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Contributi previdenziali lavoratore: quando sono dovuti?

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 10084/2025, ha chiarito che in caso di fallimento, il lavoratore ha diritto di insinuarsi al passivo per la retribuzione lorda, comprensiva della quota dei contributi previdenziali lavoratore che il datore di lavoro ha trattenuto ma non versato. La Corte ha stabilito che la mancata corresponsione dei contributi all’ente previdenziale rende il datore di lavoro debitore dell’intera somma verso il dipendente. Il ricorso della società fallita è stato quindi rigettato.

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Contributi Previdenziali del Lavoratore: Se il Datore Fallisce, a Chi Spettano?

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha affrontato un tema cruciale per i dipendenti di aziende insolventi: la sorte dei contributi previdenziali lavoratore trattenuti in busta paga ma mai versati agli enti di previdenza. La decisione chiarisce che, in caso di fallimento, queste somme diventano parte integrante della retribuzione dovuta al lavoratore, che può quindi richiederle direttamente alla procedura fallimentare.

I fatti di causa

Una lavoratrice si opponeva allo stato passivo del fallimento della società per cui lavorava, chiedendo l’ammissione di un credito per retribuzioni non pagate. Il Tribunale accoglieva parzialmente la sua richiesta, ammettendo il credito in via privilegiata. La somma riconosciuta includeva non solo le retribuzioni nette ma anche la quota di contributi che l’azienda avrebbe dovuto versare per conto della dipendente. La curatela fallimentare, non condividendo questa interpretazione, ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che il Tribunale avesse errato nel riconoscere tale importo.

La questione dei contributi previdenziali lavoratore e la prova del credito

Il ricorso della società fallita si basava su tre motivi principali. In primo luogo, contestava la valutazione delle prove, come buste paga e CUD, ritenendole contraddittorie. In secondo luogo, sosteneva che tali documenti non avessero sufficiente efficacia probatoria. Infine, accusava il Tribunale di essere andato oltre le richieste della lavoratrice (vizio di ultra-petizione) ammettendo al passivo la quota di contributi a carico della dipendente, senza che questa ne avesse fatto esplicita domanda.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, fornendo importanti chiarimenti.

I giudici hanno innanzitutto affermato che il Tribunale aveva correttamente valutato le prove documentali (CUD e buste paga) in modo unitario. Il CUD provava l’esistenza del rapporto di lavoro e l’ammontare generale del credito, mentre le buste paga specificavano i periodi non retribuiti. La Corte ha ribadito che, secondo una giurisprudenza consolidata, i modelli CUD costituiscono una prova documentale sufficiente per l’ammissione di un credito al passivo fallimentare.

Il punto centrale della decisione riguarda la natura dei contributi previdenziali lavoratore. La Cassazione ha spiegato che la legge (art. 23, l. 218/1952) stabilisce una regola chiara: il datore di lavoro è obbligato a versare i contributi. Se non lo fa tempestivamente, perde il diritto di rivalersi sul lavoratore per la quota a carico di quest’ultimo e diventa debitore per l’intero importo. Di conseguenza, il credito retributivo del lavoratore deve essere calcolato al lordo della sua quota contributiva. Questa quota, non essendo stata versata all’ente previdenziale, non può essere detratta dalla retribuzione e deve essere corrisposta direttamente al lavoratore. In sostanza, il mancato versamento trasforma l’obbligazione contributiva in un’obbligazione retributiva.

Conclusioni

La Corte ha enunciato un principio di diritto fondamentale: in caso di fallimento del datore di lavoro e di omesso versamento dei contributi, il lavoratore non ha azione diretta per il pagamento della contribuzione previdenziale complessiva (la cui obbligazione resta verso l’ente), ma ha diritto a che le quote di contributi previdenziali lavoratore, trattenute ma non versate, gli siano corrisposte direttamente, con collocazione privilegiata. Questa somma è considerata a tutti gli effetti parte della retribuzione. La decisione rafforza la tutela dei lavoratori di fronte all’insolvenza del datore, assicurando che non siano loro a subire le conseguenze del mancato adempimento degli obblighi contributivi da parte dell’azienda.

In caso di fallimento, il lavoratore ha diritto anche alla quota di contributi a suo carico non versata dal datore di lavoro?
Sì. Secondo la Corte, se il datore di lavoro trattiene le quote di contributi a carico del lavoratore ma non le versa tempestivamente all’INPS, queste somme devono essere corrisposte direttamente al lavoratore come parte della sua retribuzione, con collocazione privilegiata nel passivo fallimentare.

Quale valore probatorio hanno le buste paga e il CUD per dimostrare un credito di lavoro nel fallimento?
La Corte ha stabilito che i modelli CUD integrano i requisiti di prova documentale scritta per l’opponibilità di un credito al fallimento. Le buste paga, elaborate dallo stesso datore, servono a specificare ulteriormente il quantum del credito per determinati periodi e non possono essere svalutate dal datore stesso che le ha emesse.

Il lavoratore può agire contro il datore di lavoro fallito per il versamento della contribuzione previdenziale complessiva all’INPS?
No. La sentenza chiarisce che il lavoratore non ha legittimazione attiva per richiedere il pagamento della contribuzione previdenziale complessiva, la cui obbligazione è tra il datore di lavoro e l’ente previdenziale. Tuttavia, ha diritto a ricevere direttamente la quota a suo carico che è stata trattenuta e non versata, in quanto essa diventa parte della sua retribuzione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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