Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 900 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 900 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2656/2020 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t. NOME COGNOME, rappresentata e difesa dal Prof. Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO presso lo studio legale COGNOME RAGIONE_SOCIALE COGNOMERAGIONE_SOCIALE
-ricorrente –
contro
AZIENDA RAGIONE_SOCIALE MESSINA, in persona del Direttore generale p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio in Roma, INDIRIZZO presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione; -controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Messina n. 441/19, depositata il 10 giugno 2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25 settembre 2024
dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza del 28 giugno 2013, il Tribunale di Messina, pronunciando sull’opposizione proposta dall’Azienda sanitaria provinciale di Messina avverso il decreto ingiuntivo n. 1963/09, emesso il 24 novembre 2009, con cui era stato intimato all’attrice il pagamento della somma di Euro 655.975,40 in favore della RAGIONE_SOCIALE a titolo di corrispettivo per prestazioni di riabilitazione domiciliare effettuate nei mesi compresi tra gennaio e settembre 2009, revocò il decreto ingiuntivo e rigettò la domanda di pagamento, dichiarando invece inammissibile quella di riconoscimento dell’indennizzo per l’ingiustificato arricchimento proposta dalla società opposta.
L’impugnazione proposta dalla RAGIONE_SOCIALE è stata rigettata dalla Corte d’appello di Messina con sentenza del 10 giugno 2019.
A fondamento della decisione, la Corte ha confermato l’insussistenza di un titolo convenzionale idoneo a legittimare l’esecuzione delle prestazioni, rilevando che, in quanto riconducibili all’art. 26 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, le stesse risultavano espressamente escluse dall’oggetto della convenzione stipulata tra le parti, e ritenendo pertanto irrilevanti le ordinanze con cui il Giudice amministrativo aveva sospeso in via cautelare l’efficacia dei provvedimenti con cui l’Asp aveva disposto la revoca della convenzione, nonché il provvedimento con cui quest’ultima era stata conseguentemente ripristinata. Ha ritenuto inutile discutere se gli effetti delle ordinanze di sospensione fossero stati o meno caducati dalle sentenze con cui erano stati rigettati i ricorsi proposti dall’appellante avverso i provvedimenti di revoca, osservando che l’effetto ripristinatorio temporaneo della sospensione operava nei limiti segnati dalla convenzione in atto al momento della revoca. Ha ritenuto infine influente la circostanza che l’esecuzione delle prestazioni fosse stata richiesta dall’Asp, aggiungendo che, come accertato dal Giudice amministrativo, la Medical Center era priva dei requisiti necessari per l’accreditamento ai fini dell’effettuazione di prestazioni di riabilitazione.
La Corte ha ritenuto poi non pertinenti le doglianze riguardanti la dichiarazione d’inammissibilità della domanda di riconoscimento dell’indennizzo per
l’ingiustificato arricchimento, osservando che, nel censurare la decisione di primo grado, che aveva ritenuto nuova la domanda, rispetto a quella di adempimento della convenzione, l’appellante non aveva fatto valere la natura riconvenzionale della stessa, collegata all’eccezione d’invalidità della convenzione sollevata dall’Asp, ma si era limitata ad insistere sulla validità della convenzione.
Avverso la predetta sentenza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi, illustrati anche con memoria. L’Asp ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., osservando che, nell’affermare l’estraneità delle prestazioni all’oggetto della convenzione, la sentenza impugnata si è limitata a richiamare l’art. 1 della stessa, omettendo di accertare la comune intenzione delle parti, anche alla luce del piano di programma richiamato dagli artt. 2 e 3 della convenzione, nonché di tenere conto del comportamento delle stesse successivo alla conclusione del contratto, ed in particolare della circostanza che era stata l’Asp a richiedere l’esecuzione anche delle prestazioni di riabilitazione domiciliare, eseguite in buona fede da essa ricorrente.
Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2041 cod. civ., sostenendo che, nel confermare l’inammissibilità della domanda di riconoscimento dell’indennizzo per ingiustificato arricchimento, la sentenza impugnata non ha considerato che la stessa era stata correttamente formulata in tutti i suoi elementi essenziali, ed in ordine ad essa si era instaurato il contraddittorio tra le parti. Aggiunge che, nell’interpretazione della domanda, il giudice di merito non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte, ma deve valutare il contenuto sostanziale della pretesa, desumibile anche dalla natura delle vicende rappresentate e dal provvedimento richiesto.
Il primo motivo, avente ad oggetto la riconducibilità delle prestazioni di riabilitazione alla convenzione stipulata tra le parti, è inammissibile.
La stessa ricorrente riconosce infatti la correttezza dell’interpretazione letterale fornita dalla sentenza impugnata dell’art. 1 della convenzione stipulata con l’Asp, riportandone integralmente il testo, che limitava espressamente l’oggetto del contratto alle prestazioni di terapia riabilitativa domiciliare dirette al recupero funzionale dei soggetti affetti da minorazioni fisiche «diverse da quelle di cui all’art. 26 della legge n. 833 del 1978», ma lamentando la mancata lettura della clausola in collegamento con le altre, ed in particolare con quelle di cui agli artt. 2 e 3, che richiamavano il piano di programma, senza però precisare se tale piano fosse allegato alla convenzione, ed omettendo di riportarne il contenuto a corredo delle censure, le quali risultano, sotto tale aspetto, prive di specificità. La parte che in sede in legittimità intenda dolersi della violazione del criterio ermeneutico previsto dall’art. 1363 cod. civ. non può infatti limitarsi ad evidenziare il rilievo fondamentale assegnato dalla legge all’interpretazione complessiva del testo negoziale, lamentando l’omessa valutazione delle singole parti in correlazione tra loro, ma deve fornire la dimostrazione del proprio assunto, riportando nel ricorso il contenuto delle parti invocate, in ossequio all’art. 366, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., in modo tale da farne emergere le reciproche connessioni, al fine di consentire a questa Corte di verificare ex actis la plausibilità della tesi sostenuta, prima ancora di valutarne la fondatezza (cfr. Cass., Sez. I, 20/01/ 2021, n. 995; Cass., Sez. III, 21/06/2017, n. 15350; Cass., Sez. lav., 4/07/ 2002, n. 9712).
Quanto poi al comportamento tenuto dall’Asp nello svolgimento del rapporto, è pur vero che nei contratti di diritto privato stipulati dalla Pubblica Amministrazione l’obbligo della forma scritta ad substantiam non esclude l’applicabilità del criterio di cui all’art. 1362, secondo comma, cod. civ., dovendo l’interpretazione essere condotta in base alle regole ermeneutiche di diritto comune, le quali impongono, nella ricostruzione della comune intenzione delle parti, d’interpretare il testo negoziale alla luce del comportamento tenuto dalle parti anche successivamente alla stipulazione del contratto (cfr. Cass., Sez. I, 30/09/2011, n. 20057): è stato tuttavia precisato che tale elemento può contribuire a chiarire il significato della dichiarazione di volontà, ove la stessa si presenti oscura, ambigua o suscettibile di diverse letture, ma non
può essere utilizzato per evidenziare la formazione di un consenso al di fuori dello scritto o, come nella specie, in contrasto con il contenuto dello stesso, nel senso reso palese dal suo tenore letterale (cfr. Cass., Sez. II, 4/ 06/2002, n. 8080; 2/06/2000, n. 7416).
Correttamente, pertanto, la sentenza impugnata, nel pronunciare in ordine all’eccezione di giudicato sollevata dalla difesa dell’Asp, ha ritenuto ininfluente, ai fini del rigetto della domanda, la decisione adottata dal Giudice amministrativo in ordine all’impugnazione proposta dalla ricorrente avverso i provvedimenti di revoca della convenzione adottati dall’Asp a seguito del mancato inserimento della ricorrente negli elenchi delle strutture sanitarie ammissibili all’accreditamento istituzionale per le prestazioni di riabilitazione di cui all’art. 26 della legge n. 833 del 1978, per difetto dei relativi requisiti: anche a voler negare efficacia di giudicato esterno alla sentenza n. 394 del 19 aprile 2012, con cui il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana aveva confermato la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, Sezione staccata di Catania, n. 4814 del 22 dicembre 2010, che aveva rigettato la predetta impugnazione, l’accertata estraneità delle prestazioni allegate dalla ricorrente alla convenzione dalla stessa stipulata con l’Asp sarebbe risultata di per sé sufficiente ai fini dell’esclusione dell’obbligo di quest’ultima di corrispondere l’importo richiesto. Come più volte ribadito da questa Corte, infatti, nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, l’obbligo delle aziende sanitarie locali di pagare il corrispettivo delle prestazioni sanitarie erogate da strutture private, ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, come integrato dall’art. 6 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, presuppone, oltre al rilascio dell’autorizzazione necessaria per l’esercizio della tipologia di attività svolta dalla struttura e all’adozione di un provvedimento amministrativo regionale che riconosca alla stessa la qualità di soggetto accreditato, la stipulazione di un contratto scritto volto a regolare il volume massimo delle prestazioni da erogare e le relative condizioni, sicché, in mancanza anche di una sola di queste tre condizioni, deve escludersi l’instaurazione di un valido rapporto contrattuale, idoneo a giustificare la remunerazione delle prestazioni rese in favore degli assistiti (cfr. Cass., Sez. III, 11/03/ 2020, n. 7019; 5/07/2018, n. 17588; Cass., Sez. VI, 3/06/2014, n. 12392).
L’inammissibilità delle censure esclude altresì la necessità di soffermarsi, in questa sede, sull’efficacia di giudicato della sentenza del Tribunale di Messina n. 1112/12, pronunciata tra le stesse parti e non impugnata, fatta valere dalla difesa dell’Asp nella comparsa di costituzione in appello, con cui è stata accolta l’opposizione proposta dalla controricorrente avverso un altro decreto ingiuntivo emesso per il pagamento di prestazioni rese in esecuzione della medesima convenzione nel periodo immediatamente anteriore a quello che costituisce oggetto del giudizio in esame.
È parimenti inammissibile il secondo motivo, riguardante l’ammissibilità della domanda di riconoscimento dell’indennizzo per ingiustificato arricchimento.
Come riferisce la stessa ricorrente, a fondamento della dichiarazione d’inammissibilità della predetta domanda il Giudice di primo grado aveva richiamato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità all’epoca prevalente, secondo cui nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento di somme richieste in base ad un titolo contrattuale, l’opposto, rivestendo la posizione sostanziale di attore, non può avanzare domande diverse da quella proposta con il ricorso monitorio (cfr. Cass., Sez. III, 10/03/ 2021, n. 6579; Cass., Sez. II, 25/02/2019, n. 5415; Cass., Sez. I, 22/06/ 2018, n. 16564; v. anche, con specifico riferimento alla domanda di cui all’art. 2041 cod. civ., Cass., Sez. I, 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. III, 9/04/ 2013, n. 8582). La Corte territoriale, pur reputando inappropriato il predetto richiamo, poiché la domanda di riconoscimento dell’indennizzo per l’ingiustificato arricchimento era stata proposta in replica all’eccezione di nullità del contratto sollevata dall’Asp, ha ritenuto non pertinente il motivo di appello formulato in proposito dalla ricorrente, rilevando che quest’ultima si era limitata ad insistere sulla validità della convenzione, senza far valere ragioni di ordine processuale idonee a legittimare la proposizione della predetta domanda. Nel censurare tale statuizione, la ricorrente dimostra ancora una volta di non aver colto la ratio decidendi della sentenza impugnata, consistente nel difetto di pertinenza del motivo di appello, affermando di aver correttamente formulato la domanda in tutti i suoi elementi essenziali e lamentando il mancato esercizio del potere d’interpretazione e qualificazione spettante al giudice
di merito, senza spiegare le ragioni per cui la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere ammissibile il gravame, nonostante la riferibilità dello stesso al merito della controversia, anziché alla questione di natura processuale, avente carattere pregiudiziale, rilevata dalla sentenza di primo grado.
Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 25/09/2024