Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 32574 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 32574 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 14/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21384/2022 R.G. proposto da :
COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa da ll’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
-ricorrente-
contro
COGNOME rappresentata e difesa da ll’avvocato NOME COGNOMECODICE_FISCALE elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D ‘ APPELLO di ROMA n. 3627/2022 depositata il 26/05/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/10/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
LOCAZIONE AD USO DI ABITAZIONE.
R.G. 21384/2022
COGNOME
Rep.
C.C. 14/10/2024
C.C. 14/4/2022
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME intimò sfratto per morosità a NOME COGNOME in relazione ad un immobile da lei locato per uso abitativo con contratto del 9 gennaio 2012 e la citò contestualmente per la convalida davanti al Tribunale di Roma.
A sostegno della domanda espose, tra l’altro, che la conduttrice non aveva pagato i canoni dei mesi di luglio, agosto, settembre e ottobre 2013, per la somma complessiva di euro 3.800, nonché gli oneri condominiali per la somma di euro 2.800.
Si costituì in giudizio la COGNOME, opponendosi alla convalida e chiedendo il rigetto della domanda. L’intimata osservò, tra l’altro, che il rapporto contrattuale era sorto, in realtà, in data 1° marzo 2011 con una locazione verbale non registrata, per cui doveva essere applicata la previsione dell’art. 13 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, nel testo allora vigente; che il secondo contratto era stato sottoscritto, con un canone aumentato, sotto minaccia di sfratto e che, pertanto, la morosità non sussisteva, posto che il canone del contratto doveva essere determinato in base agli accordi territoriali.
Il Tribunale ordinò alla Delfino il rilascio dell’immobile ai sensi dell’art. 665 cod. proc. civ. e dispose il mutamento del rito, concedendo i termini di cui all’art. 426 cod. proc. civ. per l’integrazione degli atti.
Con la sentenza definitiva del 24 settembre 2015 il Tribunale accolse la domanda della COGNOME, dichiarò risolto, per inadempimento della conduttrice, il contratto del 9 gennaio 2012 e la condannò al pagamento di tutti i canoni maturati e da maturarsi fino alla materiale riconsegna dell’immobile, nonché degli oneri condominiali insoluti, con il carico delle spese di giudizio.
La decisione è stata impugnata dalla conduttrice soccombente e la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 26
maggio 2022, ha rigettato il gravame e ha condannato l’appellante alla rifusione delle ulteriori spese del grado.
Ha osservato la Corte territoriale, trattando congiuntamente i motivi di appello primo, secondo e quarto, che la tesi dell’appellante era priva di fondamento. Ed invero la nullità, per difetto di forma scritta, del primo contratto, stipulato nel 2011, non poteva travolgere la validità del successivo contratto del 9 gennaio 2012, «per l’assorbente rilievo che esso è stato redatto per iscritto ed è stato registrato». Né poteva ritenersi che il secondo contratto fosse la continuazione del precedente o che lo avesse convalidato , «non operando l’istituto della convalida nelle ipotesi di nullità per mancanza di un elemento essenziale» (nella specie, la forma). Il secondo contratto, in altre parole, costituiva la rinnovazione del primo, con contestuale creazione di un nuovo negozio destinato a sostituirsi al primo.
Da tanto conseguiva l’infondatezza delle domande della conduttrice fondate sulla presunta invalidità del contratto del 2012, posto che la locazione di fatto si era realizzata solo per l’anno 2011 ed era, quindi, solo in relazione a quel periodo che poteva essere esaminata la domanda di rimborso dei canoni proposta dalla COGNOME.
Tanto premesso, la Corte di merito ha rilevato che la domanda di restituzione integrale dei canoni versati avanzata dalla conduttrice non poteva trovare accoglimento, perché quest’ultima aveva comunque fruito dell’immobile, per cui si sarebbe determinato un indebito arricchimento in suo favore. D’altra parte, anche la domanda di riconduzione del contratto di locazione verbale alle previsioni della legge n. 431 del 1998 era priva di fondamento, trattandosi di un’ipotesi non percorribile una volta che era terminata la locazione di fatto; né la conduttrice aveva dato prova dell’imposizione, da parte della locatrice, del contratto verbale in origine concluso. Quanto alle prove orali richieste dall’appellante, le
stesse non potevano essere ammesse perché sarebbe stato onere dell’appellante riproporle nel giudizio di secondo grado.
Passando poi all’esame del terzo motivo di appello, la Corte romana ha rilevato che non poteva trovare applicazione il meccanismo correttivo di cui all’art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23 -cioè quello della determinazione del canone in misura pari al triplo della rendita catastale -perché «esso opera a decorrere dalla registrazione del contratto, che, nel caso di specie, è avvenuta nel 2014, dunque successivamente alla locazione di fatto, essendo stata superata dalla stipula di un valido contratto scritto e registrato avvenuta nel 2012».
Contro la sentenza della Corte d’appello di Roma ha proposto ricorso NOME COGNOME con atto affidato a due motivi.
Ha resistito NOME COGNOME con controricorso.
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile con una proposta di definizione anticipata ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., depositata dal Consigliere delegato in data 26 febbraio 2024.
Avverso tale proposta il ricorrente ha chiesto che il ricorso venga collegialmente deciso a seguito di discussione in pubblica udienza; la trattazione è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis .1. cod. proc. civ. e il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni.
Le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
La Corte rileva, preliminarmente, che sono infondate entrambe le eccezioni di improcedibilità del ricorso sollevate nel controricorso.
La ricorrente, infatti, ha regolarmente allegato la copia notificata della sentenza d’appello (notifica avvenuta il 6 giugno 2022), il che dimostra come la notifica del ricorso sia avvenuta tempestivamente; analogamente, la procura speciale conferita da NOME COGNOME all’avv. NOME COGNOME risponde ai criteri ribaditi anche di
recente dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenze 9 dicembre 2022, n. 36057, e 19 gennaio 2024, n. 2075).
Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione degli art. 13, comma 6, 2, comma 3, e 13, comma 4, della legge n. 431 del 1998, per mancata riconduzione del rapporto e del canone alle previsioni di cui all’art. 2, comma 3, della legge stessa.
Ad avviso della ricorrente, la sentenza contiene due errori di diritto.
Si premette che, in ottemperanza al primo contratto, la ricorrente aveva versato, dal marzo al dicembre 2011, la somma di euro 850 al mese, per un esborso complessivo di euro 8.500 (più euro 1.700 a titolo di deposito). Nel giudizio di primo grado, cominciato nel 2014, la ricorrente aveva chiesto che tanto il primo contratto (verbale) quanto il secondo (scritto) fossero ricondotti alla previsione dell’art. 13, comma 5, della legge n. 431 del 1998 nel testo allora vigente, prima della modifica introdotta nel 2015, con contestuale richiesta di interrogatorio formale della locatrice.
Richiamati i passaggi fondamentali dell’impugnata decisione, la ricorrente osserva che la forma orale del primo contratto è tale da determinarne la nullità assoluta, peraltro emendabile, a richiesta del conduttore, attraverso il meccanismo di cui all’art. 13, comma 5, cit. nel testo precedente, che consentiva la riconduzione del canone a quanto previsto negli accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative. Da tanto consegue che per il periodo che va dal 1° marzo 2011 all’8 gennaio 2012 la Corte d’appello le avrebbe dovuto riconoscere il diritto alla ripetizione dei canoni eccedenti rispetto al canone determinato in base agli accordi suindicati; e tanto o in base all’art. 13, comma 5, cit., ovvero in base all’art. 13, commi 6 e 7, come riscritti dall’art. 1, comma 59,
della legge 28 dicembre 2015, n. 208, nel frattempo sopravvenuta. La richiesta di applicazione, in via alternativa, dell’una o dell’altra disposizione era stata determinata dall’incertezza in quel momento esistente sulla natura retroattiva o meno della riforma del 2015. La censura implica che comunque, ad avviso della ricorrente, ella aveva versato alla locatrice, per il periodo di durata della locazione verbale, un canone superiore a quello che poteva essere tenuta a corrispondere.
La ricorrente dichiara di condividere l’osservazione della Corte d’appello là dove ha affermato che la totale ripetizione delle somme versate avrebbe comportato un indebito arricchimento a favore della conduttrice. Non concorda, però, col passaggio successivo nel quale la Corte ha negato la ripetizione sul rilievo che la locazione di fatto si sarebbe esaurita, posto che l’art. 13, comma 6, cit., fissa come unico termine quello di sei mesi dalla riconsegna dell’immobile locato; e nel caso in esame l’azione di cui all’art. 13 è stata esperita ben prima del rilascio dell’appartamento. Calcolando, alla luce del criterio fissato dalla legge, la somma che realmente la COGNOME era tenuta a pagare, la ricorrente perviene all’ulteriore conclusione per cui non vi sarebbe, nel caso di specie, alcuna morosità da parte sua, avendo ella corrisposto una somma maggiore di quella dovuta.
La prima censura conduce, ad avviso della ricorrente, a dimostrare il secondo errore dal quale sarebbe afflitta la sentenza impugnata.
Si sostiene, sul punto, che l’imposizione, nel secondo contratto, di un canone maggiorato di euro 100 mensili costituirebbe un abuso del diritto, vietato ai sensi dell’art. 13, comma 4, della legge n. 431 del 1998. Una volta accertato che dovevano applicarsi, nella specie, «le previsioni degli accordi territoriali ex art. 2, comma 3, cit., diviene nulla ogni previsione volta a ad ottenere un canone superiore a quello massimo definito
dagli accordi conclusi in sede locale , con la conseguenza che anche per il periodo disciplinato dal secondo contratto la ricorrente ha diritto a ricondurre integralmente il rapporto alle tariffe di canone previste in sede di accordo territoriale». In altri termini, «il rapporto locatizio dal momento della sua instaurazione (1° marzo 2011) sino alla sua illegittima cessazione avvenuta ope iudicis con la sentenza di prime cure e fino alla materiale riconsegna dell’appartamento avvenuta, in forza di atti esecutivi, in data 17 settembre 2014, doveva essere assistito dalle previsioni del canone ex art. 2, comma 3, della legge n. 431 cit. ed anche in tale caso, a fortiori , rispetto a quanto già detto sopra, non sussisteva alcuna morosità, ma anzi un credito di oltre euro 25.000». Il secondo contratto, quindi, costituirebbe null’altro che il mezzo fraudolento finalizzato a consentire alla locatrice di conseguire un aumento del canone previsto dall’art. 2 della legge citata; per cui la Corte d’appello avrebbe «totalmente ignorato il meccanismo sostitutivo -sanzionatorio previsto dall’art. 2, comma 3, della legge n. 431 cit., così come richiamato dall’art. 13, comma 6, cit. interpretato in combinato disposto con il comma 4, dell’art. 13 cit.».
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 346, 420, quinto comma, e 437, secondo comma, cod. proc. civ., per la mancata ammissione dei mezzi istruttori volti a far emergere l’abuso della locatrice.
La ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato di non poter ammettere i mezzi istruttori articolati con la memoria di cui all’art. 426 cod. proc. civ. per la mancata reiterazione della relativa richiesta in grado di appello. La COGNOME ricorda di aver chiesto in primo grado l’ammissione dell’interrogatorio formale della COGNOME sui capitoli da 1.1. a 1.9 indicati nella memoria citata, capitoli finalizzati a dimostrare «l’abuso perpetrato dalla Sig.ra COGNOME sia con riferimento alla
mancata registrazione, sia con riferimento alla stipula del secondo contratto» (capitoli trascritti nel ricorso). Poiché la prova richiesta non era stata ammessa in primo grado, la formula con la quale tale prova era stata sollecitata in appello doveva essere ritenuta sufficiente, «poiché alla fattispecie, pacificamente, si applica il rito del lavoro ed in tale rito l’impugnazione totale della sentenza di prime cure fa ritenere automaticamente correttamente richiesti i mezzi istruttori, senza bisogno di ulteriori attività».
La Corte osserva, innanzitutto, che non può essere condivisa la proposta di definizione anticipata di cui si è detto, per cui ragioni di economia processuale sconsigliano di trascriverne il contenuto, mentre si impone l’esame nel merito dei due motivi di ricorso.
A tal fine, la Corte ritiene utile sintetizzare in pochi passaggi l’ iter logico contenuto nella motivazione della sentenza impugnata.
La Corte d’appello ha, in sostanza, affermato che: 1) le parti avevano stipulato, dopo il primo contratto verbale, un secondo contratto in forma scritta, regolarmente registrato e, come tale, pienamente valido; ne consegue che la nullità del primo contratto non travolgeva la validità del successivo; 2) il contratto del 2012 era una rinnovazione del precedente e si sostituiva al medesimo; 3) l’azione di ripetizione del canone versato in eccedenza, proponibile solo in relazione al contratto verbale, era infondata, perché il suo accoglimento avrebbe determinato un arricchimento senza causa a favore del conduttore; 4) la riconduzione del primo contratto alle regole dell’art. 2 della legge n. 431 del 1998 era improponibile, poiché la locazione di fatto era cessata; 5) la conduttrice non aveva dato prova del fatto che il contratto verbale fosse stato imposto dalla locatrice; 6) il meccanismo sostitutivo di cui all’art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 23 del 2011 non poteva, nella specie, trovare applicazione, poiché esso, per poter operare, presuppone la registrazione del contratto, avvenuta solo nel 2014,
quando il contratto verbale era venuto a meno a seguito della registrazione del secondo; 7) non si poteva dare ingresso alla prova orale perché la richiesta di assunzione non era stata ribadita in appello.
Tanto premesso, il Collegio rileva che nella presente vicenda vi sono i seguenti punti fermi dai quali non è più possibile prescindere.
Il secondo contratto, stipulato il 9 gennaio 2012 e destinato a durare fino al 31 dicembre 2015, cioè per quattro anni, non ha determinato alcuna criticità tra le parti fino al giugno dell’anno 2013, momento a partire dal quale la locatrice ha lamentato la morosità della conduttrice, donde l’origine della presente causa che è la procedura di sfratto per morosità.
Nel momento in cui la causa ebbe avvio, il testo dell’art. 13, comma 5, della legge n. 431 del 1998 era quello originario, che stabiliva che la riconduzione del contratto alle condizioni dell’art. 2 poteva avvenire anche nei casi in cui il locatore aveva preteso l’instaurazione di un rapporto di locazione di fatto , in violazione dell’obbligo di forma scritta di cui all’art. 1, comma 4, della legge stessa.
La registrazione del primo contratto, cioè quello verbale, intervenne solo in data 27 febbraio 2014 (è la stessa ricorrente a fornire quest’informazione, v. p. 4 del ricorso), cioè quando la locazione verbale era stata ormai ampiamente superata dal successivo contratto scritto (il quale fu registrato il 24 gennaio 2012, v. ancora il ricorso alla p. 3).
Lo sfratto venne materialmente eseguito il 17 settembre 2014 (così si dice nel controricorso, con circostanza sostanzialmente confermata anche nel ricorso), mentre la sentenza definitiva del Tribunale fu pronunciata il 24 settembre 2015; da tanto consegue che la modifica dell’art. 13 della legge n. 431 del 1998, avvenuta ad opera dell’art. 1, comma 59, della legge 28
dicembre 2015, n. 208, è sopraggiunta nelle more del giudizio di appello.
6.1. Non è il caso di soffermarsi in modo analitico sulla tormentata vicenda che ha portato, attraverso la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 23 del 2011, alla modifica dell’art. 13 della legge n. 431 del 1998, vicenda già scrutinata in più occasioni dalla giurisprudenza di questa Corte.
Nella presente sede giova soltanto ricordare che, a seguito di due pronunce di illegittimità della Corte costituzionale (sentenze n. 50 del 2014 e n. 169 del 2015), la disciplina contenuta nel suindicato art. 3, commi 8 e 9, è stata sostanzialmente trasposta, con una serie di significative modifiche, nel testo novellato dell’art. 13 della legge n. 431 del 1998; norma, quest’ultima, sottoposta a sua volta al vaglio del Giudice delle leggi e passata indenne al controllo di costituzionalità (sentenza n. 87 del 2017), in considerazione essenzialmente del fatto che la norma dell’art. 13, comma 5, cit., a differenza di quelle dichiarate illegittime, non ripristina né ridefinisce il contenuto relativo a durata e corrispettivo dei pregressi contratti non registrati (v. sul punto anche la sentenza 8 settembre 2022, n. 26493, di questa Corte).
Com’è noto, la disciplina di cui all’art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 23 del 2011 prevedeva che, in caso di contratto di locazione non registrato, a decorrere dalla registrazione il canone annuo di locazione fosse fissato in misura pari al triplo della rendita catastale. Il testo originario dell’art. 13, comma 1, della legge n. 431 del 1998 stabiliva la nullità di ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione «superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato» e aggiungeva, al comma 4, che, in relazione ai contratti di cui all’art. 2, comma 3, della legge stessa, fosse nulla ogni pattuizione volta a concedere al locatore un canone superiore a quello fissato dagli accordi definiti
in sede locale. Nei casi di nullità di cui al comma 4, il successivo comma 5 dell’art. 13 prevedeva, nel testo originario, che il conduttore, entro sei mesi dalla riconsegna dell’immobile locato, potesse chiedere «la restituzione delle somme indebitamente versate», ovvero la riconduzione del contratto alle condizioni conformi a quelle di legge; azione, quest’ultima, concessa anche nei casi in cui il locatore avesse «preteso l’instaurazione di un rapporto di locazione di fatto».
A seguito della riscrittura dell’art. 13 cit., avvenuta ad opera dell’art. 1, comma 59, della legge n. 208 del 2015, proprio in conseguenza delle due suindicate pronunce di illegittimità costituzionale, i meccanismi correttivi dell’ormai scomparso art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 23 del 2011, sono confluiti nei commi 5, 6 e 7 del novellato art. 13. L’attuale testo dell’art. 13, comma 6, prevede che, nei casi di nullità di cui al comma 4, il conduttore possa, con azione esperibile entro sei mesi dalla riconsegna dell’immobile locato, chiedere la restituzione delle somme indebitamente versate ovvero, in alternativa, la riconduzione del contratto alle condizioni di cui all’art. 2, commi 1 e 3, della legge stessa; e tale azione è consentita anche nel caso in cui il locatore non abbia provveduto alla registrazione del contratto nel termine perentorio di trenta giorni. Il successivo comma 7 dell’art. 13 stabilisce l’applicabilità delle disposizioni del precedente comma 6 «a tutte le ipotesi ivi previste insorte sin dall’entrata in vigore della presente legge».
Sull’interpretazione del comma 7 ha inciso la sentenza 9 aprile 2021, n. 9475, di questa Corte, secondo cui la norma va intesa nel senso che l’applicabilità riguarda la data di entrata in vigore della legge modificata (la n. 431 del 1998) e non di quella modificante (legge n. 208 del 2015). Con la conseguenza che i contratti di locazione ad uso abitativo stipulati a decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 431 del 1998, per i quali il locatore non abbia
provveduto alla prescritta registrazione del contratto nel termine indicato al comma 1 dell’art. 13 citato, sono affetti da nullità relativa di protezione, a prescindere dal fatto che siano stati conclusi o meno in forma scritta ed ancorché i correlati giudizi siano stati introdotti prima della modifiche apportate dal richiamato art. 1, comma 59, allo stesso art. 13; causa di nullità, pertanto, denunciabile dal solo conduttore, ricorrendo uno dei casi nei quali quest’ultimo ha la facoltà di domandare la riconduzione del contratto a condizioni conformi.
A tale principio la pronuncia odierna intende dare continuità.
6.2. L’aver ripercorso, per sommi capi, la complessa vicenda normativa in questione consente di procedere all’esame delle censure di cui al primo motivo di ricorso.
La Corte osserva che la prima censura muove da un presupposto giuridico errato. Ed invero, come si è già detto, la ricorrente stessa ha chiarito che la registrazione (tardiva) del primo contratto, cioè quello verbale, ebbe luogo solo in data 27 febbraio 2014, quando il secondo contratto, cioè quello scritto, era già stato da tempo registrato ed aveva avuto, per di più, esecuzione per il tempo di circa un anno e sei mesi.
La stipulazione del nuovo contratto per iscritto e la registrazione dello stesso avvenuta nel 2012, nel pieno rispetto delle condizioni di legge, sovrapponendo una nuova situazione contrattuale fra le parti, aveva evidentemente fatto venire meno la possibilità di dare rilievo alla previsione dell’art. 3, comma 8, lettera c ), del d.lgs. n. 23 del 2011 con riferimento al primo contratto, e ciò a prescindere dalla declaratoria di incostituzionalità di cui si è detto. Detta registrazione era ormai irrilevante, atteso che non vi era più pendenza del vecchio originario contratto, avendo le parti dato corso ad un nuovo regolamento contrattuale. Il Collegio, infatti, intende ribadire il principio, già in precedenza enunciato, secondo cui, qualora le parti concludano un primo
contratto di locazione immobiliare senza provvedere alla sua registrazione e, poi, un altro contratto immediatamente registrato e indicante un canone inferiore, la tardiva registrazione del contratto originario, successiva a quella del secondo, non può avere l’effetto di sanarne l’invalidità perché, altrimenti, il tardivo adempimento dell’obbligo fiscale opererebbe in danno del conduttore con la conseguenza che solo il contratto posteriore è idoneo a regolare il rapporto corrente tra le parti (ordinanza 30 marzo 2023, n. 8968). Nel caso odierno, com’è chiaro, la tardiva registrazione opererebbe non in danno, bensì in vantaggio, del conduttore, ma la logica non può che essere la medesima.
La conclusione che va tratta, dunque, è nel senso che il primo rapporto contrattuale -del quale la ricorrente pretende la reviviscenza -è ormai definitivamente perento e non può essere disciplinato dalla previsione, salvata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 87 del 2017, dell’attuale art. 13, comma 5, della legge n. 431 del 1998, che, in pratica, della vecchia disposizione oggetto di due sentenze di illegittimità costituzionale ha salvato, come si è detto, solo l’effetto relativo al canone dovuto.
Deve ritenersi pertanto corretta la decisione della Corte d’appello là dove ha ritenuto applicabile al primo contratto (verbale) il canone ivi fissato -da ritenere, in realtà, un’indennità di occupazione -fino al momento in cui fu stipulato il secondo contratto.
Il che viene a significare che è infondata la prima censura formulata nel primo motivo.
6.3. La seconda censura contenuta nello stesso motivo, benché diversa, si pone nel medesimo percorso logico della prima.
Tralasciando il fatto che si tratta di una censura formulata in modo non del tutto chiaro, il presupposto dal quale muove la ricorrente è quello che è già stato smentito in precedenza. Si sostiene, in pratica, che l’imposizione, nel secondo contratto, di un
canone maggiorato di euro 100 mensili costituirebbe un abuso del diritto e che il contratto di locazione dovrebbe essere regolato per tutta la sua durata -cioè dal 1° marzo 2011 fino alla data di rilascio dell’immobile dalle previsioni (quanto al canone) di cui all’art. 2, comma 3, della legge n. 431 del 1998. Ma simile ricostruzione muove, evidentemente, dalla premessa in base alla quale il canone di cui al contratto del 2012 era da considerare un aumento di quello originario, sul presupposto che il contratto vigente fosse rimasto sempre quello; presupposto che si è già detto essere errato, per il fatto che con la conclusione e la registrazione di un nuovo contratto quello precedente era da ritenere ormai venuto meno.
Si impongono, infine, due ulteriori considerazioni.
La prima è che la Corte d’appello ha ritenuto priva di fondamento, siccome non dimostrata, la tesi dell’odierna ricorrente volta a sostenere che il primo contratto fosse il frutto di un’imposizione da parte della locatrice e che la maggiorazione del canone pattuita in relazione al secondo contratto fosse frutto di un abuso o, comunque, di una pressione indebita da parte della proprietaria.
La seconda è che la seconda censura del primo motivo di ricorso contiene in sé anche un’ambiguità, perché la ricorrente invoca l’applicazione dell’art. 13, comma 4, della legge n. 431 del 1998 non già quanto al secondo inciso, bensì quanto al primo, ipotizzando così una qualificazione del contratto come stipulato a norma del dell’art. 2, comma 3, della legge n. 431 del 1998; punto, questo, che contrasta con la prospettazione dell’esposizione del fatto nel motivo stesso, dove pare evidente che il contratto del 2012 aveva una durata prefissata di quattro anni e non di tre, il che pare piuttosto richiamarsi all’ipotesi di cui all’art. 2, comma 1, e non all’art. 2, comma 3, della legge citata. Ne consegue che
questa parte della censura potrebbe risolversi anche nella prospettazione di una questione nuova.
Si conclude, pertanto, nel senso che anche questa ulteriore censura formulata nel primo motivo di ricorso è priva di fondamento.
Si deve procedere, a questo punto, all’esame del secondo motivo.
La Corte osserva che la censura ivi proposta è fondata alla luce della giurisprudenza, correttamente richiamata nel ricorso, secondo la quale nel rito del lavoro, l’appellante che impugna in toto la sentenza di primo grado, insistendo per l’accoglimento delle domande, non ha l’onere di reiterare le istanze istruttorie pertinenti a dette domande, ritualmente proposte in primo grado, in quanto detta riproposizione è insita nella istanza di accoglimento delle domande, mentre la parte appellata, vittoriosa in primo grado, non riproponendo alcuna richiesta di riesame della sentenza, ad essa favorevole, deve manifestare in maniera univoca la volontà di devolvere al giudice del gravame anche il riesame delle proprie richieste istruttorie sulle quali il primo giudice non si è pronunciato, richiamando specificamente le difese di primo grado, in guisa da far ritenere in modo inequivocabile di aver riproposto l’istanza di ammissione della prova (in tal senso l’ordinanza 3 maggio 2019, n. 11703, della Sezione Lavoro di questa Corte).
Deve essere, però, richiamata anche l’ulteriore giurisprudenza secondo cui in tema di ricorso per cassazione, la censura concernente la violazione dei principi regolatori del giusto processo e cioè delle regole processuali, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., deve avere carattere decisivo, cioè incidente sul contenuto della decisione e, dunque, arrecante un effettivo pregiudizio a chi la denuncia (sentenza 26 settembre 2017, n. 22341, confermata dalla successiva ordinanza 15 ottobre 2019, n. 26087).
Applicando i principi suindicati al caso di specie, si trae la conclusione che la mancata ammissione dei mezzi di prova risulta irrilevante, trattandosi di capitoli di prova (trascritti nel ricorso) comunque privi di una valenza decisiva ai fini del giudizio, siccome inidonei a giustificare l’unicità del contratto.
Il che significa che la fondatezza della censura in diritto non giova comunque all’accoglimento del motivo di ricorso e non muta l’esito finale del presente giudizio.
Il ricorso, in conclusione, è rigettato.
A tale esito segue la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del d.m. 13 agosto 2022, n. 147, sopravvenuto a regolare i compensi processuali.
Sussistono inoltre i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi euro 4.200, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza