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Contratti a termine pubblico impiego: abuso e risarcimento

Una lavoratrice del settore pubblico ha ottenuto il riconoscimento dell’illegittimità della reiterazione dei contratti a termine da parte di un Comune. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 13209/2024, ha stabilito principi fondamentali sui contratti a termine nel pubblico impiego: il limite di durata massima di 36 mesi si applica anche agli enti locali e la successiva assunzione a tempo indeterminato (stabilizzazione), se avvenuta tramite concorso, non sana automaticamente l’abuso pregresso. La Corte ha quindi cassato la sentenza d’appello, rinviando la causa per una nuova valutazione del danno subito dalla lavoratrice.

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Pubblicato il 14 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Contratti a termine nel pubblico impiego: l’abuso non si sana con la stabilizzazione

La gestione dei contratti a termine nel pubblico impiego è una questione complessa, costantemente al centro di dibattiti e contenziosi. Un’ordinanza recente della Corte di Cassazione (n. 13209 del 14 maggio 2024) ha ribadito alcuni principi cruciali in materia di abuso dei contratti a tempo determinato, risarcimento del danno e valore della successiva stabilizzazione. La pronuncia offre chiarimenti importanti per i lavoratori precari e per le stesse amministrazioni pubbliche.

Il caso: contratti a termine reiterati e il percorso giudiziario

Una lavoratrice aveva prestato servizio per un Comune dal 2011 al 2015 attraverso una serie di contratti a tempo determinato. Ritenendo che tale reiterazione fosse abusiva, si è rivolta al Tribunale, che le ha dato ragione: ha dichiarato l’illegittimità della successione dei contratti, condannato il Comune a un risarcimento pari a 5 mensilità e riconosciuto il suo diritto alle progressioni economiche maturate.

La Corte d’Appello, tuttavia, ha ribaltato completamente la decisione. Secondo i giudici di secondo grado, le ragioni sostitutive indicate nei contratti erano valide, non vi era stato abuso né superamento del limite temporale di 36 mesi e, in ogni caso, l’avvenuta stabilizzazione della lavoratrice nel 2018 aveva sanato qualsiasi potenziale danno. Inoltre, la Corte territoriale ha negato le progressioni economiche, sostenendo che nel comparto Enti Locali non sono automatiche ma legate a valutazioni di merito.

I principi chiave sui contratti a termine nel pubblico impiego secondo la Cassazione

La lavoratrice ha quindi presentato ricorso in Cassazione, la quale ha accolto tre motivi fondamentali, cassando la sentenza d’appello e delineando un quadro chiaro sulla disciplina applicabile.

Limite dei 36 mesi: vale anche per gli Enti Locali

Il primo punto cruciale riguarda l’applicabilità del limite massimo di 36 mesi per la durata complessiva dei contratti a termine, previsto dall’art. 5, comma 4-bis, del D.Lgs. n. 368/2001. La Corte di Cassazione ha affermato senza mezzi termini che questo limite si applica anche ai contratti a termine nel pubblico impiego, inclusi quelli stipulati dagli enti locali. La sentenza d’appello, che aveva ritenuto inapplicabile tale norma, è stata giudicata errata. Questo principio rafforza la tutela contro la precarizzazione a vita nel settore pubblico.

La stabilizzazione non cancella automaticamente l’abuso

Il secondo principio, forse il più significativo, è che la stabilizzazione non ha un effetto sanante automatico sull’abuso pregresso. La Corte ha chiarito che l’assunzione a tempo indeterminato può avere un’efficacia ‘riparatoria’ solo se esiste una stretta correlazione tra l’abuso commesso dall’amministrazione e la stabilizzazione stessa.

Questa correlazione non sussiste quando l’assunzione avviene all’esito di una procedura concorsuale pubblica. In tal caso, l’immissione in ruolo è l’effetto del superamento di una selezione basata sul merito e sulle capacità del candidato, non una misura riparatoria per l’abuso subito. La Corte d’Appello aveva omesso di indagare sulle concrete modalità di assunzione della lavoratrice, limitandosi a considerare la stabilizzazione come un fatto risolutivo. La Cassazione, richiamando anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, ha sottolineato che permettere a uno Stato di ‘sanare’ l’abuso semplicemente organizzando concorsi pubblici vanificherebbe la tutela richiesta dalla normativa europea.

Progressioni economiche: l’anzianità non è sufficiente

Su un punto, però, la Cassazione ha dato ragione alla Corte d’Appello: il diritto alle progressioni economiche. La Corte ha confermato che, secondo il Contratto Collettivo del Comparto Regioni e Autonomie Locali, l’avanzamento economico non è un automatismo legato alla sola anzianità di servizio (a differenza di altri comparti, come la Scuola). Esso avviene per ‘merito comparativo’. Di conseguenza, il solo fatto di aver prestato servizio per un certo numero di anni, anche con valutazione positiva, non è sufficiente per rivendicare automaticamente gli scatti retributivi previsti per il personale di ruolo. La lavoratrice non aveva, inoltre, provato di aver subito un danno da perdita di chance per non aver potuto partecipare alle procedure di progressione.

Le motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano sull’esigenza di bilanciare la flessibilità richiesta alle pubbliche amministrazioni con la necessità di prevenire e sanzionare l’abuso del lavoro precario, in linea con la Direttiva UE 1999/70. La Corte ha evidenziato che le norme che limitano la durata dei contratti a termine (come il tetto dei 36 mesi) sono di applicazione generale e non possono essere disapplicate per il pubblico impiego in assenza di specifiche eccezioni legislative. Per quanto riguarda la stabilizzazione, la motivazione risiede nel principio secondo cui una sanzione deve essere effettiva e dissuasiva. Se l’assunzione a tempo indeterminato fosse sempre e comunque considerata una ‘cura’ per l’abuso, l’amministrazione non avrebbe alcun deterrente dal reiterare illegittimamente i contratti, sapendo di poter poi ‘sistemare’ la situazione con un concorso. Infine, sul tema delle progressioni economiche, la decisione si basa su una stretta interpretazione della contrattazione collettiva di settore, che privilegia il merito rispetto all’automatismo dell’anzianità.

Le conclusioni

In conclusione, la Corte di Cassazione ha accolto i motivi relativi all’applicazione del limite di 36 mesi e all’inefficacia sanante della stabilizzazione avvenuta tramite concorso. Ha cassato la sentenza impugnata e rinviato la causa alla Corte di Appello, che dovrà riesaminare il caso attenendosi a questi principi. In particolare, dovrà verificare se vi sia stato un superamento del limite di durata e, in caso affermativo, quantificare il risarcimento del danno dovuto alla lavoratrice, senza poter considerare l’assunzione a tempo indeterminato come una forma di riparazione automatica. La decisione rappresenta una vittoria importante per la tutela dei lavoratori precari del settore pubblico.

Il limite massimo di 36 mesi per i contratti a termine si applica anche ai dipendenti dei Comuni?
Sì. La Corte di Cassazione ha confermato che il limite di durata massima di 36 mesi per i contratti a tempo determinato, previsto dal D.Lgs. 368/2001, è di applicazione generale e si estende anche alle pubbliche amministrazioni, inclusi gli enti locali come i Comuni.

Se un lavoratore pubblico precario viene assunto a tempo indeterminato (stabilizzato), questo sana automaticamente l’eventuale abuso precedente nell’uso dei contratti a termine?
No. La stabilizzazione non sana automaticamente l’abuso. Secondo la Corte, ha efficacia riparatoria solo se c’è una stretta e diretta correlazione tra l’abuso e l’assunzione. Se l’immissione in ruolo avviene all’esito di una normale procedura concorsuale, essa è il risultato del merito del candidato e non una misura per rimediare all’illecito, che pertanto deve essere comunque sanzionato.

Un dipendente di un ente locale con contratti a termine ha diritto agli stessi scatti di anzianità (progressioni economiche) dei colleghi di ruolo?
No, non automaticamente. La Corte ha chiarito che, per il personale degli enti locali, la progressione economica non è legata alla sola anzianità di servizio ma avviene per merito comparativo. Pertanto, il lavoratore a termine non può rivendicare gli scatti retributivi basandosi unicamente sul servizio prestato, anche se valutato positivamente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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