Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 11327 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 11327 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 30/04/2025
SENTENZA
sul ricorso 27937-2022 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 490/2022 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 21/09/2022 R.G.N. 264/2022;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale
Oggetto
R.G.N. 27937/2022
COGNOME
Rep.
Ud. 16/04/2025
PU
Dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso; uditi gli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
All’esito del procedimento di cui all’art. 1, commi 47 e ss., legge n. 92/2012 ( ratione temporis applicabile) il Tribunale di Torino, con sentenza n. 840/22, annullava il licenziamento intimato per giusta causa da RAGIONE_SOCIALE (oggi RAGIONE_SOCIALE) ad NOME COGNOME e, per l’effetto, ex art. 18, comma 4, legge n. 300/70 condannava la società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a pagargli il risarcimento del danno (quantificato nella somma lorda di € 41.473,08). NOME COGNOME aveva impugnato il licenziamento per plurimi vizi, ossia per tardività e genericità della contestazione disciplinare, nonché per inesistenza del fatto addebitatogli e comunque per mancanza di suo disvalore in quanto conforme a collaudata e tollerata prassi aziendale; infine, aveva lamentato la sproporzione della sanzione rispetto all’infrazione ascrittagli.
Detta pronuncia veniva confermata con sentenza n. 490/22 dalla Corte d’appello di Torino, per la ragione più liquida (così espressamente qualificata dai giudici di secondo grado) della genericità della lettera di contestazione. Invece, il giudice di prime cure, in motivazione, aveva espressamente escluso il vizio di genericità della contestazione, ma aveva ritenuto che le condotte non avessero rilievo disciplinare poiché la mancata identificazione del cliente da parte del lavoratore era dipesa da una prassi aziendale (c.d. prassi ‘del salottino’), secondo cui all’identificazione del cliente provvedeva non il cassiere (vale a dire NOME COGNOME, nella specie), ma il perito aziendale (che si trovava in apposito locale distinto dalla cassa), nonché per il rilievo che era stato impossibile per il lavoratore distinguere ictu oculi l’originale delle polizze dalla loro ristampa.
Per la cassazione della sentenza della Corte territoriale, RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso affidato a due motivi, cui NOME COGNOME ha resistito con controricorso. Le parti hanno depositato memoria ex art. 378
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo articolato motivo (proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 343, 346, 436 c.p.c., 1, comma 58, legge n. 92/2012, nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., 2697 c.c., 7 e 18, commi 4 e 6, legge n. 300/1970 perché, pur in assenza di appello incidentale da parte del lavoratore, che – anzi – aveva chiesto espressamente la conferma della sentenza di primo grado, la Corte territoriale aveva deciso la lite sulla base della ravvisata genericità della contestazione disciplinare, espressamente esclusa -invece – dal Tribunale; in tal modo, sempre ad avviso della società ricorrente, la pronuncia di secondo grado avrebbe trascurato il giudicato formatosi sul punto, con conseguente violazione anche dell’art. 324 c.p.c.; inoltre la ricorrente si duole della ritenuta genericità della contestazione disciplinare, nonché dell’applicazione della tutela reintegratoria attenuata di cui al comma 4 del cit. art. 18 anziché della tutela meramente indennitaria prevista dal comma 6 del medesimo articolo.
2. Il motivo è infondato.
Ex art. 384, ultimo comma, c.p.c., va preliminarmente corretta la motivazione dell’impugnata sentenza nella parte in cui definisce come eccezione la denuncia di genericità della contestazione disciplinare.
Questa S.C. ha già avuto modo di chiarire (cfr. Cass. n. 24606/2020; Cass. S.U. n. 2951/16) la differenza tra le difese in fatto e le eccezioni di merito: le prime consistono nella negazione dei fatti costitutivi del diritto azionato dall’attore, mentre le seconde (che siano eccezioni in senso lato o in senso stretto) sono caratterizzate da un doppio indefettibile nucleo, composto dall’allegazione d’un fatto (inteso nella sua accezione storicofenomenica) e dalla sua particolare significatività giuridica, vale a dire dalla sua idoneità a impedire, modificare, o estinguere il diritto ex adverso azionato. Come empirico criterio distintivo valga la circostanza che i fatti che integrano la struttura delle eccezioni sono logicamente o cronologicamente successivi a quelli costitutivi della pretesa attorea (mentre, a loro volta, le mere difese in diritto consistono nell’invocare l’applicazione d’una data disposizione normativa senza, a tal fine, allegare
fatti ulteriori).
Ne consegue un’ulteriore differenza: mentre il thema decidendum resta sostanzialmente inalterato a fronte sia di mere difese in fatto sia di eccezioni di merito (giacché ogni decisione sulle eccezioni è pur sempre strumentale a quella sulla domanda oggetto di lite), queste ultime estendono l’originario thema probandum proprio perché introducono fatti ulteriori rispetto a quelli costitutivi già allegati dall’attore e contestati (eventualmente) dal convenuto.
Ne discende che, per definizione, le eccezioni di merito possono essere sollevate soltanto dal convenuto e non dall’attore.
Alla stregua di quanto precede e tornando allo specifico della controversia in esame, deve escludersi che la genericità della contestazione disciplinare denunciata dall’attore integri un’eccezione: dunque, essa è estranea tanto all’art. 346 c.p.c. quanto alla portata applicativa di Cass. S.U. n. 11799/17 e di Cass. S.U. n. 7700/16, sentenze che prescrivono l’appello incidentale per confutare il rigetto da parte del primo giudice, rispettivamente, di eccezioni e di domande.
Del pari va escluso che sulla specificità della contestazione disciplinare, exspressis verbis affermata nella motivazione della sentenza di prime cure, si sia formato il giudicato interno invocato dalla società ricorrente: valga in proposito l’ultracinquantennale giurisprudenza di questa S.C., secondo cui il giudicato interno può formarsi solo su un capo della sentenza che risolva una questione avente una propria assoluta individualità e autonomia rispetto ai capi impugnati, così da integrare una decisio ne del tutto indipendente; non si forma, invece, nei riguardi d’una mera argomentazione, neppure quando essa sia utile a risolvere questioni strumentali all’attribuzione del bene controverso (cfr., ad esempio, Cass. n. 27246/24, Cass. n. 20951/22, Cass. n. 40276/21, Cass. n. 21655/17, fino a risalire indietro nel tempo a Cass. S.U. n. 3498/1976, Cass. n. 48/75 e Cass. n. 2886/73).
In altre parole, la preclusione da giudicato può scaturire solo da una statuizione che riconosca o neghi il bene della vita oggetto di lite (cfr. Cass. n. 1252/22; cfr. altresì, più di recente, Cass. n. 9441/25, Cass. 27040/24 e Cass. n. 25626/24 fino a risalire a Cass. n. 8645/2020 e, ancor prima, a
Cass. n. 2038/96 e a Cass. S.U. n. 9872/94).
Nel caso di specie, il bene della vita oggetto di lite era il posto di lavoro dell’attore (con le relative conseguenze anche economiche) e non già la mera regolarità del procedimento disciplinare previsto dall’art. 7 legge n. 300/70.
Pertanto, l’assunto del primo giudice circa la sufficiente specificità della lettera di contestazione disciplinare non integra capo autonomo della sentenza risolutivo d’una questione avente una propria individualità e autonomia tale da poter formare giudicato interno se non impugnato: lo esclude -come s’è detto -il sopra ricordato insegnamento giurisprudenziale, che a sua volta si ricollega ad altra giurisprudenza antica e costante di questa S.C. (condivisa anche dalla più avveduta dottrina), che, al fine di selezionare le questioni (di fatto e/o di diritto) suscettibili di devoluzione e, per converso, di giudicato interno se non censurate in appello, utilizza la locuzione di “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno”, che consiste nella sequenza logica “fatto, norma, effetto giuridico”, cioè nella statuizione che affermi o neghi l’esistenza d’un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico (cfr., e pluribus , Cass. n. 10316/25, Cass. n. 10030/25, Cass. n. 9441/25, Cass. n. 26390/24, Cass. n. 23008/24, Cass. n. 36209/23, Cass. n. 31176/21, Cass. n. 15773/2020, Cass. n. 24783/18, Cass. n. 16853/18, Cass. n. 2217/16; Cass. n. 14670/15; Cass. n. 4572/13; Cass. n. 16583/12; Cass. n. 16808/11; Cass. n. 27196/06; Cass. n. 10832/98; Cass. n. 6769/98).
Nella vicenda processuale in oggetto, come già detto, la sentenza del Tribunale, nella parte in cui ha ritenuto specifica la contestazione disciplinare, non ha una propria autonomia suscettibile di passare in giudicato e non l’ha anche per mancanza dell’effetto giuridico: quest’ultimo -com’è noto – in teoria generale del diritto privato si identifica nella nascita, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico quale conseguenza dell’accadimento di fatti giuridici. E il rapporto oggetto di lite fra le odierne parti era solo quello di lavoro subordinato, non modificabile né estinguibile da una mera contestazione disciplinare, ma solo da una conseguente sanzione.
In breve, affermare la specificità di una data contestazione
disciplinare non importa alcun effetto giuridico propriamente detto, cioè non crea né modifica o estingue un rapporto. Né l’effetto giuridico potrebbe identificarsi nel passaggio in giudicato d’una statuizione giudiziale: sarebbe una palese petizione di principio.
E che l’affermazione della specificità della contestazione disciplinare contenuta nella motivazione della sentenza di primo grado, lungi dall’avere una propria diretta autonomia, abbia costituito semplicemente la soluzione d’una questione preliminare di merito esaminata secondo l’ordine di cui all’art. 276, comma 2, c.p.c. si ricava dalle ulteriori considerazioni che seguono.
In primo luogo, la giurisdizione civile si esercita su diritti soggettivi (o su altre posizioni giuridiche attive) e non già su meri accertamenti di fatto, di guisa che non può aversi esercizio di giurisdizione che si limiti ad accertare o negare un dato fatto senza concludersi con una statuizione che riconosca o neghi l’esistenza del diritto scaturente da quel medesimo fatto.
Nel caso in esame, la sentenza n. 840/22 del Tribunale di Torino, nella parte in cui ha ritenuto specifica la contestazione disciplinare mossa dalla società datrice di lavoro, non si è poi conclusa (né espressamente né implicitamente) con il riconoscimento o la negazione d’un qualche diritto soggettivo in capo ad uno dei litiganti, atteso che l’annullamento del licenziamento ad opera del primo giudice è scaturito da altra affermazione, vale a dire dalla ravvisata irrilevanza disciplinare delle condotte oggetto di addebito.
Inoltre, non è predicabile che una stessa sentenza possa contenere due giudicati fra loro incompatibili: uno che annulli il licenziamento e un altro che, allo stesso tempo, ne dichiari la validità, anche soltanto dal punto di vista formale (come si finirebbe con il dover concludere se all’affermazione di specificità della contestazione disciplinare si attribuisse natura di autonomo giudicato).
L’obiezione secondo cui l’affermazione di specificità o genericità della contestazione disciplinare costituirebbe giudicato sol perché astrattamente suscettibile di essere oggetto d’una autonoma domanda giudiziale sconta un errore di prospettiva.
Se è vero che può emettersi e passare in cosa giudicata una sentenza
che dichiari illegittimo un licenziamento anche soltanto per un vizio del procedimento disciplinare, non è però vera -si badi, bene – la proposizione reciproca, ossia che possa emettersi una sentenza che si limiti a dichiarare legittimo un licenziamento disciplinare sol perché preceduto da un regolare iter ex art. 7 legge n. 300/70: infatti, lo svolgimento d’un regolare procedimento disciplinare (che comprenda anche un’idonea formulazione di addebito) integra semplicemente un onere a carico del datore di lavoro, onere che, se non assolto, gli impedisce di risolvere il rapporto per giusta causa o giustificato motivo soggettivo e che, se assolto, non basta a far ritenere legittimo il licenziamento medesimo e, quindi, a riconoscere o negare un determinato diritto (senza di che, giova ribadire, non può mai parlarsi di giudicato in senso sostanziale).
Supporre il contrario sarebbe un assurdo logico, ancor prima che giuridico, così come lo sarebbe l’affermare che, plurime deduzioni di vizi formali e sostanziali del licenziamento (come avvenuto nella vicenda processuale in discorso) diano luogo a tanti autonomi capi di domanda quanti siano i vizi denunciati dall’attore ed esaminati dal giudice.
In altri termini, affinché un capo di sentenza sia indipendente non basta che sia astrattamente suscettibile di formare oggetto di autonoma domanda o di pronuncia parziale ex art. 279 c.p.c. su una questione pregiudiziale processuale o su una preliminare di merito, ma è altresì necessario che non risulti incompatibile con altre statuizioni adottate nella medesima sentenza.
Si consideri, infine, che qualunque domanda giudiziale si contraddistingue per personae , petitum e causa petendi : quest’ultima consta dei fatti costitutivi del diritto azionato nonché delle norme invocate a suo sostegno, con la differenza che mentre i primi non possono mutare senza che, nel contempo, muti la domanda stessa, le seconde possono invece mutare senza che l’identificazione della domanda ne risulti alterata; non a caso, sia il giudice di legittimità (v. art. 384, ultimo comma, c.p.c.) sia quel lo d’appello (v. , ex aliis , Cass. n. 19068/23; Cass. 4889/2016; Cass. n. 22032/13; Cass. 696/2002), hanno sempre il potere/dovere di correggere, integrare o sostituire d’ufficio la motivazione in diritto spesa dalla sentenza impugnata.
Ebbene, nella controversia in oggetto, la domanda avanzata
dall’attore NOME COGNOME era (ed è rimasta nel corso del processo) sempre unica, per personae , petitum e causa petendi in punto di fatto.
23. Quanto alla censura -ancora contenuta nel primo articolato motivo di ricorso – con cui la società ricorrente insiste nel ritenere specifica la contestazione disciplinare, va osservato che si tratta di doglianza che invade la sfera del merito perché sollecita questa SRAGIONE_SOCIALE a rivalutare le circostanze fattuali che hanno indotto la Corte territoriale a ravvisare un’incertezza assoluta, nella lettera di contestazione, circa il fatto addebitato, tale da indurre il lavoratore a difendersi su un fatto diverso rispetto a quello contestato (la ristampa delle polizze e non la ricezione di polizze ristampate: v. pag. 8 dell’impugnata sentenza) . Ancora la Corte territoriale ha accertato che nella seconda parte della medesima lettera di contestazione (v. pag. 9 dell’impugnata sentenza) figurava altro, laconico, addebito di non aver proceduto correttamente alle operazioni di identificazione del cliente, senza però che fosse chiarito, neppure per grandi linee, quali sarebbero state le corrette operazioni di identificazione omesse.
24. Sempre nel corpo del ricorso (e anche nell’ambito dell’esposizione del secondo motivo), la società ricorrente si duole d’un sostanziale travisamento, nell’impugnata sentenza, della contestazione disciplinare, nel senso che – in realtà – al lavoratore non sarebbe stato mosso alcun addebito circa la ristampa delle polizze: in proposito è appena il caso di ricordare che il travisamento d’un fatto di causa non è deducibile come motivo di ricorso per cassazione: semmai, purché ve ne siano i presupposti, può giustificare un ricorso per revocazione ex art. 395 n. 4 c.p.c.; del pari non è denunciabile in questa sede il travisamento della prova, salvo si traduca in realtà, in un vizio diverso dall’apprezzamento del contenuto veicolato dal mezzo di prova, ossia consista in un omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, omesso esame denunciabile ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. (cfr., da ultimo, Cass. S.U. n. 5792/24).
Ma nel caso di specie il fatto decisivo e controverso, vale a dire il tenore dell’addebito disciplinare, è stato ampiamente esaminato dalla sentenza impugnata, che a pag. 7 ha evidenziato che solo nel corso del giudizio l’azienda ha chiarito che la contestazione mossa al lavoratore non consisteva nell’aver ristampato le polizze, bensì nell’averle ricevute già
ristampate.
In breve, la società ricorrente chiede che questa RAGIONE_SOCIALE proceda ad una complessiva rilettura dei documenti acquisiti in corso di causa, operazione non consentita in sede di legittimità.
25. Parimenti da disattendere è la censura (sempre contenuta nel primo articolato motivo di ricorso) relativa al tipo di tutela applicabile, che – ad avviso di parte ricorrente – dovrebbe essere quella del comma 6 anziché quella del comma 4 del cit. art. 18: l’impugnata sentenza (v. pag. 7) ha constatato che nella lettera di contestazione difettava in modo radicale l’individuazione della condotta illecita, concetto ribadito anche a pag. 8, là dove parla di incertezza assoluta sul fatto addebitato e a pag. 12 (in cui la sentenza stigmatizza <>).
Ne discende che i giudici del reclamo hanno correttamente applicato la giurisprudenza di questa S.C., cui va data continuità, secondo la quale il radicale difetto di contestazione determina l’inesistenza dell’intero procedimento, non già la mera inosservanza delle disposizioni che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata prevista al comma 4 dell’art. 18 cit. ( cfr. Cass. n. 4879/2020; Cass. n. 25745/16) e non di quella indennitaria c.d. debole di cui al comma 6 dello stesso articolo.
Invero, al radicale difetto di contestazione disciplinare va equiparata la sua incertezza assoluta, quando -come accertato nel caso di specie dai giudici del reclamo -l’addebito muti in corso di causa a seconda delle difese opposte dal lavoratore (che aveva obiettato che, essendo un cassiere, gli sarebbe stato materialmente impossibile stampare le polizze: v. pag. 7).
Infatti, nella vicenda in oggetto, la sentenza impugnata (v., ancora, pag. 7) ha accertato che la lettera di contestazione addebitava al lavoratore un’abusiva ristampa delle polizze, mentre in corso di causa la società oggi ricorrente ha poi sostenuto che l’addebito intendeva, invece, rimproverare al dipendente di aver ricevuto polizze ristampate.
In altre parole, va applicata la tutela reintegratoria attenuata anche
quando, all’esito di causa, il fatto integrante la giusta causa di licenziamento non coincida con quello originariamente contestato da parte datoriale (in questo solco v. anche Cass. n. 21265/18), salvo che esso risulti semplicemente arricchito da circostanze confermative o di mero contorno, vale a dire prive di valore identificativo della stessa fattispecie e inidonee a vulnerare in concreto la difesa del lavoratore incolpato.
Invece, si darebbe luogo a una lesione del principio di immutabilità della contestazione e a un’insanabile e irragionevole aporia all’interno del medesimo articolo di legge se si applicasse la tutela c.d. indennitaria debole di cui all’art. 18 , comma 6, cit. anche quando in corso di causa il datore di lavoro, accortosi dell’insostenibilità (in fatto e/o in diritto) dell’originaria incolpazione, abbia poi corretto il tiro al solo fine di beneficiare d’un regime sanzionatorio meno gravoso di quello, più severo, che il comma 4 dello stesso art. 18 prevede a fronte di fatti rivelatisi inesistenti o comunque privi di rilievo disciplinare.
Con il secondo motivo di impugnazione (proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.) la società ricorrente si duole di omesso esame dei seguenti fatti, che definisce come decisivi per il giudizio e che erano stati oggetto di discussione fra le parti: specificità della contestazione disciplinare, mancato riferimento della stessa alla ristampa delle polizze e pluriennale esperienza professionale del controricorrente nel ruolo rivestito.
Anche tale censura va disattesa, vuoi perché l’omesso esame risulta dedotto irritualmente rispetto alle prescrizioni formali dovute alla luce di Cass. S.U. n. 8053/14 (e della successiva conforme giurisprudenza), vuoi perché, ad onta del riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., in realtà il motivo sollecita una completa rivisitazione nel merito del materiale di causa (documenti e deposizioni testimoniali), operazione non consentita in sede di legittimità.
28 . Peraltro, sia detto per mera completezza espositiva, l’asserita specificità della contestazione disciplinare è stata diffusamente esaminata e motivatamente esclusa dalla Corte territoriale, che ha del pari espressamente esaminato la lettera di contestazione disciplinare anche là dove parla di ristampa delle polizze (v. pag. 7 della sentenza impugnata). Infine, la pluriennale esperienza professionale del controricorrente nel ruolo rivestito costituisce non già fatto decisivo per il giudizio, bensì mera
argomentazione difensiva, come tale irrilevante ai fini del vizio dedotto ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.
29. Ne consegue il rigetto del ricorso. Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alle spese, liquidate in € 5.500,00 per compensi professionali e in € 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 -quater d.P.R. n. 115/2002, come modificato dall’art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 16.4.2025.