Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 20625 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 20625 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 24/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 33589/2019 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMAINDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALECODICE_FISCALE che l a rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO DI ROMA n. 5450/2019, depositata il 10/09/2019;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/07/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
RILEVATO CHE:
RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE) evocava in giudizio innanzi al Tribunale di Roma RAGIONE_SOCIALE (‘RAGIONE_SOCIALE‘), quale società di gestione del RAGIONE_SOCIALE (‘RAGIONE_SOCIALE‘), chiedendo – originariamente – il trasferimento ex art. 2932 cod. civ. del complesso immobiliare sito in Roma oggetto di contratto preliminare stipulato tra le parti in causa in data 09.11. 2011; successivamente, modificando la domanda, l’attrice chiedeva l’accertamento della legittimità del proprio recesso da detto contratto preliminare per l’inadempimento della società venditrice convenuta, con la condanna della medesima alla restituzione della somma di €. 6.400.000,00, pari al doppio della caparra versata dall’attrice.
Il Tribunale di Roma accertava il legittimo recesso della RAGIONE_SOCIALE, in quanto il provvedimento amministrativo attestante la regolarizzazione di eventuali difformità urbanistico edilizie (verbale di intesa Stato-Regione) risultava essere stato redatto il 28/29.12.2011, ossia in data successiva rispetto a quella fissata nel preliminare per la stipula del contratto definitivo (15.12.2011). Condannava, quindi, RAGIONE_SOCIALE alla restituzione del doppio della somma corrisposta a titolo di caparra.
La pronuncia del giudice di prime cure veniva impugnata da RAGIONE_SOCIALE innanzi alla Corte d’Appello di Roma, la quale, con sentenza n. 5450/2019, rigettava il gravame cosi argomentando:
la verifica di conformità urbanistica costituisce un accertamento dovuto ed inerente la realizzazione degli immobili oggetto della compravendita: in assenza del verbale di intesa Stato-Regione sulla
conformità urbanistica non è, pertanto, regolare procedere al trasferimento degli immobili, per di più senza il consenso della parte promissaria acquirente a voler procedere ugualmente alla stipula dell’atto definitivo;
il promittente venditore, dunque, non essendo stato in grado di consegnare il verbale di intesa Stato-Regione entro il termine stabilito contrattualmente, non poteva validamente invocare la risoluzione del contratto;
inoltre, RAGIONE_SOCIALE ha anche rifiutato di accogliere la disponibilità dell’acquirente al differimento della stipula a data successiva all’ottenimento del sopra richiamato provvedimento amministrativo, ritenendo invece di contestare alla parte promittente acquirente l’infondato suo inadempimento.
Avverso la suddetta sentenza proponeva ricorso per RAGIONE_SOCIALE affidandosi a due motivi e illustrando il ricorso con memoria.
Si difendeva RAGIONE_SOCIALE in liquidazione depositando controricorso.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 29 D.L. n. 269/2003 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 326/2003 (art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ.). In tesi, la stipula dell’atto definitivo sarebbe stata possibile anche prima dell’acquisizione del verbale d’intesa Stato-Regione, in quanto in sede di conversione del D.L. 30 settembre 2003 n. 269, la legge 24 novembre 2003 n. 326, aggiungeva l’art. 29, comma 1 -bis che, con la privatizzazione dell’apporto ai fondi, la destinazione urbanistica degli uffici pubblici doveva intendersi equiparata alla destinazione contenuta negli strumenti urbanistici e nei regolamenti edilizi ad
attività direzionali lo svolgimento di servizi. In altri termini, perseguendo il preminente interesse statale alla privatizzazione di detti uffici pubblici, tale equiparazione normativa dettava direttamente la nuova destinazione urbanistica e privatistica («attività direzionali o per lo svolgimento di servizi»); sì che l’intesa prevista dal regolamento del 1994 richiamato nella stessa disposizione si risolve in un atto amministrativo meramente ricognitivo della conformità di tale nuova destinazione dettata dal legislatore a quella del Piano Regolatore Generale (nel caso di specie) di Roma. Pertanto, essendosi RAGIONE_SOCIALE rifiutata di stipulare il contratto definitivo entro il termine essenziale contrattualmente previsto, correttamente RAGIONE_SOCIALE ha esercitato il diritto di recesso dal contratto trattenendo la caparra ricevuta.
1.1. Il motivo è infondato.
L’inciso cui fa riferimento il mezzo di gravame ( art. 29, comma 1bis , 2° inciso) così recita: «Per le opere rientranti nelle procedure di valorizzazione e dismissione indicate nel primo periodo del presente comma, ai soli fini dell’accertamento di conformità previsto dagli articoli 2 e 3 del citato regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 383 del 1994, la destinazione ad uffici pubblici è equiparata alla destinazione, contenuta negli strumenti urbanistici e nei regolamenti edilizi, ad attività direzionali o allo svolgimento di servizi». Tuttavia, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, il Collegio ritiene che la citata disposizione non si risolve in una sorta di «conformità ex lege » al PRG degli uffici pubblici da conferire al FIP, unicamente in virtù della nuova destinazione urbanistica e privatistica (ossia, le «attività direzionali o per lo svolgimento di servizi»). L’intesa Stato -Regione (prevista dall’art. 2 D .P.R. 18 aprile 1994, n. 383) resta l’atto finale di una procedura complessa, dettata dal
compendio normativo sopra richiamato, al fine di attestare la conformità dell’immobile in dismissione alle prescrizioni delle norme e dei piani urbanistici ed edilizi.
In sintesi: la conformità dello stato di fatto allo stato di diritto non è toccata dall’art. 29, comma 1 -bis citato.
Tanto chiarito , correttamente la Corte d’Appello ha ritenuto che non sarebbe stato regolare procedere al trasferimento in assenza di detto provvedimento amministrativo, così ritenendo legittima la richiesta dei promissari acquirenti di differire a data successiva la stipula del contratto definitivo (v. sentenza p. 7, righi 1-18).
Con il secondo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1358 e 1385 cod. civ. (art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ.). Sostiene la ricorrente che, anche a voler assumere che la consegna dell’atto ricognitivo costituisse una condizione sospensiva, in ogni caso si dovrebbe ritenere che la volontà di recedere manifestata da RAGIONE_SOCIALE con la missiva del 16.12.2011 fosse inidonea a pregiudicare le ragioni della promissaria acquirente, in quanto meramente inefficace.
2.1. Il motivo è infondato. La Corte d’Appello ha ritenuto « assolutamente illegittimo da parte dell’appellante il voler trattenere la caparra che, invece, deve essere restituita in misura raddoppiata … » (v. sentenza p. 7, righi 18-19) in quanto RAGIONE_SOCIALE aveva rifiutato di accogliere la disponibilità dell’acquirente RAGIONE_SOCIALE al differimento della stipula a data successiva all’ottenimento del provvedimento amministrativo. In altri termini, il giudice di seconde cure non si è limitato ad evidenziare l’il legittimità del recesso della promittente venditrice, ma ha voluto espressamente riconoscere alla promissaria acquirente il diritto a chiedere il doppio della caparra versata, stante l’inadempimento della controparte .
3. In definitiva, il Collegio rigetta il ricorso.
Le spese seguono la soccombenza come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte Suprema di RAGIONE_SOCIALE rigetta il ricorso;
condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore della controricorrente, che liquida in €. 12.0 00,00 per compensi, oltre ad € . 200,00 per esborsi e agli accessori di legge nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis , del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Seconda