Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 8414 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 8414 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 31/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 5907-2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del Liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
Oggetto
R.G.N.5907/2019
COGNOME
Rep.
Ud.30/01/2025
CC
avverso la sentenza n. 954/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 07/08/2018 R.G.N. 22/2016; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/01/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione impugna la sentenza n. 954/2018 della Corte d’appello di Milano che, in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha respinto il ricorso proposto dalla società in opposizione ad avviso di addebito con cui era stato intimato il pagamento dei contributi dovuti alla gestione ex RAGIONE_SOCIALE per alcuni lavoratori in relazione al periodo settembre 2008/aprile 2013.
Propone cinque motivi di ricorso.
Resiste INPS con controricorso.
Chiamata la causa all’adunanza camerale del 30 gennaio 2025, il Collegio ha riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di giorni sessanta (art.380 bis 1, secondo comma, cod. proc. civ.).
CONSIDERATO CHE
La società impugna la sentenza sulla base di cinque motivi. I)violazione e falsa applicazione dell’art. 3 del d.lgs. CPS n. 708/1947 e successive integrazioni e dell’art. 2697 cod. civ. avendo la Corte affermato che la qualità di lavoratori dello spettacolo è insita nel tipo di attività svolta ed ha ritenuto che no n rilevi che l’INPS non abbia dimostrato, lavoratore per
lavoratore, l’effettivo stabile esercizio di una delle professioni indicate dall’art. 3 suddetto.
II) violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. con riguardo all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., per avere la Corte affermato che non potevano essere esclusi dalla base contributiva i compensi dati quale corrispettivo della cessione del diritto di immagine in quanto non vi era prova del contratto di cessione, posto che la statuizione del primo giudice sul punto non era stata oggetto di impugnazione da parte dell’INPS.
III) violazione e falsa applicazione dell’art. 43 della legge n. 289/2002, dell’art. 2581 cod. civ. dell’art. 110 della legge n. 633/1941, dell’art. 4 del d.lgs. n. 1947/2008 con riferimento all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., per avere la Corte ritenuto ch e fosse necessaria prova scritta della cessione del diritto di utilizzazione dell’immagine.
IV)omesso esame circa un fatto decisivo in relazione alla cessione del diritto all’immagine con riguardo all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., per non avere la Corte esaminato le risultanze documentali e le testimonianze che dimostravano che per ogni prestazione effettuata dagli attori forniti dalla società era sempre prevista una remunerazione per la cessione dei diritti di immagine.
V) violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. in riferimento all’art. 3 della legge n. 335/1995 con riguardo all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. nonché omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ. in quanto la Corte si è pronunciata escludendo la prescrizione nonostante la sentenza del primo giudice non fosse stata impugnata sul punto (e comunque erano in atti i documenti che comprovavano il decorso della prescrizione).
Il primo motivo è infondato.
Il quadro normativo di riferimento è il seguente.
L’art. 3 del d.lgs C.p.S. n. 708/1947, ratificato con modificazioni in legge n. 2388/1952, ha individuato le categorie dei lavoratori dello spettacolo iscritti all’ENPALS: fin da tale atto normativo, il legislatore è stato consapevole che il concetto di spettacolo era passibile di sviluppo e modificazione nel tempo ed ha rimesso ad un decreto del Capo dello Stato, su proposta del Ministro del lavoro, di estendere l’assicurazione ad altre categorie di lavoratori non contemplate nella disposizione. In applicazione di detta norma, l’obbligo assicurativo presso l’ENPALS è stato progressivamente esteso ad altre figure professionali che erano invero estranee alla nozione di spettacolo in senso stretto, valorizzando la finalità di destinazione della prestazione all’ intrattenimento, in senso lato.
L’ art. 2, comma 22, sub d), della legge n. 335/1995 ha poi delegato il Governo a procedere all’armonizzazione delle prestazioni pensionistiche dei lavoratori dello spettacolo; la delega è stata realizzata con l’art. 2, comma 1, del d.lgs n. 182/1997, che, ‘nell’ambito delle categorie di cui all’art. 3 del d.lgs. CPS n. 708/1947, come modificato dalla legge n. 2388/1952, ai fini della individuazione dei requisiti contributivi e delle modalità di calcolo delle contribuzioni e delle prestazioni’, ha distinto in tre gruppi i lavoratori dello spettacolo iscritti all’ENPALS, ‘indipendentemente dalla natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro e individuati con successivo decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale da emanarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, a seconda che:
prestino a tempo determinato, attività artistica o tecnica, direttamente connessa con la produzione e la realizzazione di spettacoli;
prestino a tempo determinato attività al di fuori delle ipotesi di cui alla lettera a);
prestino attività a tempo indeterminato’.
Quindi, coerentemente, il d.m. 10 novembre 1997 ha raggruppato nelle suddette tre categorie i lavoratori dello spettacolo iscritti all’ENPALS, appartenenti alle categorie indicate all’art. 3 del d.lgs. C.P.S. n. 708/1947, per le finalità di cui all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 182/1997.
E’ poi seguita la legge n. 289/2002, il cui art. 43, comma 2, ha sostituito l’art. 3, comma 2, del d.lgs. C.P.S. n. 708/1947, rimettendo
con il primo periodo: ad un decreto del Ministro del lavoro, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze (sentite le organizzazioni sindacali più rappresentative di lavoratori e datori di lavoro e su eventuale proposta dell’ENPALS, che provvede periodicamente al monitoraggio «delle figure professionali operanti nel campo dello spettacolo e dello sport») di adeguare le categorie dei soggetti assicurati presso detto ente;
con il secondo periodo: ad un ulteriore decreto del Ministro del lavoro, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, la eventuale integrazione o ridefinizione, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 181, della distinzione in tre gruppi dei lavoratori dello spettacolo.
In forza delle citate deleghe sono intervenuti due decreti ministeriali del 15 marzo 2005, recanti, rispettivamente, l’adeguamento delle categorie dei lavoratori assicurati
obbligatoriamente presso l’ENPALS e la ridefinizione dei tre gruppi.
Quest’ultimo decreto, richiamati l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 182/1997, il dm 10 novembre 1997, l’art. 3, comma 2, secondo periodo, del d.lgs. n. 708/1947, come sostituito dall’art. 43, comma 2 della legge n. 289/2002, ha dichiaratamente rimodulato ‘l a composizione dei citati tre gruppi, come individuati dal decreto legislativo n. 182 del 1997, a seguito dell’ampliamento delle categorie dei lavoratori dello spettacolo operata dal decreto interministeriale adottato ai sensi dell’art. 3, comma 2, primo periodo, del predetto decreto legislativo n. 708, e sulla scorta di una verifica dell’evoluzione delle professionalità e delle forme di regolazione collettiva dei rapporti di lavoro di settore’, prevedendo nel gruppo A, tra le altre, le figure di attori, presentatori, generici e figuranti, indossatori e fotomodelli, tecnici del montaggio e del suono, truccatori.
Non vi è stata quindi l’introduzione di nuove categorie di lavoratori assoggettati alla tutela dell’ENPALS, ma l’esplicitazione della ricomprensione nell’ambito della stessa di figure emergenti nella pratica, che già in precedenza potevano esservi fatte rientrare ( ex multis così Cass. n.11377/2020 e precedenti ivi citati, Cass. n. 3219/2006, n. 9996/2009).
Tanto premesso, nella specie il collegio meneghino, dopo aver richiamato il quadro normativo, con il sostegno di precedenti di legittimità, ha affermato, con accertamento di merito immune da censure, che ‘i lavoratori avevano la qualifica di attori, attrici, fotomodelli e fotomodelle, figuranti, truccatori, tecnici del montaggio e del suono, presentatori/conduttori, secondo quanto indicato nel verbale di accertamento’, aggiungendo altresì che, stanti le suddette qualifiche, ‘la loro qualità di
lavoratori dello spettacolo è insita nel tipo di attività svolta né, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, può rilevare, nel senso di escludere l’obbligo contributivo, la circostanza che l’istituto non abbia dato dimostrazione, collaboratore p er collaboratore, dell’effettivo stabile esercizio di una delle professioni indicate nell’art. 3, essendo irrilevante che siano state saltuarie, di breve durata ovvero che tale attività non costituisca l’attività esclusiva del soggetto che la espleti’.
Le conclusioni cui perviene la sentenza impugnata, adeguatamente motivata, poggiano sulle risultanze del verbale ispettivo e sulle prove orali espletate, elementi valutati, con giudizio non sindacabile in questa sede in quanto tipicamente di merito, come sufficienti per qualificare i rapporti lavorativi in esame.
La decisione appare corretta alla luce del quadro normativo come sopra richiamato e di quanto già affermato da questa Corte in un precedente -Cass. n. 18530/2015 (che richiama Cassazioni conformi) -in cui veniva in rilievo il ruolo dei figuranti: «la pro fessionalità della prestazione va intesa con riferimento alla specificità del settore, nel senso di essere riconducibile ad una delle categorie previste dalla legge (e tale è il figurante, quale figura di lavoratore chiamato a specifiche prestazioni artistiche, anche occasionali)».
In sostanza, nel campo dello spettacolo, anche il lavoratore autonomo occasionale è soggetto all’ obbligo contributivo, diversamente da quanto accade per la gestione separata dell’INPS, nella quale sono esenti da contribuzioneex art. 44, comma 2, d.l. 30 settembre 2003 n. 269 -le attività di lavoro autonomo occasionale il cui reddito annuo non superi € 5.000. La ratio della diversità di disciplina legislativa risiede nella normale mancanza di continuità delle prestazioni rese dai
lavoratori dello spettacolo. Ciò che rileva ai fini della sussistenza dell’obbligazione contributiva è, dunque, unicamente l’appartenenza ad una delle categorie indicate dalla legge.
Senza sottacere il fatto che le ipotesi di esenzione dall’obbligo contributivo nei confronti dei lavoratori dello spettacolo sono espressamente previste nel nostro ordinamento, ex art. 1, comma 188, della legge n. 296/2006 per le attività musicali ed ex art. 67 TUIR per le attività sportive dilettantistiche.
Neppure si riscontra alcuna inversione dell’onere probatorio: è stata, infatti, non correttamente invocata la violazione dell’art. 2697 c.c., avendo la Corte del merito, in parte qua , proceduto all’accertamento del fatto controverso e, quindi, deciso la causa senza applicare la regola di giudizio basata sull’onere della prova (v., in argomento, ex plurimis , Cass. n. 13395/2018).
Con il secondo motivo la società lamenta vizio di ultrapetizione laddove la Corte si è pronunciata sulla questione relativa alla esclusione o meno dalla base imponibile dei compensi versati quale corrispettivo della cessione del diritto di immagine in assenza di appello specifico sul punto.
Il motivo è inammissibile in considerazione delle modalità con cui è stato proposto, che si scontrano con il principio di necessaria autosufficienza del ricorso.
Sul punto valga il richiamo al consolidato orientamento di legittimità come espresso, ex multis , da Cass. 23079/2020, secondo cui detto principio «trova applicazione anche con riferimento alla dedotta violazione di norme processuali (cfr. Sez. L, n. 25482 del 02/12/2014). Invero, ai fini della ammissibilità del motivo con il quale si lamenta il vizio di extra o ultrapetizione, per erronea individuazione del ‘chiesto’ ex art. 112 cod. proc. civ., …, è necessario che il ricorrente, alla luce
del principio di autosufficienza dell’impugnazione, trascriva o riporti specificamente nella parte di rilievo il contenuto essenziale delle domande ed eccezioni formulate nei precedenti gradi di giudizio, così da dimostrare la mancata attinenza della pronuncia del giudice (in questo caso, di appello) al thema decidendum, dovendosi ritenere, in mancanza, che la Corte non sia posta in grado di valutare la fondatezza e la decisività delle censure; e ciò indipendentemente dal potere di procedere all’esame diret to degli atti del merito. La Corte, infatti, allorquando debba accertare se il giudice di merito sia incorso in un ‘error in procedendo’, è anche giudice del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; tuttavia, non essendo il predet to vizio rilevabile’ ex officio’, né potendo la Corte ricercare e verificare autonomamente gli atti processuali ed i documenti interessati dall’accertamento, è necessario che la parte ricorrente non solo indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il ‘fatto processuale’ di cui richiede il riesame, ma, altresì, assicuri che il corrispondente motivo contenga, per il principio di autosufficienza ed a pena d’inammissibilità del motivo stesso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale (cfr. Sez. U, n.20181 del 25/07/2019…; Sez. 1, n. 2771 del 02/02/2017…; v. anche Cass. SU n. 22726 del 03/11/2011; Sez. 3, n. 8569 del 09/04/2013)».
Il motivo non risponde ai canoni di cui sopra, posto che non riproduce l’atto processuale dal quale dovrebbe ricavarsi il perimetro della domanda che si assume travalicato, non riporta la pronuncia di primo grado né l’atto di appello.
Il terzo motivo è infondato.
La sentenza è contestata nella parte in cui ha ritenuto che non potessero essere esclusi dalla base imponibile ai fini contributivi i compensi indicati come corrispettivi della cessione dei diritti di immagine, esclusione che, secondo la società, avrebbe dovuto essere totale, con conseguente disapplicazione dell’art. 43 della legge n. 289/2002 in forza del quale, «al fine di perseguire l’obiettivo di ridurre il contenzioso contributivo, i compensi corrisposti ai lavoratori appartenenti alle categorie di cui all’articolo 3, primo comma, numeri da 1 a 14, del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 16 luglio 1947, n. 708, e successive modificazioni, a titolo di cessione dello sfruttamento economico del diritto d’autore, d’immagine e di replica, non possono eccedere il 40 per cento dell’importo complessivo percepito per prestazioni riconducibili alla medesima attività. Tale quota rimane esclusa dalla base contributiva e pensionabile».
La lettura che il Collegio milanese fornisce dell’art. 43 è corretta, coerente con il chiaro tenore letterale della norma ed aderente all’interpretazione fornitane da questa Corte, che la qualifica come norma di chiusura, di talché non può accedersi alla ricostruzione pretesa in ricorso, secondo la quale tutti i compensi versati quale corrispettivo per la cessione del diritto di immagine andrebbero integralmente scomputati dalla base imponibile.
Come evidenziato ex multis in Cass. n. 16253/2018, «questa Corte ha affermato che, in tema di tutela previdenziale e correlativo obbligo contributivo dei lavoratori dello spettacolo, sono soggetti a contribuzione in favore dell’Ente nazionale di previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo, anche i compensi corrisposti – ai lavoratori appartenenti alle categorie di cui all’art. 3, primo comma, numeri da 1 a 14 del d.lgs. C.p.S.
n. 708 del 1947 e successive modificazioni – per le prestazioni dirette a realizzare, senza la presenza del pubblico che ne è il destinatario finale, registrazioni (fonografiche, come nella specie, o in altra forma) di manifestazioni musicali o di altre manifestazioni a carattere e contenuto (artistico, ricreativo o culturale) di spettacolo. La disposizione sopravvenuta, introdotta con l’art. 43 della legge n. 289 del 2002 allo scopo dichiarato di ridurre il contenzioso e concernente, direttamente, il compenso imponibile, conferma tale interpretazione, presupponendo l’assoggettamento all’obbligo contributivo dei compensi corrisposti a titolo di cessione dello sfruttamento del diritto d’autore, d’immagine e di replica (Cass. n. 10114 del 2006, Cass. 14782 del 2008, Cass. n. 4882 del 2013, Cass. 2464 del 2014). Invero, in funzione dello scopo dichiarato di riduzione del contenzioso contributivo, è stata chiarita in termini definitivi l’incidenza dei compensi corrisposti a titolo di cessione dello sfruttamento economico del diritto d’autore, d’immagine e di replica sulla retribuzione imponibile e sulla retribuzione pensionabile dei lavoratori sopra indicati, con conseguente soggezione dello stesso compenso a contribuzione previdenziale in favore dell’ENPALS, “con (una sorta di) norma di interpretazione autentica -quanto meno implicita -o, comunque, parimenti retroattiva” (cfr. in tali termini, Cass. n. 2.5.2006 n. 10114, conf. Cass. 4.6.2008 n. 14782). La norma, che stabilisce che la quota dei compensi per tali prestazioni corrisposti pari al 40% viene esentata dall’obbligo contributivo, che grava sulla parte eccedente che va considerata come imponibile ai fini previdenziali, rappresenta, per come risulta formulata, una norma di chiusura del sistema che riflette la cennata esigenza di riduzione del contenzioso ed esonera dalla
verifica circa la effettiva natura della prestazione lavorativa e la sua durata».
In tale sentenza è preso, altresì, in esame il precedente invocato in ricorso, ossia Cass. n. 1585 del 2004: lo stesso, «già sostanzialmente isolato nell’ambito della precedente giurisprudenza di questa Corte, risulta del tutto superato dal più recente e condiviso orientamento, formatosi alla luce del disposto di cui alla legge n. 289 del 2002, art. 43 interpretato come norma ad efficacia retroattiva, secondo cui, “Al fine di perseguire l’obiettivo di ridurre il contenzioso contributivo, i compensi corrisposti ai lavoratori appartenenti alla categorie di cui al D.Lgs.C.P.S. n. 708 del 1947, art. 3, comma 1, numeri dal 1 a 14 e successive modificazioni, a titolo di cessione dello sfruttamento economico del diritto d’autore, d’immagine e di replica, non possono eccedere il 40% dell’importo complessivo percepito per prestazioni riconducibili alla medesima attività. Tale quota rimane esclusa dalla base contributiva e pensionabile. La disposizione si applica anche per le posizioni contributive per le quali il relativo contenzioso non è definito alla data di entrata in vigore detta presente legge”. Infatti, ne risulta esplicitamente stabilita l’incidenza dei “compensi corrisposti (…) a titolo di cessione dello sfruttamento economico del diritto d’autore, d’immagine e di replica” sulla retribuzione imponibile e sulla retribuzione pensionabile dei “lavoratori appartenenti alle categorie di cui al D.Lgs. C.P.S. n. 708 del 1947, art. 3, comma 1, nn. dal 1 a 14”, presupponendo, tuttavia, la soggezione dello stesso compenso a contribuzione previdenziale in favore dell’Enpals (cfr. Cass., nn. 18131/2005; 10114/2006; 14782/2008; 3599/2010)».
Essendosi la Corte territoriale uniformata al suddetto orientamento, i profili di doglianza -che si concentrano
esclusivamente sulla prospettiva della totale esclusione, dalla base imponibile, dei compensi corrisposti a titolo di cessione dello sfruttamento del diritto di autore, senza rilevare un’eventuale violazione della quota del 40% risultano infondati.
Il quarto motivo è inammissibile in quanto le censure non individuano il fatto storico, decisivo e controverso che non sarebbe stato esaminato dalla Corte ma si dolgono della mancata valutazione di elementi probatori.
Sul punto, giurisprudenza di legittimità uniforme afferma che -come ex multis Cass. n. 21672/2018 -«nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie».
Le medesime considerazioni valgono in ordine al quinto motivo nella parte in cui lamenta un omesso esame di documenti che dimostrerebbero l’intervenuta prescrizione rispetto ad alcuni soggetti, non essendo stati, inoltre, trascritti né il verbale di accertamento che si assume notificato oltre il termine né la relativa notifica.
Nella parte in cui lamenta vizio di ultrapetizione, detto motivo è infondato.
Il giudice di primo grado ha accolto il ricorso nel merito, non pronunciandosi in punto eccezione di prescrizione sollevata dall’opponente. INPS, soccombente nel merito, ha impugnato la sentenza chiedendo di confermare l’avviso di addebito e di condannare controparte al pagamento di quanto nello stesso indicato, e non avrebbe avuto alcun interesse a proporre appello in ordine alla prescrizione, trattandosi di eccezione di cui poteva giovarsi l’appellato; la società, infatti, resistendo in appello, ha riprod otto l’eccezione, nel rispetto del principio in forza del quale «la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, non ha l’onere di proporre appello incidentale per richiamare in discussione le proprie domande o eccezioni non accolte nella pronuncia, da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perché assorbite, essendo soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello o nel giudizio di cassazione in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinunzia derivante da un comportamento omissivo (Cass. SS.UU. n. 13195 del 2018)» (Cass. n. 26117/2024).
Conclusivamente, il ricorso va rigettato, con condanna alle spese secondo soccombenza, come liquidate in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in € 5 . 500,00 per compensi ed € 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 30 gennaio