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Contratto collettivo pubblico impiego: la scelta è nulla

Un ente pubblico applicava ai suoi dipendenti un contratto collettivo privatistico anziché quello pubblico previsto per legge. Un lavoratore ha richiesto differenze retributive basate su tale contratto. La Corte di Cassazione ha stabilito che la scelta della Pubblica Amministrazione è nulla, poiché vincolata al rispetto del contratto collettivo pubblico impiego di comparto. La Corte ha rigettato la domanda del lavoratore e dichiarato inammissibile il successivo ricorso per revocazione, chiarendo che il principio di legalità e la gerarchia delle fonti prevalgono su qualsiasi applicazione di fatto, anche se estesa a tutti i dipendenti.

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Contratto Collettivo Pubblico Impiego: la Scelta della PA è Nulla se Contraria alla Legge

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ribadisce un principio fondamentale nel diritto del lavoro pubblico: la Pubblica Amministrazione non ha la facoltà di scegliere quale contratto collettivo applicare ai propri dipendenti. L’applicazione di un contratto collettivo pubblico impiego è un obbligo derivante dalla legge, e qualsiasi atto contrario è nullo, anche se potenzialmente più favorevole per il lavoratore. Analizziamo questa importante decisione.

I Fatti del Caso: Un Contratto Collettivo “Sbagliato”

Il caso ha origine dalla richiesta di un dipendente di un consorzio pubblico siciliano, il quale aveva svolto mansioni superiori per un determinato periodo. L’ente datore di lavoro, pur essendo un ente pubblico non economico, applicava a tutti i suoi dipendenti il contratto collettivo del settore privato (CCNL Autostrade e Trafori) invece di quello regionale previsto per legge. Il lavoratore, basandosi sul contratto privatistico di fatto applicato, aveva richiesto il pagamento delle differenze retributive.

La Corte d’Appello aveva inizialmente dato ragione al lavoratore, ritenendo che, nonostante la nullità della scelta dell’ente, il dipendente avesse diritto alla retribuzione per le prestazioni effettivamente rese, in virtù dell’art. 2126 c.c. (principio della prestazione di fatto). Tuttavia, l’ente ha impugnato la decisione davanti alla Corte di Cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, con una prima ordinanza, ha accolto il ricorso dell’ente, ribaltando la decisione d’appello. Successivamente, ha dichiarato inammissibile anche il ricorso per revocazione presentato dall’erede del lavoratore, confermando la sua linea interpretativa. La Suprema Corte ha affermato che nel pubblico impiego contrattualizzato, il rapporto di lavoro è disciplinato esclusivamente dalla legge e dalla contrattazione collettiva di comparto. La PA non può discrezionalmente applicare un contratto diverso, e qualsiasi delibera in tal senso è affetta da nullità.

Le Motivazioni: la Supremazia del Contratto Collettivo Pubblico Impiego

La Corte fonda la sua decisione su principi cardine dell’ordinamento giuridico del lavoro pubblico.

Il Principio di Legalità e la Gerarchia delle Fonti

Il cuore della motivazione risiede nel principio di legalità e nella gerarchia delle fonti del diritto. Secondo la Cassazione, la Pubblica Amministrazione è vincolata ad applicare il trattamento economico previsto dal contratto collettivo di comparto individuato dalla legge (nel caso di specie, la L.R. Sicilia n. 10/2000). Questo vincolo non è derogabile dalla volontà unilaterale dell’amministrazione. Concedere alla PA la facoltà di scegliere un contratto diverso, anche se migliorativo, creerebbe una disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri lavoratori del medesimo comparto ai quali viene correttamente applicato il contratto previsto dalla legge.

L’Inapplicabilità dell’Art. 2126 c.c.

Un punto cruciale chiarito dalla Corte è l’inapplicabilità dell’art. 2126 c.c. a questa fattispecie. Tale norma serve a proteggere il lavoratore in caso di nullità del contratto individuale di lavoro, garantendogli la retribuzione per l’attività svolta. Nel caso in esame, però, la nullità non riguarda il rapporto di lavoro in sé, ma l’atto amministrativo con cui l’ente ha illegittimamente scelto la fonte regolatrice del trattamento economico. Il vizio non è nel contratto, ma nella sua regolamentazione economica. Pertanto, le pretese retributive del lavoratore devono essere sempre e comunque calcolate sulla base del contratto collettivo che avrebbe dovuto essere applicato, e non su quello erroneamente e illegittimamente utilizzato dall’ente.

L’Errore di Fatto Insussistente

Il ricorso per revocazione si basava sull’idea che la Corte avesse commesso un errore di fatto nel parlare di “disparità di trattamento”, sostenendo che, poiché l’ente applicava il contratto privato a tutti, non vi era alcuna disparità. La Cassazione ha respinto questa lettura, definendola “fuorviante e distorta”. La Corte ha chiarito che la disparità a cui faceva riferimento non era quella interna all’ente, ma quella, ben più grave, che si sarebbe creata a livello di sistema tra il lavoratore (che avrebbe beneficiato di un trattamento illegittimo) e tutti gli altri dipendenti pubblici dello stesso comparto, correttamente inquadrati secondo la legge.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

Questa ordinanza consolida un orientamento rigoroso: nel pubblico impiego, la fonte del trattamento economico è inderogabilmente stabilita dalla legge e dalla contrattazione collettiva di settore. La Pubblica Amministrazione non ha alcun margine di scelta. Le implicazioni sono significative:

1. Nullità Assoluta: Qualsiasi atto con cui una PA applichi un contratto collettivo diverso da quello di legge è nullo.
2. Nessuna Tutela per il Trattamento di Fatto: Il lavoratore non può invocare l’art. 2126 c.c. per pretendere il trattamento economico previsto dal contratto nullo, anche se di fatto applicato per anni.
3. Obbligo di Ripetizione: La PA è tenuta, in virtù dell’art. 97 della Costituzione, a ripristinare la legalità, potendo anche ripetere le somme eventualmente corrisposte in eccesso senza titolo.
4. Calcolo delle Differenze Retributive: Eventuali differenze retributive per mansioni superiori devono essere calcolate esclusivamente sulla base del contratto collettivo legalmente applicabile, non su quello di fatto utilizzato.

Una Pubblica Amministrazione può scegliere di applicare un contratto collettivo diverso da quello previsto per legge, se è più favorevole per i dipendenti?
No. La Pubblica Amministrazione non ha alcun potere di scegliere il contratto collettivo applicabile, ma è tenuta al rispetto del vincolo derivante dalla legge e deve applicare il contratto collettivo di comparto. Qualsiasi scelta diversa è affetta da nullità.

Se un lavoratore pubblico ha lavorato sulla base di un contratto collettivo nullo, ha comunque diritto alla retribuzione prevista da quel contratto in base all’art. 2126 c.c.?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che l’art. 2126 c.c. non si applica in questo caso. La norma riguarda la nullità del rapporto di lavoro in sé, mentre qui la nullità concerne l’atto con cui l’amministrazione ha scelto una regolamentazione economica illegittima. Le pretese retributive devono sempre basarsi sul contratto collettivo legalmente applicabile.

Cosa intende la Cassazione per “disparità di trattamento” in questo contesto?
La Corte non si riferisce a una disparità tra i dipendenti dello stesso ente, ma a una disparità di sistema. Riconoscere un trattamento economico basato su un contratto illegittimo creerebbe una condizione di disparità tra quel lavoratore e tutti gli altri lavoratori dello stesso comparto pubblico ai quali, invece, viene correttamente applicato il contratto collettivo previsto dalla legge.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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