Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 27281 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 27281 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1460 R.G. anno 2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME, domiciliata presso l’avvocato NOME COGNOME;
ricorrente
contro
RAGIONE_SOCIALE , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME e dall’avvocato NOME COGNOME, presso il quale è pure domiciliata;
contro
ricorrente avverso la sentenza della Corte di appello di Venezia n. 2637/2018, pubblicata il 24 settembre 2018
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 2 ottobre 2024 dal consigliere relatore NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1. ─ Con citazione notificata il 31 gennaio 2012 RAGIONE_SOCIALE, ora RAGIONE_SOCIALE ha convenuto in giudizio RAGIONE_SOCIALE, ora RAGIONE_SOCIALE, esponendo quanto segue. L’attrice era titolare del marchio «Mao» che contraddistingueva linee di prodotti quali calzature, borse, articoli di cuoio; con contratto del 1 aprile 2011 essa attrice aveva concesso in uso il marchio predetto alla società convenuta; secondo tale negozio la progettazione stilistica e strutturale, la ricerca dei materiali e la modelleria a marchio «Mao» doveva essere realizzata esclusivamente dalla concedente e la licenziataria avrebbe dovuto sottoporre i prototipi all’attrice prima di iniziare la produzione dei campionari; la durata del contratto era stata convenuta dal 1 aprile 2011 al 31 marzo 2012 per le stagioni autunnoinverno 2011-2012 e primavera-estate 2012, con possibilità di rinnovo tacito; all’accordo era stata data esecuzione per la stagione autunnoinverno 2011-2012 ed erano stati realizzati i campionari della stagione primavera-estate 2012; inaspettatamente, in data 21 novembre 2011, la controparte aveva comunicato la decisione di non realizzare i prodotti della stagione primavera-estate 2012 oggetto degli ordini già raccolti e aveva quindi comunicato il recesso richiamando l’art. 3 del contratto . La società attrice ha dedotto che RAGIONE_SOCIALE si era resa gravemente inadempiente agli obblighi contrattuali per non aver messo in produzione le calzature già oggetto di vendita relative alla stagione primavera-estate 2012, dopo che erano stati realizzati i prototipi e il campionario esposto alla fiera delle calzature MICAM di Milano; ha lamentato, inoltre, il mancato pagamento delle royalty relative alla stagione autunno-inverno 2011-2012. RAGIONE_SOCIALE ha quindi domandato dichiararsi risolto il contratto per inadempimento della convenuta e condannarsi la stessa al risarcimento dei danni, oltre che al pagamento di euro 8.859,75 per canoni di licenza non onorati.
Nella resistenza della convenuta il Tribunale di Venezia ha in
sintesi: dichiarato la risoluzione parziale del contratto per grave inadempimento di NOME; condannato quest’ultima a corrispondere all’attrice la somma di euro 20.320,17, oltre interessi; condannato la convenuta stessa a restituire all’attrice i modelli di calzature di proprietà della licenziante. Il Giudice di primo grado, dopo aver premesso che il contratto non risultava essere chiaro ed esplicito in ordine all’obbligo della licenziataria di produrre calzature e borse, ha evidenziato che da più clausole contrattuali emergeva che la convenuta non era libera di decidere se eseguire o meno le prestazioni alla stessa affidate: tale esito interpretativo era confortato, secondo il Tribunale, dal comportamento complessivo delle parti successivo alla conclusione del contratto, mentre la contraria soluzione ermeneutica risultava contraria a correttezza e buona fede.
2 . ─ In sede di gravame la Corte di appello, in accoglimento dell’impugnazione principale proposta da RAGIONE_SOCIALE, ha respinto la domanda di risoluzione e rideterminato in ragione di euro 2.000,00 l’importo dovuto dall’appellante alla società RAGIONE_SOCIALE; ha rigettato, poi, l’appello incidentale spiegato da quest’ultima . Il nucleo argomentativo della pronuncia, con riguardo alla statuizione di accoglimento dell’appello principale , si riassume nel rilievo per cui «dal contratto stipulato dalle parti non risultava alcun obbligo di messa in produzione degli ordini».
La decisione della Corte lagunare e stata impugnata per cassazione da RAGIONE_SOCIALE con un ricorso articolato in otto motivi. Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE Sono state depositate memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
– Col primo motivo si denuncia violazione dell’art. 1362 c.c. «per non avere la Corte di appello rispettato i criteri legali ermeneutici cogenti avendo prima qualificato il rapporto giuridico e solo successivamente ricostruito la volontà delle parti».
Il motivo è inammissibile.
Si legge nella sentenza impugnata che oggetto del contratto concluso tra le parti era la sola licenza del marchio «Mao»; ha precisato la Corte di merito che le varie clausole contrattuali disciplinavano l’uso di tale segno distintivo, oltre che la progettazione e messa a punto dei modelli, «senza mai prevedere alcun obbligo di produzione e, più in generale, di esecuzione degli ordini ai clienti». Dopo aver evidenziato che il contenuto tipico dei contratti di licenza è rappresentato dalla concessione della facoltà d’uso di un marchio a fronte del pagamento di un compenso, «senza che ciò comporti alcun obbligo per il licenziatario di realizzare i relativi prodotti», il Giudice distrettuale ha rilevato che gli argomenti impiegati dal Tribunale a supporto della tesi circa la concreta assunzione di un obbligo di produzione da parte di NOME non erano decisivi, in quanto gli elementi valorizzati dalla sentenza di primo grado (durata limitata del contratto, previsione di una disciplina quanto alla realizzazione dei campionari, impegno della licenziataria di produrre articoli consoni all’immagine del marchio, rischio per la licenziante di non ricavare alcun utile dall’affare in caso di inerzia della licenziataria) erano «compatibili con una tipica licenza dell’uso del marchio».
La ricorrente evoca le due fasi del procedimento di qualificazione giuridica del contratto: l’una consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti, che si risolve in un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., e l’altra concernente l’inquadramento della comune volontà nello schema legale corrispondente, che si risolve nell’applicazione di norme giuridiche, che può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle
implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo (per tutte: Cass. 9 febbraio 2021, n. 3115; Cass. 5 dicembre 2017, n. 29111).
Nell’assumere, però, che la Corte di Venezia non avrebbe proceduto al preventivo accertamento della volontà dei contraenti, l’odierna istante mostra di non confrontarsi con la decisione impugnata, la quale poggia, come si è detto, proprio sulla verifica, di segno negativo, quanto all’assunzione di un’obbligazione avente ad oggetto la produzione dei modelli da parte di RAGIONE_SOCIALE. Il Giudice distrettuale non ha in altri termini affermato che la licenza del marchio, in quanto tale, ostava alla configurazione di un impegno negoziale nel senso indicato: ha invece accertato che in concreto un tale impegno non era stato previsto dai contraenti.
2. Il secondo mezzo oppone, ancora, la violazione dell’art. 1362 c.c.; si imputa al Giudice distrettuale di aver «non correttamente applicato il principio di diritto in claris non fit interpetatio arrestando l’interpretazione del contratto al solo dato testuale, contravvenendo ai più recenti orientamenti giurisprudenziali secondo i quali è da escludere che detto principio trovi applicazione nel caso in cui il testo negoziale sia chiaro ma non coerente con ulteriori ed esterni indici rivelatori della volontà dei contraenti». Assume la ricorrente che l’interprete non dovrebbe limitarsi all’analisi della chiarezza del testo, dovendo piuttosto verificare se «dalla lettura del dato lessicale emerga effettivamente la chiarezza dell’intenzione dei contraenti». A tal fine richiama alcune clausole del contratto e rileva come l’esplicito riferimento alle vendite dei prodotti, alla produzione alla pubblicità, all ‘ap posizione del marchio, alle royalty lasciassero chiaramente intendere che la volontà delle parti «era quella di obbligarsi a realizzare e vendere i prodotti marchiati ‘Mao’ ».
Anche tale motivo è inammissibile.
Esso non coglie il reale portato dell’affermazione della Corte di
appello, secondo cui era ad essa precluso l’accesso a criteri interpretativi suppletivi. Il Giudice distrettuale non ha inteso punto affermare che la chiarezza del dato letterale lo esimeva dall’accertare la volontà delle parti secondo gli altri criteri ermeneutici fissati dagli artt. 1362 e 1363 c.c.: ha piuttosto ribadito, attraverso la trascrizione di una pertinente massima di giurisprudenza, il principio per cui i criteri suppletivi dell’interpretazione dettati dagli artt. 1365 ss. c.c. non hanno ragione di essere invocati quando la ricerca soggettiva della volontà contrattuale conduca a un utile risultato.
Dopodiché, occorre rilevare che non spetta a questa Corte stabilire se l’interpret azione cui è pervenuta la Corte di appello sia la migliore possibile. Infatti, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito (Cass. 9 aprile 2021, n. 9461; Cass. 26 maggio 2016, n. 10891; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465), né le censure vertenti sull’interpretazione del negozio possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni: tant’è che , quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’ interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 27 giugno 2018, n. 16987; Cass. 28 novembre 2017, n. 28319). Dire che dalle clausole contrattuali si sarebbe dovuto ricavare l ‘esistenza dell’obbligazione di RAGIONE_SOCIALE quanto alla realizzazione delle calzature significa contrapporre all’interpretazione della Corte di appello una diversa lettura del testo negoziale: e una censura così conformata non può trovare ingresso, secondo quanto si è detto.
Col terzo motivo si lamenta la violazione dell’art. 1362 c.c. e dell’art. 23 c.p.i. (d.lgs. n. 30/2005 ), oltre che la contraddittorietà e
l’apparenza della motivazione con riferimento al giudizio formulato dalla Corte di Venezia quanto alla compatibilità delle previsioni contrattuali di cui agli artt. 1 e 2 del contratto di licenza con la figura giuridica prevista dal cit. art. 23. Assume la società istante che non vi sarebbe la possibilità di ricostruire il procedimento logico attraverso il quale le previsioni contrattuali sopra richiamate sarebbero compatibili con la figura della licenza del marchio. Rileva, altresì, come, a mente dell’ art. 23 c.p.i., obbligazione tipica del contratto di licenza sia la concessione dell’uso del marchio, eventualmente a fronte di una percentuale dei proventi sulle vendite.
Il motivo è nel complesso infondato.
Esso muove dal rilievo per cui non farebbe parte delle obbligazioni tipiche del licenziante assumere l’impegno di «ideare e progettare anche stilisticamente la collezione da contraddistinguere con l’apposizione del marchio, così come riservarsi il controllo della produzione». In realtà, la clausola di cui all’art. 2, riprodotta nel ricorso, riservava alla società RAGIONE_SOCIALE la «messa a punto della progettazione stilistica e strutturale», nonché «la ricerca dei materiali e la modelleria della collezione a marchio ‘MAO’ », prevedendo, poi, che la licenziataria dovesse sottoporre all’approvazione della concedente i prototipi prima di passare alla produzione di campionari. Ben si comprende, allora, il portato della decisione impugnata, per la parte che qui interessa: la Corte di appello ha inteso infatti rilevare che la concessione in uso del segno distintivo può accompagnarsi a prescrizioni, quali quelle indicate, senza con ciò implicare l’assunzio ne di una vera e propria obbligazione della licenziataria quanto alla produzione di modelli: il che è del tutto ragionevole, visto che quanto è contemplato nella richiamata disposizione contrattuale può trovare il proprio fondamento giustificativo nell’esigenza, in capo alla licenziante, a che il marchio sia apposto su prodotti rispondenti a determinati standard di fabbricazione.
Il quarto motivo censura la sentenza impugnata per
violazione e falsa applicazione dell’art. 13 62 c.c., oltre che per illogicità, assenza, contraddittorietà e incongruità della motivazione, nella parte in cui il Giudice di appello ha ritenuto non condivisibile la decisione di primo grado con riguardo al controverso obbligo, per NOME, di produrre le calzature nell’interesse della licenziante.
Il motivo è privo di fondamento.
La censura investe il passaggio della sentenza impugnata ove è asserito che l’interpretazione offerta dalla decisione di primo grado pregiudicava le scelte imprenditoriali di NOME. In realtà, la Corte di appello ha voluto evidenziare che sul piano interpretativo andava adeguatamente valorizzata la posizione di NOME: ha cioè ritenuto incongrua una lettura del testo contrattuale che desse rilievo a un assetto degli interessi patrimoniali del tutto sbilanciato in favore della licenziante, quasi che l’odierna controricorrente si fosse impegnata in una partita antieconomica.
Ciò detto, il vizio di violazione o falsa applicazione de ll’art. 1362 c.c. non è nemmeno esplicato (laddove il ricorrente per cassazione non solo deve fare espresso riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati: Cass. 9 aprile 2021, n. 9461; Cass. 16 gennaio 2019); quanto al vizio di motivazione esso, nella forma dell’ anomalia motivazionale oggi deducibile in sede di legittimità (per cui cfr.: Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054; Cass. 3 marzo 2022, n. 7090) non si ravvisa affatto.
5. Col quinto mezzo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c ., nonché l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui la Corte di appello « la decisione di RAGIONE_SOCIALE di dare esecuzione alla produzione delle calzature della collezione autunno-inverno 2011-2012 come una libera scelta
imprenditoriale e non anche come un comportamento posteriore alla conclusione del contratto valutabile ai sensi del secondo comma dell’art. 1362 c.c.».
La doglianza costituisce sviluppo della censura che precede, raccordandosi al brano della motivazione della sentenza impugnata ove è spiegato che ad RAGIONE_SOCIALE non poteva farsi carico dell’obbligo di produrre dei modelli in una condizione di antieconomicità (e cioè in perdita). Sostiene, in sintesi, la ricorrente, che la Corte di merito non avrebbe valutato che il numero dei capi prodotti nella stagione autunno-inverno 2011-2012 era pressoché coincidente con quello dei capi prodotti nella stagione successiva (primavera-estate 2012).
Il motivo è inammissibile.
Anche in questo caso il vizio di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c., sempre riferito all’art. 1362 c.c , è dedotto in modo irrituale. Quanto al vizio di motivazione, esso è incentrato su tale dato: la Corte di merito non avrebbe valutato che gli ordini relativi alla collezione della stagione precedente erano di numero analogo, onde la valutazione di non economicità sarebbe «pretestuosa ed illogica». La censura trascura di considerare che il vizio di motivazione deve risultare dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (sentenze da ultimo citt.); superfluo aggiungere che, ove pure volesse prescindersi da tale rilievo, la doglianza risulterebbe carente di autosufficienza, in quanto non spiega da quale atto o documento del processo si tragga il rilievo concernente il numero degli ordinativi della stagione autunno-inverno 2011-2012.
6. Il sesto mezzo prospetta la violazione degli artt. 1362 c.c. e 116 c.p.c., oltre che dell’art. 23 c.p.i. , e l’illogicità l’apparenza, la contraddittorietà e l’incongruenza della motivazione. Si imputa alla Corte di appello di «avere escluso l’attendibilità della teste COGNOME senza valida e congrua motivazione» e di «aver ritenuto che la forma scritta dell’accordo la possibilità per il giudice di attingere ad
elementi testimoniali per ricostruire la volontà delle parti pur essendo il contratto di licenza d’uso del marchio un negozio a forma libera».
Il motivo è infondato.
La Corte territoriale ha privato di rilevanza, sul piano dell’interpretazione del contratto, la deposizione resa da NOME COGNOME evidenziando, per un verso, che il contratto era stato concluso in forma scritta ed esso non conteneva l’impegno della messa in produzione della collezione campionaria e, per altro verso, che la testimone presentava scarsa attendibilità non solo in quanto moglie di NOME COGNOME, ma anche perché collaboratrice della società del marito; il Giudice distrettuale ha aggiunto che, oltretutto, la deposizione della predetta COGNOME era in contrasto con altre.
Come è noto, l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, in quanto, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione del giudice di merito, a cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. 22 novembre 2023, n. 32505; Cass. 7 aprile 2017, n. 9097). Del resto, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo «prudent e apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il
proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. Sez. U. 30 settembre 2020, n. 20867; Cass. 9 giugno 2021, n. 16016). Il vizio motivazionale è poi palesemente insussistente, mentre la denunciata violazione o falsa applicazione dell’art. 23 c.p.i. è basata su di un rilievo -il non richiedere il contratto di licenza del marchio la forma scritta ad substantiam -che manca di raccordo con la sentenza impugnata (la quale non contiene alcuna affermazione di segno opposto , ma è piuttosto centrata sull’essere stato concretamente concluso il contratto in quella forma).
7. Col settimo motivo si lamenta l’omessa pronuncia oltre che la contraddittorietà, l’illogicità e l’apparenza della motivazione nella parte in cui la Corte veneta ha riconosciuto alla società ricorrente i costi di due suoi dipendenti di cui NOME si era avvalsa per la realizzazione del campionario.
Il motivo è inammissibile.
Omessa pronuncia e vizio motivazionale si pongono in rapporto di reciproca esclusione, onde il ricorrente non può formulare entrambe le censure con riguardo allo stesso capo della pronuncia impugnata.
Per completezza si nota quanto segue.
Quanto alla censura di omessa pronuncia, essa è del tutto incomprensibile, non spiegando la ricorrente quale sia la statuizione che la Corte distrettuale avrebbe mancato di rendere.
Con riguardo alla doglianza motivazionale, si nota che la Corte di appello ha riconosciuto che spettava alla società NOME COGNOME l’importo di euro 2.000,00 «per la collaborazione prestata da due suoi dipendenti al RAGIONE_SOCIALE per la realizzazione del campionario della stagione primavera-estate». Ebbene, non si vede come tale statuizione, che concerne un tema diverso da quello relativo al supposto inadempimento della licenziataria, si ponga in conflitto logico col rigetto
della domanda risarcitoria che ha visto soccombente l’odierna ricorrente: il fatto che questa abbia distaccato due suoi lavoratori presso RAGIONE_SOCIALE non implica certo, di necessità, che l’odierna controricorrente avesse assunto l’obbligo di produrre modelli in favore della stessa.
8. – L’ottavo motivo è svolto per l’ipotesi in cui il ricorso dovesse essere accolto e denuncia per cassazione la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1225 e 1227 c.c.; si sostiene che in caso di risoluzione del contratto l’accertamento del danno va riferito al momento della proposizione della domanda giudiziale di risoluzione. Il mezzo investe il quantum della pretesa risarcitoria: profilo, questo di cui la Corte di appello si è disinteressata , ritenendo che l’accoglimento dell’appello principale comportasse il rigetto del gravame incidentale. (con cui si faceva questione della spettanza di un importo ulteriore rispetto a quello accordato dal Tribunale).
Il motivo è assorbito, in quanto proposto per l’eventualità, non concretizzatasi , dell’accoglimento del ricorso.
– Il ricorso è respinto.
– Le spese di giudizio seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente , dell’ulteriore import o a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione