Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 9264 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 9264 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23782/2023 r.g., proposto da
RAGIONE_SOCIALE , in persona del legale rappresentante pro tempore , elett. dom.ta in INDIRIZZO Roma, rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME.
ricorrente
contro
COGNOME NOME COGNOME elett. dom.to presso la Cancelleria di questa Corte, rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME
contro
ricorrente
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli n. 1605/2023 pubblicata in data 17/05/2023, n.r.g. 575/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 30/01/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
1.NOME COGNOME aveva lavorato per RAGIONE_SOCIALE dall’11/11/2008 come ‘agente di commercio coordinatore’ e poi in virtù di vari contratti di agenzia fino al 22/05/2017, quando era stato assunto a tempo indeterminato con contratto di lavoro subordinato con qualifica di
OGGETTO:
obbligo di non concorrenza -violazione -licenziamento ontologicamente disciplinare -mancato procedimento -conseguenze
‘direttore vendite’ e inquadramento nella categoria di quadro, livello Q ccnl commercio.
Contestualmente al contratto di lavoro subordinato aveva stipulato un patto di non concorrenza, in virtù del quale, a fronte del suo impegno a non svolgere determinate attività ivi descritte, la società si obbligava a pagargli la somma di euro 10.000,00 entro trenta giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro.
In data 13/12/2019 il COGNOME era stato licenziato per giusta causa per aver violato l’obbligo di non concorrenza. A seguito dell’impugnazione del recesso datoriale da parte del dipendente, la società gli aveva contestato di essersi dedicato alla creazione di una o più realtà concorrenti, fatto che aveva cagionato una flessione di fatturato.
Quindi il COGNOME adìva il Tribunale di Torre Annunziata per ottenere l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento per vari motivi, fra cui l’insussistenza del fatto contestato, previa declaratoria di nullità del patto di non concorrenza, e l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro o, in subordine, la tutela indennitaria c.d. forte; in estremo subordine chiedeva di convertire e/o rideterminare la sanzione da applicare, stabilendo in logo del licenziamento una sanzione conservativa o, in ulteriore subordine, la conversione della giusta causa in giustificato motivo soggettivo, con conseguente riconoscimento del diritto all’indennità sostitutiva del preavviso.
In ogni caso chiedeva la declaratoria di nullità del patto di non concorrenza o il suo annullamento e la condanna della società al risarcimento del danno patrimoniale patito dal ricorrente, da liquidare in via equitativa sulla base della retribuzione che avrebbe percepito nell’anno di forzata inattività.
2.Costituitasi in giudizio, la società contestava le domande del ricorrente e ne chiedeva il rigetto. In via riconvenzionale chiedeva la condanna del COGNOME al risarcimento dei danni derivati dalla violazione del patto di non concorrenza e dell’obbligo di fedeltà, cui era seguita una lesione della sua immagine.
3.Il Tribunale dichiarava illegittimo il licenziamento e, ai sensi dell’art. 18, co. 4, L. n. 300/1970, lo annullava, condannava la società a reintegrare
il COGNOME nel posto di lavoro e a pagargli l’indennità risarcitoria, che liquidava in misura di dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, pari alla somma lorda mensile di euro 5.886,51; dichiarava la nullità del patto di non concorrenza; rigettava ogni altra domanda del ricorrente e quella riconvenzionale della società.
4.Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello rigettava il gravame interposto dalla società.
Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:
il fatto storico pacifico è che la società ha licenziato il COGNOME per violazione dell’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c., per aver egli intrapreso un’attività per conto proprio e/o di terzi in concorrenza con quella della società e attiva nel medesimo settore produttivo e commerciale, costituendo la società RAGIONE_SOCIALE
non sono state osservate le garanzie procedimentali di cui all’art. 7 L. n. 300/1970, perché non vi è stata la previa contestazione disciplinare;
tali garanzie sono invece inderogabili, attesa la natura disciplinare del licenziamento;
il difetto di contestazione determina l’inesistenza del procedimento disciplinare, sicché trova applicazione la tutela reintegratoria (Cass. n. 25745/2016; Cass. n. 4879/2020) e non quella indennitaria prevista dall’art. 18, co. 6, L. n. 300/1970 e poi dall’art. 4 d.lgs. n. 23/2015;
secondo la Corte di Cassazione il fatto deve essere almeno delineato nella contestazione disciplinare, sicché in sua mancanza il fatto deve dirsi insussistente, con la conseguente tutela reintegratoria;
la pec del 06/12/2019, che la società invoca per dimostrare di aver previamente contestato l’addebito disciplinare, non risulta prodotta, nonostante la società appellante l’abbia indicata nel fascicolo come prodotta e nonostante l’invito di questa Corte con ordinanza del 07/12/2022;
ne consegue che la contestazione -in difetto di prova -deve dirsi del tutto omessa;
quanto alla domanda riconvenzionale di risarcimento del danno fondata sulla violazione del patto di non concorrenza, il motivo di appello è infondato, considerata la nullità del patto, dal momento che, come previsto dal suo art. 5, l’efficacia del patto era subordinata al pagamento del compenso di euro 10.000,00 entro trenta giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro, condizione che non si è verificata;
quanto alla domanda riconvenzionale fondata sulla violazione dell’obbligo di fedeltà, essa va limitata agli episodi anteriori al licenziamento ed è rimasta sfornita di prova;
correttamente il Tribunale non ha ammesso la prova testimoniale, in quanto dalle stesse allegazioni della società non si evince il nesso causale fra la condotta ascritta al COGNOME e il danno, costituito dalla diminuzione delle vendite nell’anno 2020 rispetto al 2019 di un particolare prodotto commercializzato dalla società nella zona che era stata di competenza del COGNOME;
inoltre non è stata depositata documentazione idonea a dimostrare tale danno, in quanto la società si è limitata a produrre un conteggio non chiaro, né dettagliato;
la violazione dei termini perentori e decadenziali volti a regolare la dinamica processuale comporta di regola la irreversibilità dell’estinzione del diritto della parte di produrre il documento, sì che non può essere accolta la tardiva istanza probatoria avanzata in appello dalla società;
non è possibile esercitare i poteri istruttori d’ufficio ex art. 437 c.p.c., che sarebbero volti solo a sopperire ad una macroscopia carenza istruttoria;
nel caso in esame la società non ha prospettato -e quindi non è provabile in corso di giudizio -che il calo delle vendite fosse stato direttamente ed esclusivamente collegato all’attività imputata al COGNOME, né è stato allegato che specifici clienti della società avessero acquistato nel periodo di riferimento i prodotti -loro venduti nell’anno 2019 dalla appellante -dal COGNOME mediante le società da lui costituite;
altrettanto carente è la prospettazione del lamentato danno all’immagine in termini di discredito commerciale, di cui non è possibile la liquidazione equitativa, che presuppone almeno dimostrato l’ an .
5.- Avverso tale sentenza RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
6.- COGNOME NOME ha resistito con controricorso.
7.- Entrambe le parti hanno depositato memoria.
8.- Il collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge.
CONSIDERATO CHE
1.- Con il primo motivo, pro posto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c. la ricorrente lamenta la nullità della sentenza per omessa pronunzia sul quarto motivo di gravame, con il quale essa aveva impugnato il capo della decisione di primo grado, con cui il Tribunale aveva rigettato l’eccezione di avvenuta risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso.
Il motivo è infondato.
Va premesso che non ricorre il vizio di omessa pronuncia ove la decisione comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o dell’ eccezione, da ritenersi ravvisabile quando la pretesa non espressamente esaminata risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia, nel senso che la domanda o l’eccezione, pur non espressamente trattate, siano superate e travolte dalla soluzione di altra questione, il cui esame presuppone, come necessario antecedente logico-giuridico, la loro irrilevanza o infondatezza (Cass. ord. n. 25710/2024; Cass. ord. n. 20718/2018; Cass. ord. n. 29191/2017).
Nella specie, nel momento in cui ha ritenuto esistente un licenziamento, la Corte d’ Appello ha implicitamente ma univocamente rigettato quel motivo di gravame sulla risoluzione per mutuo consenso, quale vicenda incompatibile con il ritenuto licenziamento, sicché l’omessa pronunzia non sussiste.
2.Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c. la ricorrente lamenta la nullità della sentenza per omessa pronunzia sul quinto e sul sesto motivo di gravame, con i quali essa aveva impugnato il capo della decisione di primo grado di rigetto dell’eccezione di aliunde
perceptum .
Il motivo è fondato.
La ricorrente riporta specificamente il motivo di gravame e l’eccezione ivi contenuta; indica e documenta che essa era contenuta sin nella memoria difensiva di primo grado (punto 11) delle conclusioni); specifica le ragioni addotte dal Tribunale per rigettare quell’eccezione; indica e documenta di aver articolato specifici motivi di gravame (il quinto ed il sesto) avverso questo capo, sviluppato dalla pagina 28 in poi del ricorso d’appello (v. ricorso per cassazione, pp- 11-12).
Ne consegue che il silenzio, sul punto, da parte della Corte territoriale integra l’omessa pronunzia , non sussistendo fra il decisum e quell’eccezione un rapporto né di incompatibilità logico-giuridica né, al contrario, di presupposizione necessaria. Pertanto la sentenza impugnata va cassata con rinvio per l’accertamento dell’eventuale aliunde perceptum detraibile dall’indennità risarcitoria.
3.Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta ‘violazione e falsa applicazione’ degli artt. 115 e 116 c.p.c. per avere la Corte territoriale rigettato le sue istanze istruttorie.
Il motivo è assorbito: la radicale violazione del procedimento disciplinare implica che il fatto disciplinarmente rilevante deve dirsi giuridicamente insussistente, con conseguente tutela reintegratoria. Ne deriva la superfluità dell’istruttoria volta a dimostrare la sussistenza e la fondatezza di quel fatto, tuttavia mai oggetto di addebito mediante preventiva contestazione disciplinare con tutte le relative e conseguenti garanzie difensive, nella specie del tutto mancate ed invece imprescindibili.
4.- Con il quarto motivo, proposto in via subordinata ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c., la ricorrente lamenta che la Corte territoriale non avrebbe valutato e non si sarebbe pronunziata sulle richieste istruttorie avanzate in appello.
Il motivo è inammissibile perché non è relativo ad un ‘fatto storico’.
Per effetto della nuova formulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., come introdotta dal d.l. n. 83/2012, convertito, con modificazioni, dalla I. n. 134/2012, oggetto del vizio di cui alla citata norma è oggi esclusivamente l’omesso esame circa un «fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto
di discussione tra le parti». Costituisce “fatto”, agli effetti della menzionata norma, non una “questione” o un “punto”, ma: 1) un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr. Cass. n. 16655/2011; Cass. n. 7983/2014; Cass. n. 17761/2016; Cass. n. 29883/2017); 2 ) un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storiconaturalistico (cfr. Cass. n. 21152/2014; Cass. sez. un. n. 5745/2015); 3 ) un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto (cfr. Cass. n. 5133/2014); 4 ) una vicenda la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali (cfr. Cass. sez. un. n. 8053/2014). Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio in esame, tra gli altri: 1) le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass. sez. un. n. 16303/2018, in motivazione; Cass. n. 14802/2017; Cass. n. 21152/2015); 2) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. sez. un. n. 8053/2014).
Il “fatto” il cui esame sia stato omesso deve, inoltre, avere carattere “decisivo”, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Lo stesso deve, altresì, essere stato “oggetto di discussione tra le parti”: deve trattarsi, quindi, necessariamente di un fatto “controverso”, contestato, non dato per pacifico tra le parti (cfr. Cass. ord. n. 16127/2020).
Nessuna di tali condizioni assiste il motivo in esame.
5.- Con il quinto motivo, proposto in via subordinata ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. la ricorrente lamenta che la Corte territoriale non si sarebbe pronunziata sull’eccezione di aliunde perceptum , sebbene reiterata in appello.
Il motivo è assorbito dall’accoglimento del secondo.
La Corte rigetta il primo motivo; accoglie il secondo; dichiara assorbiti il terzo ed il quinto e inammissibile il quarto; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, in