Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 17724 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 17724 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 01/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 24856-2023 proposto da:
COGNOME NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME tutti rappresentati e difesi dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE SIENA, in persona del Rettore pro tempore , rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME;
– controricorrente –
nonché contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato
Oggetto
Collaboratori esperti linguistici Trattamento retributivo Contratto di ateneo
R.G.N.24856/2023
Ud. 08/05/2025 CC
e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
– resistente con mandato –
avverso la sentenza n. 149/2023 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 20/06/2023 R.G.N. 148/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/05/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
Fatti di causa :
1. Con ricorso depositato in data 11.2.2016 innanzi al Tribunale di Siena, in funzione di giudice del lavoro, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME convenivano in giudizio l’Università degli Studi di Siena e l’INPS chiedendo accertarsi la nullità, l’illegittimità e comunque l’inefficacia dei termini di durata apposti ai contratti a tempo determinato sottoscritti dai ricorrenti quali lettori esperti linguistici; accertarsi e dichia rarsi l’ultrattività del contratto collettivo integrativo (d’ora in avanti, CCI) di ateneo siglato il 27.12.2006, anche successivamente al suo termine di scadenza del 31.12.2009, nonché la nullità, l’invalidità, e comunque l’inefficacia nei confronti dei r icorrenti del successivo CCI di ateneo siglato il 22.09.2014; conseguentemente, accertarsi e dichiararsi il diritto dei ricorrenti al mantenimento della retribuzione determinata in base al CCI del 27.12.2006, ed erogata fino mese di aprile 2010 e conseguen temente condannarsi l’Università resistente a versare ai ricorrenti le differenze retributive maturate per il periodo dal 01/07/2013-15/12/2017 e condannarsi, altresì, la medesima Università a ripristinare per il futuro la retribuzione goduta dai ricorrenti in forza del CCI del 27.12.2006, con gli ulteriori incrementi maturati e dovuti in base alla completa
progressione di carriera ab origine . In subordine, i ricorrenti chiedevano accertarsi e dichiararsi che la retribuzione percepita a far data dal mese di maggio 2010, anche in pretesa applicazione del CCI del 22.09.2014, era insufficiente a soddisfarne le esigenze vitali, personali e familiari, e comunque inadeguata e non proporzionata rispetto alla qualità e alla quantità del lavoro svolto ex art. 36 Cost., anche in relazione all’art. 3 Cost. e al principio di non discriminazione di cui all’art. 45 TFUE. S i costituivano in giudizio l’Università degli Studi di Siena, che chiedeva il rigetto della domanda, e l’INPS, che chiedeva tenersi conto della intervenuta prescrizione. Il Tribunale di Siena accoglieva la domanda, dichiarava l’unicità del rapporto di lavo ro, affermava l’ultrattività del CCI di Ateneo del 2006 e condannava l’Università a corrispondere ai ricorrenti gli importi quantificati nella consulenza tecnica di ufficio per il periodo 01/07/2013 -15/12/2017.
Proponeva appello l’Università degli studi di Siena; gli appellati si costituivano in giudizio contestando l’impugnazione proposta e chiedendone il rigetto; spiegavano anche appello incidentale. L’INPS si costituiva nel giudizio di secondo grado rimettendosi al giudice per le questioni principali attinenti le differenze retributive e tornando ad eccepire la maturata prescrizione quinquennale dei contributi richiesti. Con la sentenza n. 149/2023 depositata il 20/06/2023 la Corte di Appello di Firenze, sez ione lavoro, accoglieva l’appello principale e, per l’effetto, rigettava l’originaria domanda degli appellati e rigettava anche l’appello incidentale.
Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME L’Università degli studi di Siena si è
costituita con controricorso chiedendo il rigetto dell’impugnazione. L’INPS si è limitata al deposito della procura.
La parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 380bis.1 cod. proc. civ..
Il ricorso è stato trattato dal Collegio nella camera di consiglio dell’8 maggio 2025.
Ragioni della decisione:
In via preliminare occorre valutare l’eccezione di inammissibilità del controricorso per difetto di jus postulandi sollevata dai ricorrenti, secondo i quali difetterebbe una delibera di incarico ai difensori nominati dall’Università controricorrente, una valida motivazione per la nomina, con conseguente nullità del mandato conferito. Le deduzioni svolte con la descritta eccezione richiamano i precedenti di questa S.C. relativi alle ipotesi di conferimento della procura ad avvocati del libero Foro e invocano principi che ritengono applicabili nel caso in questione.
1.1. Il Collegio è ben consapevole dei principi anche di recente riaffermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. n. 6635 del 12/03/2025) sulla scorta dell’insegnamento di Cass. Sez. U., n. 24876/2017. In dette pronunzie si afferma che, ai sensi dell’art. 43 del r.d. n. 1611 del 1933 – come modificato dall’art. 11 della l. 3 aprile 1979, n. 103 – la facoltà per le Università statali di derogare «in casi speciali» al «patrocinio autorizzato», spettante per legge all’Avvocatura dello Stato, per avvalersi dell’opera di liberi professionisti è subordinata all’adozione di una specifica e motivata deliberazione dell’ente (ossia del rettore) da sottoporre agli organi di vigilanza (consiglio di amministrazione) per un controllo di legittimità, cosicché, in
via generale, la mancanza di tale controllo determina la nullità del mandato alle liti, non rilevando che esso sia stato conferito con le modalità prescritte dal regolamento o dallo statuto dell’Università, fonti di rango secondario insuscettibili di derogare alla legislazione primaria; tuttavia, nei casi in cui ricorra una vera e propria urgenza, ai sensi dell’art. 12 del r.d. n. 1592 del 1933, il rettore, quale presidente del consiglio d’amministrazione, può provvedere direttamente al conferimento dell’incarico all’avvocato del libero foro, purché curi di far approvare sollecitamente la relativa delibera dal consiglio, così sanando l’originaria irregolarità. Inoltre, in base al citato art. 43, è valido il mandato conferito ad avvocati del libero foro con il solo provvedimento del rettore, non seguito dal vaglio del consiglio, nel caso in cui si verifichi in concreto un conflitto di interessi sostanziali tra più enti pubblici parti nel medesimo giudizio, rendendo un simile conflitto di interessi che deve essere non meramente ipotetico, ma reale e documentato -non ipotizzabile il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato in favore dell’Università, sicché non vi è alcuna ragione di richiedere la suindicata preventiva autorizzazione.
1.2. Tanto premesso, il Collegio rimarca che la fattispecie concreta qui all’attenzione è differente da quella esaminata nelle innanzi ricordate pronunzie di legittimità. Nel caso qui in esame, infatti, la procura è stata conferita ad avvocati appartenenti all’Avvocatura interna dell’ente. Insomma, se è vero che la questione dello ius postulandi, quanto al conferimento della procura ad avvocati del libero foro, va risolta alla luce dei principi innanzi enunziati dal giudice di legittimità, va verificata la tenuta di dette affermazioni con riguardo alla diversa ipotesi qui in rilievo in cui il conferimento
dell’incarico è stato disposto in favore di avvocati appartenenti alla Avvocatura interna.
1.3. Ebbene, osserva il Collegio, che, se è vero che detta ipotesi non è espressamente disciplinata dall’art. 43 del R.D. n. 1611 del 1933, il dato normativo di cui innanzi va riletto ed interpretato alla luce della complessiva evoluzione che, per quanto qui ci interessa, ha mutato la natura delle Università statali.
1.4. Nel segno della novella di cui all’art. 6 della l. n. 168 del 1989 le Università non sono più organi dello Stato, ma enti pubblici dotati di autonoma personalità giuridica, oltre che di autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, con ordinamento autonomo e proprio statuto e regolamento. A detti enti si applica, quindi, l’art. 43 del r.d. n. 1611 del 1933 ovvero la disciplina relativa alle amministrazioni pubbliche non statali (irrilevante la mancata inclusione delle Univer sità nell’elenco di cui al r.d. n. 779 del 1940, inclusione non contemplabile ratione temporis stante la natura di organi dello Stato). Ne consegue che dopo la riforma di cui alla citata l. n. 168 del 1989, ai fini della rappresentanza e difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato, non opera il patrocinio obbligatorio disciplinato ex art. 1-11 del r.d. n. 1611 del 1933, ma quello autorizzato disciplinato, invece, dagli artt. 43-45 del r.d. n. 1611 del 1933, come modificati dalle novelle intervenute.
1.5. Ebbene, il più volte ricordato art. 43, nella versione frutto della novella ex art. 11, comma 1, l. n. 103 del 1979 che in particolare ha aggiunto il comma terzo, così dispone: «L’Avvocatura dello Stato può assumere la rappresentanza e la difesa nei giudizi attivi e passivi avanti le autorità giudiziarie, i collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali di Amministrazioni pubbliche non statali ed Enti sovvenzionati,
sottoposti a tutela od anche a sola vigilanza dello Stato, sempre che ne sia autorizzata da disposizione di legge, di regolamento o di altro provvedimento approvato con Regio decreto.Le disposizioni e i provvedimenti anzidetti debbono essere promossi di concerto coi Ministri per la grazia e giustizia e per le finanze. Qualora sia intervenuta l’autorizzazione, di cui al primo comma, la rappresentanza e la difesa nei giudizi indicati nello stesso comma sono assunte dalla Avvocatura dello Stato in via organica ed esclusiva, eccettuati i casi di conflitto di interessi con lo Stato o con le regioni. Salve le ipotesi di conflitto, ove tali amministrazioni ed enti intendano in casi speciali non avvalersi della Avvocatura dello Stato, debbono adottare apposita motivata delibera da sottoporre agli organi di vigilanza. Le disposizioni di cui ai precedenti commi sono estese agli enti regionali, previa deliberazione degli organi competenti» .
1.6. La disposizione, sicuramente applicabile al conferimento dell’incarico ad avvocati del libero foro, non chiarisce in alcun modo in che termini si ponga il patrocinio autorizzato nei casi in cui l’Università sia dotata di un apposito ufficio legale, al quale siano assegnati dipendenti iscritti nell’Albo Speciale assunti allo specifico scopo di assicurare le attività di consulenza giuridica e di difesa giudiziale nel datore di lavoro pubblico. Si tratta di una carenza evidentemente dovuta a ragioni storiche, che va risolta in via interpretativa anche tenendo conto della sopravvenienza di specifiche disposizioni che, nel dettare le norme generali sull’ordinamento del lavoro nelle amministrazioni pubbliche, hanno imposto a queste ultime, nell’ambito dei ris pettivi ordinamenti, di «organizzare la gestione del contenzioso del lavoro, anche creando appositi uffici, in modo da assicurare l’efficace
svolgimento di tutte le attività stragiudiziali e giudiziali inerenti alle controversie» ( art. 12 d.lgs. n. 165/2001).
1.7. Nel contesto normativo innanzi richiamato non va affatto escluso che le Università – enti pubblici non statali dotati di personalità giuridica e, come si è già detto, di autonomia organizzativa, finanziaria, contabile, con propri statuti e regolamento -possano a monte, mediante atto organizzativo e regolamentare con cui l’ente istituisce e organizza il proprio ufficio legale, disciplinare le ipotesi nelle quali affidare l’incarico ai propri professionisti interni (in tal senso si è espressa anche la giurisprudenza amministrativa in plurimi precedenti, sebbene con percorso motivazionale non completamente sovrapponibile; fra tutti si veda Tar Sicilia Palermo sez. I n. 2056 del 2020 e la giurisprudenza ivi richiamata).
1.8. Si tratta di una ipotesi, a ben vedere, che, valorizzando l’autonomia delle scelte discrezionali delle Università, si colloca nel solco e nel pieno rispetto della previsione del citato art. 43, perché fa discendere dall’atto organizzativo e regolamentare adottato ‘ in via generale’ al momento dell’istituzione dell’ufficio, quella scelta che, in caso di conferimento del potere ad avvocato del libero foro, va esplicitata con l’adozione della singola delibera, da sottoporre al successivo vaglio e controllo.
1.9. Questa è l’ipotesi qui in rilievo, evidentemente diversa da quella del conferimento del mandato ad avvocati del libero foro, conferimento soggetto ai vincoli procedurali delineati dall’art. 43 cit. e rimarcati dalla giurisprudenza di legittimità (si vedano ancora, tra le massimate, le già ricordate Cass. Sez. U. n. 6635 del 12/03/2025, rv. 673940 -01, nonché Cass. Sez. U., n. 24876/2017, rv. 645661-01).
1.10. In tale prospettiva, qualora l’Università si doti di Avvocatura interna, è con l’atto organizzativo e regolamentare di istituzione che, a monte, vengono effettuate dai vertici dell’Università quelle scelte organizzative che, nel caso del conferimento del mandato all’avvocato del libero foro, devono necessariamente transitare per l’adozione dei provvedimenti e dei controlli di cui innanzi si è detto. Il principio enunciato non si pone in alcun modo in contrasto con quanto affermato da Cass. n. 12642/2021 (invocata dalla difesa delle ricorrenti) perché in quel caso veniva in rilievo l’assunzione del patrocinio dell’Università da parte dell’Avvocatura de llo Stato, che, secondo l’assunto del ricorrente, avrebbe richiesto, a seguito della presenza di un’avvocatura interna, un espresso conferimento del mandato dell’Università in favore dell’Avvocatura dello Stato.
Con quella pronuncia si è escluso che ‘ l’Università, seppure in condizione di avvalersi di dipendenti autorizzati all’esercizio della professione legale, debba esplicitare le ragioni per le quali ritenga opportuno affidare la difesa all’Avvocatura, perché il potere di rappresentanza è conferito a quest’ultima dalla legge e la delibera motivata è richiesta solo qualora l’ente ritenga di dovere derogare al regime, per così dire, ordinario ‘ e tale principio è pienamente coerente con quanto sopra evidenziato i n merito alla rilevanza dell’atto organizzativo generale di istituzione dell’ufficio legale, atto che non impedisce l’assunzione della difesa, nei casi in cui ciò sia ritenuto opportuno o necessario, da parte dell’Avvocatura statale ( difesa che in tal cas o sarà in ogni aspetto disciplinata dall’art. 43 del citato r.d. ), ma rende non necessario far precedere il rilascio della procura dalle formalità prescritte dall’art. 43 nei casi in cui il potere venga conferito all’avvocatura interna,
rispetto alla quale non si pongono, ovviamente, quelle esigenze anche di carattere finanziario sottese al principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite.
1.11. L’eccezione di inammissibilità del controricorso, in ragione dell’incontestato (e desumibile ex actis) conferimento dello ius postulandi ad avvocati appartenenti all’Avvocatura interna non coglie nel segno ed è infondata.
Con il primo motivo di ricorso si deduce ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. la nullità della sentenza per violazione dell’art. 2909 cod. civ., avendo la pronuncia disatteso il giudicato esterno formatosi tra le parti. Secondo i ricorrenti la sentenza della Corte di Appello di Firenze avrebbe errato nel negare rilievo al giudicato esterno costituito dagli accertamenti giudiziali già intervenuti tra le parti, con efficacia definitiva, in relazione alla ultrattività del CCI di Ateneo del 2006, in particolare la sentenza avrebbe negato rilievo al giudicato già riconosciuto come formato dalla Corte di cassazione, con ordinanza n. 19023/2022 nel decidere sul contenzioso insorto tra le medesime parti, per le stesse ragioni e per il periodo di retribuzione immediatamente precedente (giugno 2011 -giugno 2013). Secondo la parte ricorrente «doveva essere dato per acquisito in causa che il CCI del 2006 del 27/12/2006 ha efficacia ultrattiva tra le parti anche oltre il termine di scadenza del 31/12/2009 ed anche oltre quello del 31/12/2010, fissato in generale dalla cosiddetta normativa Brunetta, richiamata impropriamente dalla Corte fiorentina, per il mancato adeguamento dei contratti collettivi». Nel presente giudizio, e ulteriormente con il primo motivo di impugnazione, i ricorrenti hanno invocato il medesimo giudicato esterno e hanno sostenuto che in ragione
di esso spettasse loro il trattamento stabilito dal CCI del 2006 anche oltre il 01/01/2011 e almeno fino alla stipula del CCI del 2014.
2.1. Il motivo è infondato. Va rilevato come il giudicato formatosi tra le parti per i periodi fino al maggio 2011 in ragione di diverse controversie, introdotte in via monitoria e conclusesi a favore dei ricorrenti è fissato nel suo valore dalla pronuncia della Corte di cassazione n. 19023/2022 ma non è di per sé preclusivo di ogni ulteriore valutazione quanto ai periodi successivi; per questa via non era affatto precluso al giudice di merito valutare se il giudicato in questione non fosse stato, di seguito, superato da successivi mutamenti negoziali o normativi idonei a giustificare il venire meno della sua efficacia. Quello appena sintetizzato è, infatti, il corretto significato da attribuire all’ordinanza Cass. n. 19023/2022 che ha cassato la sentenza di secondo grado in quella sede impugnata, perché detta pronuncia non aveva tenuto in nessun conto il giudicato, ma ha rinviato alla Corte di Appello perché valutasse nel concreto l’efficacia del giudicato tra le parti. In tal senso l’ordinanza, afferma: inn anzi tutto «la questione sull’applicazione del CCI 2014 resta oggetto di causa» specificando, altresì, che: «nel caso di specie, dalla narrativa dei ricorrenti e dal riscontro officioso sulle sentenze della S.C. che hanno definito i corrispondenti giudizi risulta in effetti, come anticipato nello storico di lite, che sono passati in giudicato plurimi decreti ingiuntivi che coprono il periodo dal maggio 2010 al maggio 2011; d’altra parte, il giudicato ha effetto obiettivo ed è rilevabile d’ufficio nella sua intera portata nel caso di specie la validità della contrattazione del 2006 è coperta dal menzionato giudicato, implicitamente formatosi tra le parti e ciò dovrà essere assunto come dato acquisito nel
giudizio di rinvio conseguente alla cassazione, in forza dei motivi qui accolti, della sentenza di appello» e conclude come segue: «in sostanza, la Corte d’Appello ha errato nel non apprezzare l’esistenza di quel giudicato (implicito) sulla validità del CCI 2006 e ciò comporta la cassazione della pronuncia impugnata; ciò non fa venire meno la necessità di valutare, in sede di rinvio, i rapporti esistenti, sul piano processuale e sostanziale e con riferimento alle mensilità oggetto del presente giudizio, tra quel giudicato implicito, la sua complessiva portata ed il CCI 2014, munito di effetto retroattivo al gennaio 2011 e quindi potenzialmente tale da coinvolgere le mensilità coinvolte dalla presente causa (giugno 2011-giugno 2013 e tredicesime), questioni che, potendo eventualmente comportare apprezzamenti non semplici, non è opportuno affrontare in questa sede nel merito». La pronuncia adottata con efficacia rescindente tra le medesime parti da questa Corte, in relazione al contenzioso instauratosi con riguardo a un periodo precedente, affidava dunque al giudice del rinvio un mandato riguardante i rapporti tra il dedotto giudicato (non considerato dalla Corte di Appello) e il CCI del 2014 quale nuova fonte ad efficacia retroattiva. Non vi era, dunque, una conclusione predefinita e vincolata nel principio adottato in sede rescindente dalla Corte ma era rimesso al giudice del rinvio un successivo apprezzamento.
2.2. Nel presente giudizio, peraltro relativo ad un periodo successivo, la Corte di Appello ha escluso l’efficacia vincolante del giudicato in questione richiamando, innanzi tutto, il tenore dell’art. 40 d.lgs. 165/2001 secondo il quale «la contrattaz ione collettiva integrativa si svolge sulle materie, con i vincoli e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono» e
ulteriormente «le pubbliche amministrazioni non possono in ogni caso sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con i vincoli e con i limiti risultanti dai contratti collettivi nazionali o che disciplinano materie non espressamente delegate a tale livello negoziale ovvero che comportano oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione. Nei casi di violazione dei vincoli e dei limiti di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o dalle norme di legge, le clausole sono nulle, non possono essere applicate e sono sostituite ai sensi degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile». Di seguito la sentenza impugnata ha richiamato il disposto dell’art. 65 d.lgs. 150/2009: «Entro il 31 dicembre 2010, le parti adeguano i contratti collettivi integrativi vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto alle disposizioni riguardanti la definizione degli ambiti riservati, rispettivamente, alla contrattazione collettiva e alla legge, nonché a quanto previsto dalle disposizioni del Titolo III del presente decreto. In caso di mancato adeguamento ai sensi del comma 1, i contratti collettivi integrativi vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto cessano la loro efficacia dal 1° gennaio 2011 e non sono ulteriormente applicabili». La Corte di Appello ha, poi, ripercorso le varie fasi dei contenziosi consumatisi tra le m edesime parti e ha affermato che l’entrata in vigore del CCI del 2014, munito di efficacia retroattiva a decorrere dal 01/01/2011, vale a costituire un mutamento di fatto e di diritto idoneo a superare l’efficacia del giudicato esterno formatosi su precedenti periodi.
2.3. Orbene, ad avviso del Collegio la decisione, sotto i descritti profili, va esente da censure avuto riguardo al fatto
che il venir meno dell’efficacia del CCI del 2006, l’entrata in vigore del CCI del 2014 e le modifiche normative innanzi richiamate e riferibili al d.lgs. 150/2009 valgono a costituire elementi di fatto e di diritto idonei a mutare il rapporto tra le parti, a innovarne sostanzialmente il regolamento e a precludere l’ultrattività del giudicato.
2.4. In tal senso si consideri che «nei rapporti di durata, anche di lavoro, il vincolo del giudicato, sia pur formato in relazione a periodi temporali diversi, opera solo a condizione che il fatto costitutivo sia lo stesso ed in relazione ai soli aspetti permanenti del rapporto, con esclusione di quelli variabili» (Cass. 18/08/2020 n. 17223). Ed ancora: «in ordine ai rapporti giuridici di durata e alle obbligazioni periodiche che eventualmente ne costituiscano il contenuto, sui quali il giudice pronuncia con accertamento su una fattispecie attuale ma con conseguenze destinate ad esplicarsi anche in futuro, l’autorità del giudicato impedisce il riesame e la deduzione di questioni tendenti ad una nuova decisione di quelle già risolte con provvedimento definitivo, il quale pertanto esplica la propria efficacia anche nel tempo successivo alla sua emanazione, con l’unico limite di una sopravvenienza, di fatto o di diritto, che muti il contenuto materiale del rapporto o ne modifichi il regolamento» (Cass. 23/07/2015 n. 15493).
2.5. Il primo motivo di ricorso va, in definitiva, respinto perché non si confronta adeguatamente con la ratio decidendi della pronuncia impugnata, che non ha negato l’efficacia di giudicato dei decreti ingiuntivi precedentemente ottenuti né ha affermato la nullità del CCI del 2006, bensì ha valorizzato, in modo del tutto legittimo, quale fatto sopravvenuto il CCI del 2014 e perchè il motivo si fonda su una inesatta lettura del
significato e del principio di diritto desumibili dalla ordinanza Cass. n. 19023/2022.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ. nullità della sentenza per violazione dell’art. 51, comma 6, del ccnl 21.05.1996 e dell’art. 2103 c.c., anche in relazione all’art. 36 cost.. Secondo la parte ricorrente la Corte di Appello avrebbe errato nell’affermare la portata retroattiva al 01/01/2011 del CCI del 2014 anche per i ricorrenti che avevano espressamente rifiutato di aderire al contratto in questione. Essendo coperta da giudicato l’affermazione secondo la quale il CCI del 2006 conservava efficacia tra le parti, il CCI del 2014 non poteva mai acquisire efficacia prima della data di stipula e cioè prima del 22/09/2014, anche per il divieto di reformatio in peius affermato dall’art. 2103 cod. civ.. La Corte di Appello avrebbe, poi, errato nel ritenere che il CCI 2014 non fosse peggiorativo del CCI del 2006.
3.1. Il motivo è infondato. In via generale va ricordato che non è precluso alla contrattazione integrativa provvedere anche in via retroattiva: «il lavoratore iscritto ad un’associazione sindacale che abbia dato mandato alla stessa per la stipula di un nuovo contratto collettivo ha diritto all’applicazione delle disposizioni contenute in tale contratto, anche se lo stesso sia stato concluso successivamente alla data in cui il suo rapporto di lavoro è terminato, se le parti contraenti, nell’attribuire efficacia retroattiva al nuovo contratto, non abbiano operato alcuna distinzione fra i dipendenti in servizio e quelli non più in servizio alla data della stipulazione» (Cass. 25/10/2021, n. 29906).
3.2. Nella parte in cui il motivo di ricorso lamenta che il nuovo contratto non si sarebbe dovuto applicare ai ricorrenti
perché questi vi si erano opposti, la doglianza è, parimenti, infondata. Con orientamento al quale il Collegio intende dare continuità questa Corte ha affermato nella pronuncia Cass. 13/06/2022, n. 19023 che «il legislatore, pur definendo di diritto privato il rapporto di lavoro intercorrente fra l’Università ed il collaboratore linguistico ne ha affidato la disciplina alla contrattazione collettiva, con un meccanismo di rinvio non dissimile da quello previsto per l’impiego pubblico contrattualizzato dall’art. 2 del d.lgs. n. 29/1993, vigente all’epoca della decretazione di urgenza. La contrattazione intervenuta a disciplinare il rapporto è infatti quella per il personale del Comparto Università stipulata ai sensi del richiamato d.lgs. n. 29/1993 e poi del d.lgs. n. 165/2001, sicché trovano applicazione i medesimi principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. nn. 21558 e 23329 del 2009) in relazione alla particolare natura del contratto collettivo di diritto pubblico, derivante dal peculiare procedimento formativo, dal regime di pubblicità, dalla sottoposizione a controllo contabile della compatibilità dei costi previsti» (Cass. 17 agosto 2018, n. 20765); su tali premesse è evidente che la struttura della contrattazione per i C.E.L., essendo del tutto identica alla contrattazione propria del lavoro c.d. privatizzato non può che comportare un’efficacia di essa a prescindere dall’adesione sindacale dei singoli alle compagini stipulanti e, quindi, erga omnes e ciò rispetto a tutte le articolazioni di essa, ivi compresi i contratti integrativi».
3.3. Quanto, infine, al profilo della doglianza secondo il quale il nuovo contratto sarebbe peggiorativo del precedente, il motivo di ricorso è inammissibile: la Corte di appello ha condotto un accertamento di fatto, previo confronto tra le discipline diverse, previste per inquadramento diverso e con
conseguente diversa retribuzione, accertamento logico coerente e non censurabile nel giudizio di legittimità (Cass. n. 8954 del 20/08/1991).
Con il terzo motivo di ricorso si deduce ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. violazione dell’art. 45 TFUE da interpretare alla stregua del contenuto vincolante delle sentenze della corte di giustizia dell’unione europea 26.6.2001 c-212/99; 18.7.2006 c119/04, nonché dell’art. 7 del regolamento UE 492/2011 (art. 360 n. 3 c.p.c.).
4.1. In via preliminare, con riguardo a questo motivo, va disattesa l’istanza di rinvio a nuovo ruolo e di fissazione dell’udienza pubblica ex art. 375 cod. proc. civ. formulata dalla difesa di parte ricorrente. Hanno affermato le Sezioni Unite di questa Corte ( Cass. S.U. n. 4331/2024) che all’esito della riformulazione dell’art. 375 cod. proc. civ., operata dal d.lgs. n. 149/2022, la Corte di Cassazione, anche a Sezioni Unite, pronuncia in pubblica udienza unicamente nei casi di ricorso per revocazione ex art. 391 quater cod. proc. civ. e di particolare rilevanza della questione di diritto, mentre delibera con ordinanza resa all’esito della camera di consiglio ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ., «in ogni altro caso in cui non pronuncia in pubblica udienza» ( art. 375, comma 2, n. 4 quater). La disposizione delinea un rapporto regola/eccezione secondo cui i ricorsi sono «normalmente» destinati ad essere definiti nel rispetto delle forme previste dall’art. 380 -bis 1 cod proc. civ., ossia all’esito di adunanza camerale, salvo che non ricorrano le condizioni indicate nel primo comma dello stesso art. 375 cod. proc. civ., la cui applicabilità, quanto all’ipotesi riferibile all’esercizio del potere nomofilattico, richiede che la questione di diritto sulla quale la Corte è chiamata a pronunciare si presenti di particolare rilevanza, che va esclusa,
non solo nell’ipotesi in cui la questione medesima non sia nuova, perché già risolta dalla Corte, ma anche qualora il principio di diritto che la Corte è chiamata ad enunciare sia solo apparentemente connotato da novità, perché conseguenza della mera estensione di principi già affermati, sia pure in relazione a fattispecie concrete connotate da diversità rispetto a quelle già vagliate. Quest’ultima evenienza ricorre nella fattispecie, giacché le questioni prospettate si risolvono sulla base di principi che questa Corte ha già enunciato in plurime pronunce, in coerenza con quanto affermato dalle Sezioni Unite.
4.2. Il terzo motivo è infondato: la parte ricorrente invoca del tutto genericamente gli indici comunitari e non si confronta con la motivazione della sentenza secondo la quale è proprio il CCI di Ateneo ad avere dato esecuzione alle sentenze europee e ad avere ricostruito la carriera dei ricorrenti e assicurato il trattamento dovuto per gli anni precedenti e per il contratto unico. Il motivo rimane, poi, del tutto generico perché non spiega in qual modo la soluzione adottata in ragione del nuovo CCI sarebbe lesiva del principio di non discriminazione. I principi richiamati non sono pertinenti perché riguardano la ricostruzione della carriera degli ex lettori divenuti collaboratori esperti linguistici ed il ricorso in nessuna parte deduce che l’università no n avrebbe assicurato agli ex lettori la ricostruzione della carriera e un trattamento retributivo pari a quello ottenuto nella prima fase del rapporto.
4.3. La pretesa discriminazione non potrebbe trovare fondamento nella dedotta parificazione al personale docente e ai ricercatori. Sul punto, può richiamarsi altra pronuncia di legittimità (Cass n. 18897/2019) in cui è stata ribadita «… la specificità propria del collaboratore linguistico, non
equiparabile al docente, specificità che giustifica la differenziazione retributiva rispetto a quest’ultimo ed il conferimento del potere alle parti collettive di individuare la retribuzione proporzionata alla qualità e quantità della prestazione, a prescindere dal raffronto con il trattamento economico riservato al personale docente…» avendo quindi la Corte inteso evidenziare e mantenere ferma una differenziazione tra le due figure. Anche più recentemente, la Corte di Cassazione (ord. Cass. 16449 del 2022) ha precisato che «la Corte di Giustizia nelle decisioni richiamate in premessa ha sempre precisato che in virtù del principio di non discriminazione ai lettori di lingua straniera, divenuti collaboratori linguistici, deve essere assicurato il medesimo trattamento riservato, in situazioni analoghe, ai lavoratori di cittadinanza italiana» ed ha anche aggiunto che la Repubblica italiana non era stata obbligata «a identificare una categoria di lavoratori analoga agli ex lettori e ad equiparare completamente il trattamento riservato a questi ultimi a quello di cui beneficia la detta categoria per le medesime ragioni indicate nei punti che precedono va ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale nei termini prospettati, perché non risultano violati gli obblighi comunitari né il principio della parità di trattamento ed inoltre il trattamento retributivo non si può dire non adeguato alla qualità e quantità del lavoro prestato, in ragione della non equiparabilità del lettore al docente». Circa la ricostruzione della vicenda dei lettori di lingua straniera rileva anche Cass. 16464/2022 che afferma: «resta escluso che la retribuzione stessa possa rimanere agganciata, anche per il periodo successivo alla stipula del contratto di collaborazione (o, in assenza, della sentenza che abbia disposto la conversione del
rapporto) alle dinamiche contrattuali previste per i ricercatori confermati a tempo definito (cfr. Cass. n. 20483/2023; Cass. n. 13886/2023; Cass. n. 16462/2022; Cass. n. 20765/2018)». Ed infine, secondo Cass. 13488/2024 «l’azione attribuita all’ex lettore dal d.l. n. 2/2004, come interpretato autenticamente dalla legge n. 240/2010, ossia da disposizione normativa che il legislatore ha emanato con la specifica finalità di ottemperare alla pronuncia della Corte di Giustizia (chiaro in tal senso è l’incipit dell’art. 1: In esecuzione della sentenza pronunciata dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee in data 26 giugno 2001 nella causa C212/99…), è autonoma e distinta da quella di adeguamento retributivo ex art. 36 Cost. che l’ex lettore poteva far vale re nella vigenza dell’art. 28 del d.P.R. n. 382/1980, e, pertanto, la prescrizione del relativo diritto inizia a decorrere dall’entrata in vigore della nuova normativa (cfr. Cass. nn. 13175, 14203, 15018 del 2018) ed inoltre l’azione non è impedita da un p recedente giudicato sull’adeguatezza della retribuzione corrisposta all’ex lettore, se formatosi antecedentemente all’entrata in vigore della nuova normativa».
Il ricorso deve, allora, essere integralmente respinto.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso,
condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 8.000,00 (ottomila) per compensi, euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario nella misura del 15% e accessori come per legge;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro della Corte Suprema di cassazione, dell’8 maggio 2025.
La Presidente
NOME COGNOME