Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 2676 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 2676 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 32208/2020 R.G. proposto da :
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in ROMA LARGO INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO BOLOGNA n. 2068/2020 depositata il 23/10/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/01/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.Il ricorso riguarda la sentenza con cui la Corte d’Appello di Bologna ha confermato la decisione del Tribunale di Parma che ha respinto la domanda proposta da NOME COGNOME nei confronti di Banca Monte dei Paschi s.p.a., diretta a sentir dichiarare la nullità del contratto quadro del 2.1.1992 relativo a intermediazione finanziaria in materia di derivati per assenza di firma della banca e per mancato successivo adeguamento alla normativa intervenuta, oltre che delle conseguenti operazioni in derivati (con ordini sono telefonici nulla prevedendo in proposito il contratto quadro) che avevano determinato a un saldo debitore del conto corrente per euro 1.186.468,35 al 31/12/2011.
Il Tribunale aveva anche respinto la domanda di risoluzione delle operazioni in derivati e il risarcimento del danno per la somma corrispondente al saldo passivo del conto, per violazione degli obblighi comportamentali dell’intermediario (per mancata profilazione del cliente, mancata consegna del documento sui rischi generali, inadeguatezza delle operazioni di importo superiore al 25% del patrimonio, e superamento dei margini di garanzia fissati dal contratto in euro 800.000) accogliendo l’eccezione di prescrizione della banca per non essere state individuate dall’attore le operazioni nel decennio oggetto di doglianza.
-La Corte territoriale ha deciso il gravame osservando:
quanto alla validità del contratto-quadro che: (i) la validità del contratto c.d. «monofirma» era ormai acquisita dopo la sentenza delle Sezioni Unite n.898/2018, che la copia era in possesso dell’appellante e che, in ogni caso, il contratto originario era firmato da un funzionario che non era stato contestato fosse carente del relativo potere; (ii) non era stato specificamente indicato dove e in quale parte il contratto-quadro del 1992 sarebbe
stato carente di requisiti successivamente stabiliti a pena di nullità (fermo che il contratto-quadro era stato poi adeguato nel 1997, nel 2000 e nel 2009, come da ampia documentazione prodotta dalla banca);
b) quanto alla validità delle successive operazioni negoziate, che già il contratto-quadro del 1992 prevedeva la possibilità di ordini telefonici, ordini che, in linea generale, non necessitano ex lege di forma scritta, tantomeno a pena di nullità, laddove peraltro non era contestato che gli ordini fossero stati effettivamente impartiti dal cliente;
c) quanto alle altre contestazioni: (i) che nessuna operazione (tra le molte che presumibilmente erano avvenute nell’arco di un ventennio) era stata mai individuata dall’appellante quale fonte delle sue contestazioni, le quali, quindi, erano da ritenersi inammissibilmente estese a tutte le operazioni passive, mai specificate per tipologia, importo ed esito; (ii) pertanto la somma portata dal saldo debitorio al 31/12/2011 era inconferente, trattandosi del saldo negativo di un conto corrente generale sul quale confluivano una pluralità di operazioni, anche diverse da quelle in derivati; sicché, in mancanza delle specifiche allegazioni e prove cui era tenuto l’appellante (dimostrare se e in quale misura il saldo derivasse da operazioni in derivati ipoteticamente illegittime) non poteva considerarsi «debito inesistente» quello derivante da una serie di addebiti eterogenei e indeterminati; pertanto la domanda non poteva essere accolta per difetto della documentazione prodotta (l’appellante aveva prodotto solo alcuni estratti conto relativi al 2011) e per genericità e indeterminatezza della determinazione sottostante al quantum preteso; (iii) che il cliente, infine, risultava più volte profilato con attitudine speculativa, alta esperienza e alta propensione al rischio; che risultavano consegnati i documenti sui rischi generali e che era rimasta indimostrata l’asserzione -contestata- riguardante il fatto
che l’investimento aveva riguardato oltre il 25% del patrimonio del cliente (censura che, peraltro, doveva essere riferita ad ogni singola operazione e non ad una totalità di movimenti nel corso del tempo) come pure quella dello sforamento dei margini di garanzia.
3.- Avverso la sentenza NOME COGNOME ha presentato ricorso affidandolo a tre motivi di cassazione, corredato di memoria. Ha resistito MPS, la quale ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. dell’art. 23 d.lgs. n. 58/1998 e dell’art. 2735 comma 2 c.c., per avere la Corte d’appello -come già il Tribunale – rigettato la domanda di nullità per difetto di forma del contratto-quadro innanzitutto in quanto ritenuto firmato per accettazione da un funzionario di cui non erano stati contestati i poteri, laddove nel proprio gravame d’appello il ricorrente aveva contestato che il contratto non poteva essere considerato sottoscritto anche da un rappresentante della banca; quanto alla sentenza delle Sezioni Unite richiamate dalla Corte di merito, ha sottolineato che detta sentenza presuppone, comunque, che vi sia stata la consegna di un’esemplare del contratto al cliente e che la dichiarazione resa in proposito dallo COGNOME di aver ricevuto il contratto sottoscritto dall’Istituto, non poteva essere valorizzata come prova della detta circostanza di fatto, non potendo un contratto la cui forma scritta è prevista ad substantiam essere provata con testimonianze e quindi con confessione; che, infine, inconferente era l’osservazione per cui la difesa dell’appellante non aveva indicato in quale parte il contratto del 1992 era stato carente rispetto ai requisiti successivamente imposti, in quanto tale deduzione non riguardava la validità del contratto per difetto di forma, ma l’inadempimento della banca derivante dalla mancata osservanza della direttiva Mifid.
1.1.Il motivo è inammissibile. Quanto alla validità del contratto- quadro del 1992 , si osserva che la statuizione della Corte d’appello si fonda su una doppia ratio decidendi , onde va fatta applicazione del consolidato principio per cui quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed autonome rationes decidendi , ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, perché possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile non solo che il soccombente censuri tutte le riferite rationes , ma anche che tali censure risultino tutte fondate (Cass., Sez. III, 24 maggio 2006, n. 12372; Cass., Sez. II, 2 maggio 2011, n. 9647; Cass., Sez. I, 11 marzo 2019, n. 6985; Cass., Sez. III, 18 aprile 2019, n. 10815); pertanto basterà rilevare che la contestazione della prima ratio -che riguarda la validità del c.d. contratto monofirma per sottoscrizione del solo cliente – in quanto fondata sul fatto che la Corte di merito avrebbe erroneamente ritenuto provata la consegna della copia del contratto stesso, è inammissibile poiché il ricorrente introduce in questa sede una questione di fatto – ovvero la mancata consegna di copia del contratto al cliente – che non risulta oggetto del contraddittorio del giudizio, né in primo né in secondo grado, dato che la Corte d’Appello si limita a rilevare che «una copia era in possesso dell’appellante», né il ricorrente ha indicato – come sarebbe stato suo onere in conformità al principio di autosufficienza e specificità dei motivi di ricorso di cui all’art. 366 comma 1 n. 4 e 6 c.p.c. – dove e come avrebbe contestato il fatto che qui pretende erroneamente accertato, dovendosi dare continuità, anche in ordine a detto rilievo, al principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità per cui qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorso deve, a pena di inammissibilità, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo
abbia fatto, in virtù del principio di autosufficienza del ricorso, dovendo i motivi del ricorso per cassazione investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito né rilevabili d’ufficio (v. Cass. n. 17041/2013; Cass. n. 15430/2018; Cass. n. 20712/2018). Pertanto la circostanza della consegna del contratto al cliente (contratto depositato dallo stesso COGNOME in giudizio) non risulta essere mai stata contestata, onde non doveva (né risulta essere stata) oggetto di prova; il che esime dal sottolineare -a proposito della sua infondatezza – che « in tema di contratti bancari, il requisito della forma scritta ad substantiam, previsto dall’art. 117 del d.lgs. n. 385 del 1983 e dall’art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, attiene alla veste esteriore del contratto e alla modalità espressiva dell’accordo, non estendendosi alla consegna del documento contrattuale concluso in tale forma, che ove omessa non produce alcuna nullità negoziale » (Cass. n.18230/2024), onde la prova della consegna non è soggetta ad alcun limite.
Ne consegue che il motivo di appello che riguarda la seconda ratio decidendi sul punto (sottoscrizione del contratto ad opera del dipendente) è inammissibile.
– Il secondo motivo denuncia violazione o falsa applicazione ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. dell’art. 2697 c.c. in quanto la Corte di merito, non avrebbe preso in considerazione l’estratto conto dove erano indicate tutte le operazioni che hanno portato lo Zeni alla minusvalenza di euro 661.406,00 somma questa diversa dal saldo passivo di euro 1.186.468,35; dunque la stessa avrebbe errato per aver omesso di considerare ché nell’estratto conto erano indicate tutte le operazioni in derivati che avevano portato a quella minusvalenza « con l’effetto che la pretesa omessa indicazioni delle stesse non è altro che il prodromo di un’omessa pronuncia ».
2.1Il motivo è evidentemente inammissibile per plurime ragioni: a) in quanto palesemente carente del requisito dell’autosufficienza, poiché , ancora una volta, il ricorrente pretende di sottoporre in questa sede di legittimità una questione di fatto nuova e mai dedotta: invero né dalla parte motiva della sentenza gravata, né nella parte in cui la medesima riassume i motivi d’appello, risulta allegata la minusvalenza di euro 661.406,00 di cui parla il ricorrente, che vi accenna nella parte illustrativa del motivo di ricorso (laddove, peraltro, nella parte espositiva del ricorso le conclusioni rese in primo grado indicano la quantificazione del danno nella di 1.186.468,35) senza indicare, in violazione dell’art. 366 comma 1 n. 4 e 6 c.p.c., in quale atto e per mezzo di quale documento l’avesse sottoposto al contraddittorio e al giudice, dovendosi richiamare quanto sopra osservato, ovvero che « qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorso stesso deve, a pena di inammissibilità, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto in virtù del principio di autosufficienza del ricorso» (Cass. n.35776/2023), e che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione -che impone l’indicazione espressa degli atti processuali o dei documenti sui quali il ricorso si fonda – « va inteso nel senso che occorre specificare anche in quale sede processuale il documento risulta prodotto, poiché indicare un documento significa necessariamente, oltre che specificare gli elementi che valgano ad individuarlo, riportandone il contenuto, dire dove nel processo esso è rintracciabile, sicché la mancata localizzazione del documento basta a dichiarare l’inamissibilità del ricorso » (Cass. n. 28184 del 2020; b) non ha alcuna conferenza il richiamo alla violazione dell’art. 2697 c.c. essendo principio consolidato quello secondo cui la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. è configurabile
soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata (ribaltamento del riparto degli oneri probatori nel caso di specie neppure è denunciato) e non, invece, laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (e multis , Cass. n. 7919/2020; Cass. n. 17313/2020; Cass. n. 1634/2020; Cass. n. 26769/2018), poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. o nei ristretti limiti in cui è ammesso censurare la motivazione in quanto non integri il «minimo costituzionale» secondo i criteri indicati da Cass. Sez. Un. n. 8053/2014; c) il ricorrente non si confronta con la ratio decidendi che si fonda sul fatto che la allegazione in fatto del ricorrente circa le perdite subite per effetto di operazione sui derivati è rimasta del tutto generica e pertanto del tutto sfornita di prova.
3.- Il terzo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. 21 T.U.F. e 1453 c.c. senza che sia indicato lo specifico vizio che il ricorrente intende far valere, e che, tuttavia, dall’illustrazione del motivo pare attenere all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., in quanto il ricorrente censura l’omessa pronuncia sulla domanda di risoluzione per inadempimento e di risarcimento danni, rispetto alle quali era stato contestato l’inadeguatezza dell’importo delle operazioni di investimento che rappresentavano ben più del 25% del patrimonio investito dallo RAGIONE_SOCIALE e avevano superato il margine di garanzia fissato nel contratto in 800.000 di euro.
3.1.- Il motivo è del tutto inammissibile perché il ricorrente non si confronta con la ratio decidendi che sorregge il rigetto della domanda di risoluzione e di risarcimento del danno, che si fonda, come detto, sulla genericità delle allegazioni circa la tipologia, il contenuto e le somme coinvolte nelle operazioni sui derivati che il ricorrente assume avrebbero prodotto il danno preteso, e sulla
mancanza di produzione di qualsiasi documentazione in proposito, a fronte di una conto corrente generico, rispetto al quale erano stati prodotti solo alcuni estratti conti dell”anno 2011, e il cui saldo era inconferente per essere il frutto di altre operazioni che nulla avevano a che fare con le operazioni contestate; sicchè – a fronte di siffatta indeterminatezza della domanda – del tutto impossibile era valutare la fondatezza delle pretese inadempienze al contratto come dedotte.
In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come nel dispositivo, ai sensi del D.M. 12 luglio 2012, n. 140. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore di parte controricorrente liquidate nell’importo di euro 12.200,00 di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% sul compenso ed agli accessori come per legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dalla I. 24 dicembre 2012, n. 228, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1- bis.
Cosí deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1° Sezione