Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31792 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 31792 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/12/2024
procedimento disciplinare »;
2.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, resistiti da controricorso della ASP;
è in atti memoria della ASP;
CONSIDERATO CHE
1.
il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione, richiamando l’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., dell’art. 7 della l. n. 300 del 1970, dell’art. 55 -bis del d. lgs. n. 150 del 2009 e dell’art. 7 del CCNL 6.5.2010;
il motivo è sviluppato sostenendo che dalla stessa sentenza impugnata si coglierebbe la prova dell’assunto della ricorrente secondo cui la sanzione disciplinare sarebbe stata applicata in mancanza della previa contestazione dell’addebito;
la Corte territoriale avrebbe poi confuso la differenza tra l’esposizione da parte del lavoratore delle ragioni tendenti a contrastare gli atti non condivisi del superiore gerarchico con la contestazione dell’addebito riguardante la violazione di essi, che ha caratteri e finalità proprie e non fungibili;
2.
i principi espressi nel motivo in ordine alla necessità -per una legittima conduzione del procedimento disciplinare -della previa contestazione degli addebiti, non sono in discussione;
2.1
la disamina del motivo postula tuttavia la comprensione del significato da attribuire a quanto motivato dalla Corte territoriale; la Corte di merito ha preso le mosse dalla considerazione per cui, secondo giurisprudenza di questa S.C. da essa richiamata, ai fini del rispetto del contraddittorio in sede disciplinare tra dipendente e strettamente formali, ma al fatto che ciò che viene addebitato consenta al datore, non deve aversi riguardo a valutazioni dipendente di difendersi;
la Corte d’Appello ha quindi richiamato due ordini di servizio (il 92/AP del 16.10.2012 ed il 95/AP del 22.10.2012) con cui si disponeva lo « spostamento logistico » (da una stanza ad un’altra stanza dell’ufficio) della ricorrente;
essa ha poi richiamato la nota 105/AP del 16.11.2012, con la quale « il datore di lavoro invitava i destinatati ad intraprendere opportuno procedimento disciplinare nei confronti della dott. COGNOME per inosservanza degli ordini di servizio »;
infine, veniva menzionata la nota della ricorrente (50/RIC del 22.11.2012), con cui la stessa aveva contestato gli ordini di servizio e la loro legittimità e faceva riferimento all’avere il superiore reiterato gli stessi « minacciando persino l’avvio di procedure disciplinari »;
da ciò, la Corte d’Appello ha desunto che « la stessa dirigente, nella contestazione scritta aveva esattamente percepito -come visto -la portata delle conseguenze derivanti dall’inosservanza degli ordini di servizio quali in primis l’avvio del procedimento disciplinare (percepito appunto come minaccia) », in sostanza, la Corte territoriale -senza dubbio con fraseologia non brillante per chiarezza – ha però ritenuto che la nota del 16.11 fosse da intendere come contestazione disciplinare, tanto che rispetto ad essa la lavoratrice si era poi difesa con la successiva nota del 22.11;
si tratta di lettura che attiene al piano dell’interpretazione di merito di atti datoriali e del lavoratore e che, come tale, non consente censure in sede di legittimità, se non attraverso le regole proprie dei c.d. canoni ermeneutici;
la ricorrente dà per scontato che la Corte d’Appello abbia detto che non sarebbe stata necessaria la previa contestazione ed abbia confuso il senso degli atti succedutisi tra le parti, ma il primo assunto non è in sé desumibile realmente dalla motivazione resa ed il secondo costituisce oggetto di una mera rilettura di tali atti nel senso propugnato dalla ricorrente, ma non è in tal modo, propositivo di una inammissibile diversa valutazione del merito, che può essere validamente proposto il ricorso per cassazione;
vale in sostanza il consolidato principio per cui, in tema sindacato sull’interpretazione dei contratti e (art. 1324 c.c.) sugli atti unilaterali, non si può contestare, in sede di giudizio di legittimità, la scelta alternativa alla propria effettuata dal giudice del merito (Cass. 3 luglio 2024, n. 18214; Cass. 10 maggio 2018, n. 11254), attribuendo all’atto un significato che si ritenga più corretto, dovendosi invece denunciare la violazione dei criteri ermeneutici, menzionando di quali di essi ci si intenda avvalere ed esplicitando le ragioni della loro violazione (Cass. 23 febbraio 2022, n. 5966; Cass. 15 novembre 2017, n. 27136);
ciò non è quanto fatto con il motivo in esame, che dà per scontata una diversa interpretazione degli atti intercorsi tra le parti, così muovendo da una diversa ricostruzione del dato di merito, inammissibile in sede di legittimità;
3.
il secondo motivo assume la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 del CCNL 6.5.2010, con riferimento alla tipicità dei provvedimenti sanzionatori in riferimento all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., sostenendo che il rimprovero scritto sarebbe forma non prevista di sanzione disciplinare e che esso non sarebbe equivalente alla censura scritta, che è l’atto disciplinare tipico, mentre il rimprovero costituisce modalità non formale di correggere eventuali comportamenti non condivisi;
il motivo è inammissibile, perché ipotizza che in concreto la P.A. abbia proceduto attraverso una « modalità non formale » di correzione, vale a dire riprendendo la lavoratrice al fine di farla adeguare ai comportamenti dovuti, ma ciò non è quanto avvenuto e descritto in fatto dalla Corte di merito, oltre che emergente dagli atti, in quanto quella applicata è una vera e propria sanzione formale di rimprovero scritto, che non si differenzia in nulla, anche etimologicamente, dalla censura e che, come osserva giustamente la sentenza impugnata, è anche indicata dall’art. 55 -bis, co. 1, del d. lgs. n. 165 del 2001;
il motivo travisa dunque i fatti e la ratio decidendi -dal che la sua assorbente inammissibilità – e comunque sostiene ciò che non è, ovverosia che sussista una qualche differenza tra un rimprovero scritto e una censura scritta;
3.
il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 per omesso esame dell’avvio del procedimento;
il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 360 -bis n. 1 c.p.c., in quanto, per costante orientamento giurisprudenziale, agli atti datoriali in ambito di impiego pubblico privatizzato non si applicano le norme della legge n. 241 del 1990 (Cass. 3 agosto 2022, n. 24122) e quindi neanche quelle in tema di avviso di inizio del procedimento (Cass. 13 febbraio 2017, n. 3736 ) , in questo ambito sostituti dalla contestazione dell’addebito, per la quale vale quanto già detto con riferimento al primo motivo di ricorso per cassazione; 4.
il ricorso va dunque dichiarato complessivamente inammissibile e le spese del grado seguono la soccombenza;
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 3.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro