’iscrizione del ricorrente nell’albo degli esercenti l’attività agrituristica, ed ha pertanto escluso che la condotta tenuta dall’Ente fosse idonea ad evidenziare una tolleranza nei confronti dell’inerzia del beneficiario dell’agevolazione o una perdurante valutazione di meritevolezza del beneficio.
Non merita dunque censura l’ iter logico-giuridico seguito dalla Corte di merito, la quale, avendo escluso l’avvenuto esercizio da parte del ricorrente di quasi tutte le attività previste dall’art. 2 della legge regionale n. 26 del 1994, ed in particolare di quelle menzionate nella richiesta di contributo da lui presentata, ha concluso coerentemente per la mancata realizzazione dell’iniziativa nel termine previsto e per l’avvenuta distrazione del contributo dalle finalità per cui era stato concesso, espressamente previste dall’art. 18, comma primo, lett. a) e b) della legge regionale n. 15 del 1997 come cause
di revoca delle agevolazioni finanziarie in materia di agricoltura, con la conseguente legittimità del provvedimento impugnato.
Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 9/01/2025