Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 14095 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 14095 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 27/05/2025
Oggetto: marchio
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3772/2024 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentate e difese dagli avv. NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME – ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dagli avv. NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Milano n. 2637/2023, depositata il 12 settembre 2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 maggio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE propongono
ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Milano, depositata il 12 settembre 2023, di reiezione del loro appello per la riforma della sentenza del locale Tribunale che aveva accolto la domanda di contraffazione di marchi proposta nei loro confronti dalla RAGIONE_SOCIALE e, conseguentemente, condannato le medesime al risarcimento dei danni, liquidati in euro 197.234,59, oltre interessi, con pubblicazione della sentenza;
– nella sentenza impugnata si dà atto che il giudizio aveva avuto origine dalla proposizione da parte delle odierne ricorrenti delle domande: di accertamento negativo in relazione all’allegata assenza di condotte contraffattive o di concorrenza sleale poste in essere nell’attività di commercializzazione di capi di abbigliamento contraddistinti dal marchio «RAGIONE_SOCIALE», caratterizzato dalla raffigurazione dal profilo di un cane bassotto; di condanna per atti di concorrenza sleale ai loro danni consistenti nel l’invio di lettere di diffide ai rivenditori dei prodotti contraddistinti dal predetto marchio «RAGIONE_SOCIALE»;
la Corte di appello ha riferito che il giudice di prime cure, a seguito di declinatoria di competenza del Tribunale di Napoli, originariamente adito, aveva ordinato, in via cautelare, l’inibizione delle attrici dalla promozione e dalla vendita di prodotti recanti segni simili a quelli oggetto della privativa vantata dalla convenuta e il sequestro di tali beni e della relativa documentazione contabile, aveva accolto la domanda di contraffazione proposta in via riconvenzionale dalla convenuta, avuto riguardo alla validità dei marchi vantati da quest’ultima raffiguranti un cane bassotto, la cui registrazione era stata preceduta da uso, al carattere non debole degli stessi e alla loro notorietà, alla modesta capacità distinta dell’elemento denominativo «RAGIONE_SOCIALE», peraltro presente solo in alcuni dei marchi, e al carattere rilevante dell’elemento figurativo rappresentato dalla figura del cane bassotto raffigurato di profilo;
ha aggiunto che il Tribunale aveva, poi, liquidato il danno facendo
applicazione del criterio della giusta royalty ;
la Corte territoriale ha, quindi, disatteso il gravame evidenziando, in particolare, il carattere forte del marchio, desunto dalla figura del bassotto costituente il cuore dei marchi azionati, la sussistenza del dedotto rischio di confusione, la irrilevanza dei diversi canali di distribuzione utilizzati dalle parti per la vendita dei rispettivi prodotti e la correttezza della statuizione relativa alla liquidazione del danno;
il ricorso è affidato a dieci motivi;
resiste con controricorso la RAGIONE_SOCIALE
le ricorrenti depositano memoria ai sensi dell’art. 380 -bis .1 cod. proc. civ.;
CONSIDERATO CHE:
con il primo motivo le ricorrenti denunciano la erronea e falsa applicazione degli artt. 20, lett. b) e c), c.p.i. e 9, lett. b) e c), R.M.U.E., per aver la sentenza impugnata ritenuto che i marchi vantati dalla appellata fossero notori, pur in assenza dei requisiti previsti per il riconoscimento di un siffatto carattere, non essendo stata dimostrata la quota di mercato coperta da tali segni, l’intensità del suo uso e l’entità degli investimenti promozionali;
il motivo è inammissibile;
-l’affermazione secondo cui il marchio vantato dalla appell ata fosse un marchio notorio, benché presente nella sentenza di appello, non ha assunto alcun rilievo ai fini della decisione, come espressamente ivi riconosciuto;
la Corte di appello ha infatti fatto precedere tale affermazione dalla puntualizzazione che la stessa «non rilevante, in considerazione di quanto sopra detto, ai fini della tutela del marchio dell’appellata (posto che quanto sopra osservato rende evidente la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 20 lett. b) c.p.i.) »;
risulta, dunque, palese la natura di obiter dictum della affermazione in esame e, dunque, la sua estraneità dalla ratio decidendi della
sentenza impugnata;
con il secondo motivo deducono l’erronea e falsa applicazione dell’art. 20, lett. b), c.p.i., per aver la Corte di appello erroneamente ritenuto che i marchi vantati dalla appellata facessero parte di una medesima famiglia , non riscontrandosi l’identità del nucleo ideologico espressivo; – aggiungono che la valutazione di confondibilità avrebbe dovuto tener conto della centralità che l’elemento denominativo rivestiva nei marchi della convenuta, che il segno distintivo utilizzato da esse appellanti rappresentava un mero decoro e che non poteva riconoscersi alla cani
convenuta il diritto esclusivo all’utilizzazione di segni raffiguranti bassotti;
il motivo è inammissibile;
-la censura si risolve, nella sostanza, in una critica all’ apprezzamento del giudice di appello in ordine alla confondibilità dei segni che è riservata al giudice di merito e, dunque, non è sindacabile in questa sede per violazione o falsa applicazione della legge (cfr. Cass. 13 dicembre 2021, n. 39764; Cass. 13 marzo 2017, n. 6382; Cass. 28 febbraio 2006, n. 4405);
può, in ogni caso, osservarsi che in presenza di un marchio complesso, benché la valutazione della somiglianza tra i segni non possa limitarsi a prendere in considerazione solo una componente e a paragonarla con quella dell’altro , occorrendo procedere all’esame dei segni in conflitto considerati ciascuno nel suo insieme, ciò non esclude che l’impressione complessiva prodotta nella memoria del pubblico di riferimento da un marchio complesso possa, in determinate circostanze, essere influenzata da una o più delle sue componenti e, in tali casi, laddove tutte le altre componenti assumano un rilievo trascurabile, la valutazione di somiglianza possa essere affidata al solo esame di tali componenti (cfr. Corte Giust. UE 18 settembre 2014, C308/13 P e C-309/13 P, RAGIONE_SOCIALE ; Corte Giust. UE 3 settembre 2009, C-498/07 P, RAGIONE_SOCIALE Sur-Coosur v Koipe ;
Corte Giust. UE 12 giugno 2007, C -334/05 P, UAMI/Shaker ; tra la giurisprudenza nazionale, Cass. 24 luglio 2023, n. 22034; Cass. 15 dicembre 2022, n. 36862);
– inoltre, quando un marchio è composto da elementi denominativi e da elementi figurativi sebbene i primi siano, in linea di principio, maggiormente distintivi rispetto ai secondi -dato che il consumatore medio farà più facilmente riferimento ai prodotti in oggetto citando il nome del marchio piuttosto che descrivendone l’elemento figurativo non ne consegue che gli elementi denominativi di un marchio debbano essere sempre considerati più distintivi rispetto agli elementi figurativi, in quanto l’elemento figurativo può, in particolare per la sua forma, le sue dimensioni, il suo colore o la sua collocazione nel segno, occupare una posizione equivalente a quella dell’elemento denominativo, dovendo, dunque, il giudice di esaminare le qualità intrinseche dell’elemento figurativo e quelle dell’elemento denominativo del marchio richiesto, nonché le loro rispettive posizioni, al fine di identificare la componente dominante – la Corte di appello ha effettuato tale valutazione giungendo alla conclusione che «ciò che rileva, invece, è che il bassotto della parte appellante evoca immediatamente nella mente del consumatore, per dimensioni, proporzioni e posizione di profilo, il simbolo che individua i prodotti dell’appellata »;
– con il terzo motivo lamentano la erronea e falsa applicazione degli artt. 20 c.p.i. e 1292 e 2043 cod. civ., l’ omessa o carente motivazione e l’ erronea o falsa interpretazione di prove determinanti ai fini del
decidere «in punto mancata solidarietà e della limitata responsabilità (potenziale) della società RAGIONE_SOCIALE», dolendosi del fatto che la sentenza impugnata ha riconosciuto la responsabilità solidale della società italiana anche relativamente a condotte poste in essere in epoca antecedente alla sua costituzione dalla capogruppo statunitense;
il motivo è inammissibile;
la questione ivi dedotta non risulta essere stata trattata nella sentenza impugnata;
in una siffatta evenienza è onere della parte ricorrente allegare la avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, onde consentire a questa Corte di poter verificare l’ammissibilità delle censure, sotto il profilo dell’assenza di novit à, oltre che la sua fondatezza, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di merito (cfr. Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675);
infatti, non sono prospettabili, per la prima volta, in sede di legittimità le questioni non appartenenti al tema del decidere dei precedenti gradi del giudizio di merito, né rilevabili di ufficio (cfr. Cass. 25 ottobre 2017, n. 25319; Cass. 9 luglio 2013, n. 17041; Cass. 30 marzo 2007, n. 7981), posto che il giudizio di cassazione ha per oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formale del processo e alle questioni di diritto proposte (così, anche, Cass. 26 marzo 2012, n. 4787);
parte ricorrente si limita ad allegare di aver depositato nel giudizio di merito documento attestante la data della sua costituzione, individuata nel 25 maggio 2017, senza, tuttavia, specificare se e in quale sede la relativa allegazione era stata effettuata;
inoltre, omette di indicare puntualmente in che termini la sentenza impugnata avrebbe preso in considerazione, ai fini della liquidazione del danno, condotte piste in essere in epoca antecedete alla sua
costituzione;
deve, dunque, concludersi che parte ricorrente non ha assolto a ll’onere sulla stessa gravante e che, conseguentemente, la censura non rispetta il requisito dell’autosufficienza;
con il quarto motivo criticano la sentenza di appello per falsa ed erronea interpretazione ed applicazione degli artt. 1223, 1226, 1227 e 2043 cod. civ. e 125 c.p.i., in relazione alla ritenuta infedele prospettazione e parziale esibizione delle scritture contabile da parte della capogruppo statunitense, evidenziando l’omesso esame completo della documentazione prodotta e l’assenza di attività di wholesale delle attrici;
contestano, poi, la contabilizzazione di costi sostenuti dalla convenuta per spese connesse ai fatti oggetti del giudizio e, limitatamente alla società italiana, la mancata applicazione degli utili derivanti dalla contraffazione alla stessa riferita, così come risultante dalla consulenza tecnica d’ufficio, ed evidenziano l’assenza di un legame tra i rivenditori autorizzati e le appellanti;
infine, criticano le modalità con cui è stato applicato il criterio della giusta royalty ;
analoghe censure sono prospettate con il quinto e sesto motivo, in relazione ai diversi paradigmi, rispettivamente, della falsa ed erronea interpretazione dell’art. 116 cod. proc. civ. e della «erronea e falsa interpretazione di norma di legge e mancata considerazione e valutazione di prove offerte in comunicazione in punto mancanza di nesso eziologico (Doc. 20 e Doc. 21 f.p.g. e Doc. 1 appello e all. 37 primo grado della resistente e all. 28 primo grado della resistente)»;
i tre motivi, esaminabili congiuntamente, sono inammissibili;
tali censure si risolvono, principalmente, nella contestazione della valutazione degli elementi probatori effettuata dal giudice di merito che, attenendo ad un accertamento allo stesso riservato, sfugge al sindacato di legittimità per violazione e falsa applicazione della legge;
con il settimo motivo le ricorrenti deducono la erronea e falsa applicazione dell’art. 2598 cod. civ., per aver la sentenza impugnata ritenuto la domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale assorbita nella domanda di accertamento positivo della contraffazione;
il motivo è infondato;
benché le azioni concesse a tutela dei diritti di proprietà industriale e quelle in materia di concorrenza sleale hanno natura e presupposti diversi ed autonomi (cfr. Cass. 2 dicembre 2016, n. 24658), la medesima condotta contraffattiva può assumere rilevanza sia ai fini dell’ azione reale a tutela dei propri diritti di esclusiva, sia, congiuntamente, d ell’ azione personale per concorrenza sleale (cfr. Cass. 29 gennaio 2019, n. 2473; Cass. 19 giugno 2008, n. 16647);
la Corte di appello, nel ritenere «assorbita» l’azione di accertamento negativo della concorrenza sleale nella decisione resa, ha considerato che i fatti accertati con riferimento all’azione di contraffazione esercitata dall’appellante imponessero il rigetto dell’azione negativa di concorrenza sleale, ritenendo, dunque, che gli stessi non escludessero l’illecito concorrenziale in oggetto ;
così argomentando, non si è posta in contrasto con i richiamati principi;
-con l’ottavo motivo si dolgono della erronea e falsa interpretazione degli artt. 2600 cod. civ. e 126 c.p.i., in relazione alla misura della pubblicazione del dispositivo, disposta in assenza di motivazione e senza tenere conto della sua natura di risarcimento in forma specifica, in relazione alla quale non è ammissibile una solidarietà passiva;
il motivo è inammissibile;
la pubblicazione in uno o più giornali della sentenza che accerti la violazione dei diritti di proprietà industriale, ai sensi dell’art. 126, primo comma, c.p.i., costituisce una misura discrezionale non collegata all’accertamento del danno, trattandosi di una sanzione autonoma, diretta a portare a conoscenza del pubblico la reintegrazione del diritto
offeso, analogamente a quanto previsto dall’art. 2600 cod. civ. in materia di concorrenza sleale, con la conseguenza che la adozione o mancata adozione del relativo ordine da parte del giudice di merito non è sindacabile in sede di legittimità (così, Cass. 7 aprile 2022, n. 11362; Cass. 12 marzo 2014, n. 5722);
con il nono motivo censurano la sentenza impugnata per erronea e falsa applicazione dell’art. 2598 cod. civ., in relazione alla ritenuta insussistenza della concorrenza sleale allegata con riferimento alla pubblicità del provvedimento cautelare ante causam , emesso inaudita altera parte, a soggetti terzi estranei al giudizio;
il motivo è inammissibile;
la Corte di appello ha, sul punto, ritenuto non dimostrato il danno all’immagine allegato quale conseguenza della diffusione del provvedimento cautelare del Tribunale di Napoli;
la doglianza contesta tale valutazione, la quale, tuttavia, investendo un accertamento riservato al giudice di merito, non è sindacabile in questa sede per violazione e falsa applicazione della legge;
-con l’ultimo motivo chiedono la riforma della sentenza sul punto delle spese di lite, nel senso della rifusione delle stesse in caso la Corte escluda la responsabilità delle ricorrenti ovvero della sua rimodulazione in caso di conferma della sentenza impugnata, anche in considerazione della parziale soccombenza in primo grado;
il motivo è inammissibile;
la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (così Cass. 26 aprile 2019, n. 11329; Cass. 31 marzo 2006, n. 7607; Cass. 22 dicembre 2005, n. 28492; Cass.,
Sez. Un., 15 luglio 2005, n. 14989);
per le suesposte considerazioni, pertanto, il ricorso non può essere accolto;
le spese del giudizio seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna le ricorrenti, in solido tra loro, alla rifusione delle spese di giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 8.000,00, oltre rimborso forfettario nella misura del 15%, euro 200,00 per esborsi e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , t.u. spese giust., dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, in solido tra loro, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 15 maggio 2025.