Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 26193 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 26193 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 25/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso 8492-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE E RAPPRESENTANTI RAGIONE_SOCIALE , in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3057/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 04/01/2021 R.G.N. 2445/2015; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/07/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
Agenzia
R.G.N.8492/2021
COGNOME
Rep.
Ud 03/07/2025
CC
RILEVATO CHE
la Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, ha così disposto: ‘rigetta il ricorso di primo grado proposto da RAGIONE_SOCIALE (salvo che per i contributi dovuti al Fondo FIRR per la posizione di Santo Lorenzo); in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta dall’appellante in primo grado condanna la RAGIONE_SOCIALE al pagamento, in favore della Fondazione RAGIONE_SOCIALE, di € 46.368,02 per contributi previdenziali; € 31.395,16 per sanzioni ed interessi; € 5695,52 per versamento FIRR oltre interessi di mora; condanna la RAGIONE_SOCIALE al pagamento delle sanzioni ed interessi sui contributi previdenziali a decorrere dal 19/10/10 al saldo; condanna l’appellata al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio’;
la Corte, in sintesi, ha ritenuto che ‘per tutte le dodici posizioni esaminate nel verbale ispettivo’ contestato alla società, relativamente al periodo IV trimestre 2004 -III trimestre 2009, i rapporti tra la stessa e i collaboratori ivi indicati fossero inquadrabili ‘nell’ambito dell’agenzia, con conseguente obbligo contributivo in favore dell’RAGIONE_SOCIALE‘; la sentenza gravata, in particolare, ha esaminato ‘L’incarico conferito con i contratti scritti (…) di acquisire sul territorio della mandante nominativi, notizie ed informazioni utili per il conferimento dell’incarico di vendita di immobili nella zona di esclusiva della società con marchio RAGIONE_SOCIALE. Collaborare alla gestione e amministrazione dei contratti procacciati’; ha ritenuto che ‘Nel contratto di ‘procacciatore d’affari’ si rinvengono clausole contrattuali significative per qualificare il
rapporto costituito tra lo Studio COGNOME ed il ‘procacciatore’ come caratterizzato da stabilità’;
secondo la Corte, poi, ‘Ulteriori indizi di stabilità del rapporto si desumono dal numero delle fatture, dalla loro numerazione (progressiva a riprova della continuità della prestazione); dalla durata del rapporto; dall’entità complessiva delle provvigioni erogate: si vedano per il dettaglio il riepilogo contenuto alle pagg. 10 e 11 della memoria costituzione e risposta della Fondazione RAGIONE_SOCIALE per tutte le 12 posizioni esaminate, circa la durata del rapporto, le provvigioni percepite, circostanze provate dai documenti da 2 a 14′;
ha infine argomentato: ‘La prova testimoniale espletata in appello ha complessivamente confermato che la prestazione lavorativa di ricerca di immobili da vendere o l’acquisizione di potenziali acquirenti avveniva in modo continuativo anzi quotidiano, sia pure con una certa flessibilità di orario di lavoro; il lavoro non era limitato al procacciamento di affari (ricerca di immobili da vendere per via telefonica, per contatti con inquilini o portiere dello stabile) ma consisteva anche nell’aggiornamento degli archivi e del sito internet (teste COGNOME, nelle visite agli immobili per i quali era stato acquisito il mandato a vendere (teste COGNOME), la possibilità di interloquire nelle trattative, talvolta nell’assistenza al venditore od al compratore fino al ‘compromesso’ (teste COGNOME)’;
per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la RAGIONE_SOCIALE con quattro motivi; ha resistito con controricorso la Fondazione RAGIONE_SOCIALE
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
CONSIDERATO CHE
i motivi di ricorso possono essere esposti secondo la sintesi offerta dalla stessa parte ricorrente;
1.1. il primo denuncia: ‘vizio ex art. 360, primo comma n. 3, c.p.c. per falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c.; a) Falsa applicazione dell’art. 115, primo comma, c.p.c. nella parte in cui stabilisce che il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificatamente contestati. Il giudice del II grado ha violato tali norme laddove ha posto a fondamento della decisione, con riferimento ai rapporti contrattuali intercorsi tra Studio COGNOME e i Sig.ri COGNOME e COGNOME, dei contratti non prodotti da Enasarco e la cui esistenza è stata specificamente contestata dalla società appellata. b) Erronea e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. nella par te in cui la Corte d’Appello, nella sentenza impugnata, pur avendo RAGIONE_SOCIALE omesso di produrre i relativi contratti, trae la prova della sottoscrizione da parte dei Sig.ri COGNOME COGNOME e COGNOME e NOME COGNOME dell’ dalla sola circostanza che <nel verbale di accertamento si dà atto del mancato ritrovamento del documento per le posizioni in parola ma si specifica che 'il delegato' della società si impegnava a 'fornirli successivamente', ciò a comprova del fatto che anche per i tre agenti COGNOME COGNOME e COGNOME, vi fosse lo stesso contratto denominato di ‘;
1.2. il secondo motivo denuncia: ‘vizio ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. La Corte d’Appello ha totalmente omesso di esaminare il fatto storico consistente nella mancata stipulazione tra Studio
COGNOME e i propri collaboratori dei contratti denominati per tutto l’arco temporale per il quale Enasarco ha effettuato la qualificazione di tali rapporti in contratti di agenzia e ha richiesto il pagamento dei relat ivi contributi previdenziali’;
1.3. il terzo motivo denuncia: ‘vizio ex art. 360, primo comma, n. 3 per falsa applicazione dell’art. 1742 c.c. La Corte ha falsamente applicato l’art. 1742 c.c. laddove ha sussunto nel tipo contrattuale dell’agenzia il contratto stipulato da Studio Melegnano con alcuni collaboratori, denominato ‘;
1.4. il quarto motivo denuncia: ‘violazione o falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1742 c.c. e 116 c.p.c. Il giudice del secondo grado, nell’esaminare il contratto denominato ha omesso di indagare la reale volontà delle parti laddove, pur sollecitato in tal senso da Studio COGNOME nei propri atti difensivi, in violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., non ha esaminato nella sentenza impugnata una pluralità di norme contrattuali dalle quali emergeva de plano la volontà delle parti: (i) di non volere istituire un obbligo in capo ai collaboratori di eseguire le attività dedotte nel contratto e, addirittura, (ii) di non volere dare vita ad un contratto di agenzia. Il giudice, inoltre, ha omesso di valutare il comportam ento tenuto dalle parti nell’esecuzione del contratto, così come emerso dall’istruttoria testimoniale, in violazione dell’art. 1362, secondo comma c.c.’;
il Collegio reputa che il ricorso non possa trovare accoglimento;
si denuncia impropriamente la violazione degli artt. 115 e 116
2.1. il primo motivo è inammissibile; c.p.c., oltre che dell’art. 2697 c.c.;
come ribadito dalle Sezioni unite di questa Corte (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre);
parimenti la pronuncia rammenta che la violazione dell’art. 116 c.p.c. è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa secondo il suo «prudente apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura era consentita ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nel testo previgente ed ora solo in
presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati da questa Corte fin da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014;
quanto alla violazione dell’art. 2697 c.c. essa è deducibile per cassazione ai sensi dell’art. 360, c. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia -come nella specie – la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), opponendo un diverso apprezzamento di merito;
il motivo è inammissibile anche laddove critica, invocando la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., un ragionamento presuntivo della Corte territoriale;
come noto le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione; spetta quindi al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche (cfr. Cass. n. 10847 del 2007; Cass. n. 24028 del 2009; Cass. n. 21961 del 2010) e compete sempre al giudice del merito procedere ad una valutazione
complessiva di tutti gli elementi indiziari precedentemente selezionati ed accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione, e non piuttosto una visione parcellizzata di essi, sia in grado di fornire una valida prova presuntiva tale da ingenerare il convincimento in ordine all’esistenza o, al contrario, all’inesistenza del fatto ignoto;
la delimitazione del campo affidato al dominio del giudice del merito consente innanzi tutto di escludere che chi ricorre in cassazione in questi casi possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva non conduca necessariamente all’esito interpretativo raggiunto nei gradi inferiori (v., per tutte, Cass. n. 29781 del 2017); essendo compito istituzionalmente demandato al giudice del merito selezionare gli elementi certi da cui “risalire” al fatto ignorato, i quali presentino una positività parziale o anche solo potenziale di efficacia probatoria, nonché l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’ id quod plerumque accidit, l’esito dell’operazione si sottrae al controllo di legittimità (in termini, Cass. n. 16831 del 2003; Cass. n. 26022 del 2011; Cass. n. 12002 del 2017; più di recente: Cass. n. 9054 del 2022), salvo che esso non si presenti intrinsecamente implausibile tanto da risultare meramente apparente; pertanto, chi censura un ragionamento presuntivo o il mancato utilizzo di esso non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice del merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio (in termini, Cass. n. 10847/2007 cit.; in conf. Cass. n. 1234 del 2019) e, nel vigore del novellato art.
360, co. 1, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014 (Cass. n. 28772 del 2022; Cass. n. 20540 del 2023); 2.2. inammissibile è anche il secondo motivo che invoca il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. per un fatto storico (la continuità dei rapporti anche oltre la scadenza dei contratti depositati in giudizio) comunque esaminato dalla Corte territoriale, quanto meno implicitamente mediante il riferimento a fatture e prove testimoniali;
2.3. il terzo motivo è da respingere in quanto la sentenza gravata è conforme alla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le sole recenti, Cass. n. 23214 del 2024; Cass. n. 11558 del 2024; Cass. n. 10656 del 2024; Cass. n. 30667 del 2023; Cass. n. 30649 del 2023; Cass. n. 35740 del 2022; alle quali tutte si rinvia anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c.);
secondo tale giurisprudenza, i caratteri distintivi del contratto di agenzia debbano individuarsi nella continuità e stabilità dell’attività dell’agente di promuovere la conclusione di contratti per conto del preponente, nell’ambito di una determinata sfera territoriale, realizzando in tal modo con quest’ultimo una non episodica collaborazione professionale autonoma, con risultato a proprio rischio, e con l’obbligo naturale di osservare, oltre alle norme di correttezza e di lealtà, le istruzioni ricevute dal preponente medesimo; il rapporto di procacciatore d’affari si concreta, invece, nella più limitata attività di chi, senza vincolo di stabilità ed in via del tutto episodica, raccoglie le ordinazioni dei clienti, trasmettendole all’imprenditore da cui ha ricevuto l’incarico di procurare tali commissioni; mentre la prestazione dell’agente è stabile, avendo egli l’obbligo di svolgere l’attività di promozione dei contratti, la prestazione del procacciatore è
occasionale nel senso che dipende esclusivamente dalla sua iniziativa;
in particolare, è stato sottolineato che il rapporto del procacciatore d’affari si sostanzia «nella più limitata attività di chi, senza vincolo di stabilità ed in via del tutto episodica, raccoglie le ordinazioni dei clienti, trasmettendole all’imprenditore da cui ha ricevuto l’incarico di procurare tali commissioni»; la prestazione del procacciatore «è occasionale» e dunque «dipende esclusivamente dalla sua iniziativa», attiene «a singoli affari determinati», ha «durata limitata nel tempo» e si traduce nella «mera segnalazione di clienti» o nella «sporadica raccolta di ordini», senza assurgere ad una «attività promozionale stabile di conclusione di contratti» (Cass. n. 2828 del 2016);
né ovviamente il giudice del merito, nel procedimento di qualificazione del contratto, è vincolato dal nomen iuris attribuito dalle parti (Cass. n. 29244 del 2023);
ciò posto, la sentenza impugnata non incorre affatto nella falsa applicazione dell’art. 1742 c.c. come denunciato dalla ricorrente nel motivo in esame, il quale piuttosto critica la valutazione operata dalla Corte territoriale del concreto atteggiarsi dei rapporti in contesa, proponendo, dietro il simulacro della violazione di legge, un diverso, e più favorevole, inquadramento delle risultanze di causa, così sollecitando un sindacato estraneo al perimetro applicativo del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. ed ai pote ri del giudice di legittimità;
2.4. il quarto motivo di ricorso non è accoglibile in quanto censura l’interpretazione di una volontà negoziale;
infatti, l’accertamento della volontà negoziale si sostanzia in un accertamento di fatto (tra molte, Cass. n. 9070 del 2013; Cass.
n. 12360 del 2014), riservato all’esclusiva competenza del
giudice del merito (cfr. Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006; più di recente, in conformità, Cass. n. 22318 del 2023 e Cass. n. 18214 del 2024); tali valutazioni del giudice di merito in proposito soggiacciono, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente (ex plurimis, Cass. n. 21576 del 2019; Cass. n. 20634 del 2018; Cass. n. 4851 del 2009; Cass. n. 3187 del 2009; Cass. n. 15339 del 2008; Cass. n. 11756 del 2006; Cass. n. 6724 del 2003; Cass. n. 17427 del 2003) e, nel vigore del novellato art. 360 c.p.c., di una motivazione che valichi la soglia del cd. ‘ minimum costituzionale’; inoltre, per risalente insegnamento, sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica, sia la denuncia di vizi motivazionali esigono una specifica indicazione – ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzat a l’anzidetta violazione e delle ragioni della insanabile contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito – non potendo le censure risolversi, in contrasto con l’interpretazione loro attribuita, nella mera contrapposizione -come nella specie – di una interpretazione diversa da quella criticata (tra le innumerevoli: Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 12468 del 2004; Cass. n. 22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003; Cass. n. 12366 del 2002; Cass. n. 11053 del 2000);
in conclusione, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso;
le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo; ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società soccombente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 3 luglio 2025.
La Presidente Dott.ssa NOME COGNOME
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