Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31513 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 31513 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 08/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 19977-2022 proposto da:
COGNOME NOME, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1970/2022 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 13/06/2022 R.G.N. 1708/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/10/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
Oggetto
Licenziamento disciplinare Genericità della contestazione
R.G.N. 19977/2022
COGNOME
Rep.
Ud. 08/10/2024
CC
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d’appello di Roma, in accoglimento dell’appello proposto da COGNOME Salvatore contro la sentenza n. 225/2020 del Tribunale di Latina, e in parziale riforma di tale sentenza (che nel resto confermava), dichiarava l’illegittimità del licenziamento comunicato all’appellante in data 16.10.2014 e condannava l’appellata NOME a riassumere il lavoratore entro tre giorni o, in mancanza, a risarcirgli il danno pagandogli un’indennità commisurata a n. 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi e rivalutazione dalla maturazione del diritto al saldo; condannava, altresì, l’appellata a corrispondere all’appellante € 11.490,37, a titolo di differenze di retribuzione e T.F.R., oltre rivalutazione ed interessi dalla maturazione del diritto al saldo; con condanna dell’appellata al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio.
Premetteva la Corte territoriale: che, con il ricorso introduttivo del giudizio, il COGNOME, dipendente del notaio NOME COGNOME dal 19.4.1999 quale impiegato di III livello del c.c.n.l. dei dipendenti di studi professionali, con mansioni di ‘presentatore’ addetto alla cassa cambiaria dello studio – oltre ad aver avanzato domanda di pagamento di € 11.490,37, a titolo di differenze retributive e t.f.r. -aveva impugnato il licenziamento disciplinare comunicatogli con nota ricevuta il 16.10.2014, per ess ersi ‘appropriato indebitamente di ingenti somme di denaro incassate dai clienti e che sarebbero dovute essere versate nelle casse di istituti di credito con cui lo studio intratteneva rapporto professionale’; che il lavoratore in proposito aveva dedotto, in via principale, l’inefficacia del recesso datoriale per violazione dell’art. 2 l. 604/1966 e, in via
subordinata, l’illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto contestatogli; e che il Tribunale aveva respinto tutte le domande del lavoratore, dichiarando compensate, su analoga eccezione della convenuta Belli, le spettanze retributive del lavoratore rispetto alle somme ben più cospicue che, per la resistente, avrebbero formato oggetto della contestata appropriazione.
Preliminarmente precisava la Corte che l’appellante aveva articolato le proprie domande, chiedendo, in via principale, di accertare e dichiarare l’inefficacia del recesso datoriale e, in via subordinata, di dichiarare la nullità del licenziamento per mancanza della giusta causa o del giustificato motivo, secondo un ordine ritenuto non disponibile dalla Corte; e che, secondo la stessa, doveva essere accolta appunto la domanda avanzata in via principale, ma che, vista l’eccezione di compensazione tempestivamente sollevata in primo grado dall’appellata, tesa alla compensazione delle somme a titolo retributivo spettanti al COGNOME con le somme dallo stesso dovute a titolo di restituzione delle somme di cui si sarebbe appropriato, occorreva comunque verificare la fondatezza dell’addebito contestato all’appellante, sicché, per ragioni di ordine espositivo, la Corte muoveva dalla valutazione del fatto contestato, anticipando, dove opportuno, le considerazioni che avrebbero illuminato anche la soluzione della questione afferente la domanda principale.
Tanto premesso e precisato, la Corte d’appello, specificate le mansioni in concreto svolte dal COGNOME quale ‘presentatore’, dava conto delle deposizioni testimoniali di COGNOME NOME e COGNOME, anch’essi alle dipendenze dello stesso notaio COGNOME con le medesime mansioni
di ‘presentatori’ (al pari di altri due dipendenti), e che il Tribunale aveva ritenuto il valore confessorio delle ammissioni del COGNOME riferite dai suoi due colleghi suddetti quali testi, in quanto rese a ‘rappresentanti’ del notaio, e che unicamente s u tale base il primo giudice aveva accertato la responsabilità del lavoratore.
Riferito il contenuto di entrambi i motivi d’appello formulati dal lavoratore, la Corte territoriale giudicava fondato il primo a mezzo del quale l’appellante deduceva l’insussistenza del fatto per ‘Inadeguatezza e carenza assoluta del complesso probatorio. Erronea valutazione delle prove acquisite al giudizio. Illegittimità del licenziamento per assenza giusta causa e/o giustificato motivo’
La stessa Corte riteneva fondato anche il secondo motivo relativo alla domanda principale, con il quale il lavoratore deduceva: ‘Erronea applicazione alla fattispecie della sussistenza dei requisiti minimi necessari per la contestazione dell’addebito e sua successiva illegittima ‘sanatoria’ tramite il giudizio. Abnormità della Sentenza di primo grado -Inefficacia del recesso/licenziamento’.
Pertanto, la Corte concludeva che il licenziamento era affetto da illegittimità per la genericità della contestazione e che al lavoratore competesse la tutela obbligatoria nei termini specificati nel dispositivo della sua sentenza.
Inoltre, la Corte riteneva di dover accogliere la domanda del lavoratore relativa alle differenze retributive per l’insussistenza dei fatti costitutivi del controcredito opposto in compensazione dall’appellata.
Avverso tale decisione NOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
10 . Ha resistito l’intimat o con controricorso.
La ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denuncia ‘Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 secondo comma L. n. 300/70 e dell’art. 2 secondo comma L. 604/66 (Art. 360 n. 3 c.p.c.)’. Deduce che il giudice del merito ha falsamente applicato i principi enunciati da questa Suprema Corte in tema di specificità della contestazione disciplinare.
Con un secondo motivo denuncia ‘Violazione o falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 112 c.p.c. nonché degli artt. 324 c.p.c., 329 ultimo comma c.p.c. e 434 c.p.c. (Art. 360 n. 3 c.p.c.)’. Deduce che la sentenza impugnata è gravemente viziata nella parte in cui la Corte di appello ha illegittimamente travalicato il limite della devoluzione (art. 434 c.p.c.) e quello del giudicato interno formatosi per effetto della mancata impugnativa (art. 324 c.p.c.), criticando e disattendendo la declaratoria del primo giudice in ordine alla sussistenza della confessione stragiudiziale, resa dal COGNOME ai suoi colleghi di lavoro (e dipendenti del notaio) sull’avvenuta appropriazione delle somme da lui realizzate, nonostante che tale punto della decisione di primo grado non fosse stato impugnato dal lavoratore e che su di esso si era prodotta l’intangibilità del giudicato.
Con un terzo motivo denuncia ‘Violazione o falsa applicazione degli artt. 2733 e 2735 c.c., nonché degli artt. 246 c.p.c. e 115 e 116 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.)’. Lamenta che la Corte d’appello, pur risultando dagli atti la prova di una confessione stragiudiziale piena fatta dal ricorrente ai due dipendenti del notaio COGNOME (in rappresentanza della stessa) sul fatto decisivo dell’appropriazione delle somme, non ne aveva applicato gli effetti, ritenendo non utilizzabili le deposizioni dei testi sul presupposto della loro inattendibilità.
Con un quarto motivo deduce ‘Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti, la cui esistenza risulti dagli atti processuali (art. 360 n. 5 cpc)’. Si duole che la Corte d’appello abbia omesso di valutare che dal la prova testimoniale e dagli atti contabili depositati emergevano chiaramente sia l’appropriazione di somme di denaro da parte del COGNOME che la modalità con cui egli aveva commesso tale illecito.
Con un quinto motivo deduce ‘Nullità della sentenza per error in procedendo -Omesso esame delle eccezioni formulate sull’utilizzabilità del nuovo documento depositato nel giudizio di appello (art. 360 n. 4 cpc). Violazione e falsa applicazione dell’art. 437, 2^ comma, cpc (art. 360 n. 3 cpc)’. Assume che del tutto illegittimamente ed erroneamente la Corte d’appello ha dichiarato che parte appellata ‘nessuna eccezione ha mosso in punto di utilizzabilità delle dichiarazioni’ rese dal notaio Belli nel processo penale a carico del COGNOME e, conseguentemente, ha affermato che ‘tali dichiarazioni … sono dunque utilizzabili’; il che giudica smentito dall’avvenuto deposito delle note autorizzate del 20.4.2022 della difesa dell’appellata.
6. Il primo motivo è infondato.
La Corte territoriale ha ritenuto che la contestazione disciplinare fosse generica, perché non precisava ‘né luogo né data del fatto, né le modalità di realizzazione della condotta né finalmente le somme sottratte; tutte circostanze conoscendo le quali, soltanto, il lavoratore si sarebbe potuto difendere, al di là di una negazione affatto generica’; e, dopo aver richiamato la giurisprudenza di legittimità a riguardo, ha concluso che: ‘Nella fattispecie, il cuore dell’incolpazione ( -‘essersi appropriato indebitamente di ingenti somme di denaro incassate dai clienti e che avrebbero dovuto essere versate nelle casse di istituti di credito con cui lo studio intratteneva rapporti professionali’ -) non consentiva al lavoratore di comprendere esattamente la cond otta contestatagli né di difendersi adeguatamente’.
Secondo un consolidato indirizzo di questa Corte, posto che la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti qualificabili come disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari, l’acc ertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di una indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito (così Cass., sez. lav.,, 31.5.2022, n. 17721; id., sez. lav., 12.5.2015, n. 9615). E’ stato, inoltre, specificato che l’apprezzamento del requisito della specificità della contestazione -da condurre secondo i canoni ermeneutici applicabili agli atti unilaterali -è
riservato al giudice di merito, la cui valutazione è sindacabile in cassazione solo mediante precisa censura, senza limitarsi a prospettare una lettura alternativa a quella svolta nella decisione impugnata (Cass., sez. lav., 30.5.2018, n. 13667).
Nella specie, come si è visto, la Corte d’appello, in base al contenuto testuale della contestazione disciplinare, ha constatato in essa l’assenza di una serie di indicazioni indubbiamente necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto addebitato, quali luogo e data del fatto, modalità di realizzazione della condotta appropriativa ed entità delle somme sottratte.
E, rispetto a tale preciso apprezzamento, nell’ambito del quale la Corte di merito non ha mancato di notare che, a fronte di così generica contestazione, la negazione del lavoratore non potesse essere che, a sua volta, generica, infondatamente la ricorrente assume che la Corte romana avrebbe omesso .
E’ di tutta evidenza, invece, che non può reputarsi specificamente contestato il fatto puro e semplice di un’appropriazione indebita di somme di denaro, senza tutte le indicazioni a riguardo delle quali la Corte d’appello ha constatato l’assenza, e indubbi amente occorrenti per assicurare il diritto di difesa del lavoratore.
10. Parimenti infondato è il secondo motivo.
L’assunto della ricorrente, secondo il quale la controparte quale appellante non avrebbe inteso impugnare il capo della sentenza di primo grado che aveva attribuito
un’importanza decisiva alla confessione resa dal lavoratore, si fonda essenzialmente su talune espressioni contenute nel punto a pag. 10, rigo 3, dell’atto di appello del COGNOME (cfr. pag. 22 del ricorso per cassazione).
Nota, allora, il Collegio che, nell’ambito dell’esposizione del primo e non breve motivo di appello (che la Corte territoriale aveva testualmente riportato alle pagg. 6-8 della propria sentenza), si legge: ‘Tralasciando la circostanza della ‘confessione’ se così si può chiamare e della qualifica dei testi/presentatori -che la Giudice ritiene agissero in quel frangente nell’interesse della Notaio ai sensi dell’art. 2735 primo comma c.c. -omettendo altresì di valutare che svolgendo le stesse mansioni del ricorrente, potessero avere anche un interesse contrastante con costui, ciò che lascia assolutamente interdetti è la ricostruzione del fatto storico secondo le modalità indicate, icto oculi inverosimili’.
12.1. La completa lettura del contenuto di quella censura rende, però, senz’altro evidente che le singole espressioni su cui vuol far leva la ricorrente nel senso anzidetto, considerandole isolatamente, hanno una portata eminentemente retorica in seno ad u n motivo d’appello che s’incentra anzitutto su una globale critica dell’accertamento probatorio operato dal primo giudice, a partire proprio dalle due deposizioni testimoniali di COGNOME Massimo e COGNOME Sebastiano, dalle quali il Tribunale aveva desunto la confessione stragiudiziale del COGNOME.
12.2. Non è, perciò, sostenibile che l’allora appellante non avesse inteso impugnare la sentenza di primo grado in ordine alla prova della confessione stragiudiziale nella stessa ritenuta, sicché non ricorre alcuna offesa al giudicato interno, come
invece sostenuto dalla ricorrente, né il vizio di extrapetizione dalla stessa profilato.
13. E’ altresì infondato il terzo motivo.
Secondo l’impostazione del primo giudice la confessione stragiudiziale dell’attore era stata resa, non per iscritto, ma in forma orale ai due colleghi suddetti del COGNOME, che, essendo anch’essi ‘presentatori’ dipendenti dal medesimo notaio COGNOME, erano rappresentanti di quest’ultimo, ai fini di cui all’art. 2735, comma pri mo, primo periodo, c.c., per modo che la confessione così manifestata avrebbe avuto ‘la stessa efficacia di quella giudiziale’.
La Corte territoriale, invece, nell’ambito del proprio scrutinio del primo motivo d’appello, ha correttamente evidenziato la distinzione tra la confessione quale prova (legale) e la prova della confessione; ovvia distinzione, questa, che proprio nel caso della confessione stragiudiziale che qui ci occupa trova riscontro nel secondo comma dell’art. 2735 c.c. che circoscrive la possibilità di dimostrazione della stessa attraverso testimoni (‘La confessione stragiudiziale non può provarsi per testimoni, se verte su un oggetto per il quale la prova testimoniale non è ammessa dalla legge’; sulla prova testimoniale di una confessione stragiudiziale v. Cass. n. 7746/2020).
Altrettanto condivisibile, allora, è il rilievo della stessa Corte, sulla scorta della dottrina, che, se la prova che si dia in giudizio della confessione ‘non è attendibile, la conseguenza non è che la confessione non sia attendibile, ma che la confession e non è provata’ (così a pag. 11 della sua sentenza).
Tali rilievi, essenziali sul piano giuridico nella motivazione dell’impugnata sentenza, non sono assolutamente considerati dalla ricorrente.
Stante la critica ad ampio raggio espressa nel primo motivo d’appello circa l’accertamento probatorio operato dal Tribunale (per quanto evidenziato nell’esaminare il secondo motivo di ricorso), la Corte ben poteva e doveva riesaminare pure le deposizioni dei due testi che, secondo il Tribunale, dimostravano la confessione stragiudiziale del COGNOME, ed anche dal punto di vista della loro attendibilità, posta in dubbio dall’allora appellante.
Più nello specifico, la Corte d’appello, dopo aver puntualmente riferito il contenuto di tali testimonianze (cfr. pagg. 5-6 della sua sentenza), ha considerato una serie di risultanze anche documentali (tra le quali la querela sporta ai Carabinieri il 22.9.2014 dall’attuale ricorrente) e le dichiarazioni rese dalla Belli nel dibattimento penale svoltosi nel processo originato dalla cennata querela (v. in extenso pagg. 8-11), ma anche la testimonianza di NOME COGNOME, funzionario di Banca Unicr edit (giudicato ‘unico soggetto disinteressato che avrebbe potuto confermare una frase vagamente ‘confessoria’ del COGNOME‘: cfr. pag. 12 dell’impugnata sentenza).
Ebbene, la Corte anzitutto ha ritenuto che le sole dichiarazioni dei due testi COGNOME e COGNOME risultavano ‘insufficienti per comprovare l’illecito ascritto al COGNOME‘, perché ‘dal punto di vista oggettivo, da tali dichiarazioni, se rettamente intese, non emerge la rappresentazione di fatti direttamente integrativi dell’illecito bensì giudizi , alcuni generici e resi in forma ellittica , su una propria – imprecisata (dal confitente) -responsabilità, o delle ammissioni autovalutative
della condotta del confitente. Solo a margine, l’ammissione di fatti circostanziali legati ad un movente. Dunque, non proprio l’ammissione di fatti principali costituenti l’illecito, bensì soltanto di fatti secondari, che però non hanno trovato in giudizio idonea prova’.
17. La Corte, infatti, sulla base della su vista distinzione tra confessione quale prova e prova della confessione, ha osservato che, ‘pur concedendo la configurabilità di una confessione resa a ‘rappresentanti’ del datore di lavoro, più problematica, proprio per tale veste, sarebbe la testimonianza resa da questi in quanto ‘rappresentanti’ del datore di lavoro. E ove pur ammessa tale testimonianza, proprio tale veste impone un riscontro assai forte circa l’attendibilità dei testi, a partire dalla verosimiglianza di tutte le circostanze riferite (tra cui quelle già dette relative agli ‘accertamenti’ velocemente compiuti nell’immediatezza)’.
18. Inoltre, ha considerato ‘che, una volta emersa la piena fungibilità dei cinque ‘presentatori’ nel maneggio dei titoli della cassa e nell’operatività bancaria, è tutt’altro che trascurabile l’interesse ad addossare al collega la responsabilità per fatto proprio, magari semplicemente colposo, come quello legato ad una contabilità confusa o irregolare. E’ poi del tutto inverosimile che nel giro di pochi giorni, forse ore, i quattro siano riusciti a ricostruire un’appropriazione che ancora a distanza di ann i non è stata descritta nelle sue precise modalità neppure dalla vittima, peraltro professionalmente più attrezzata dei quattro. L’accusa teatralmente rivolta al collega innanzi al notaio (<> riferisce il notaio), in assenza dell’incolpato, e una sorta di indagine ‘privata’ iniziata ancora prima che la stessa vittima potesse determinarsi sul da
farsi; la genericità dell’accusa stessa e finalmente la mancanza di riscontri di garantita certezza, rendono del tutto inattendibili i testi’.
In definitiva, non solo alcuna violazione (o falsa applicazione) degli artt. 2733 e 2735 c.c. circa la confessione è riscontrabile nell’impugnata sentenza, ma è del tutto inconferente l’assunta violazione dell’art. 246 c.p.c. in tema di ‘Incapacità a deporre’.
Invero, la Corte territoriale non ha assolutamente sostenuto che i due ridetti testi avessero un interesse che poteva legittimare la loro partecipazione al giudizio. Piuttosto, come si è visto, nell’ambito di un argomentato giudizio circa la loro attendibi lità, ha evidenziato, tra l’altro, la loro posizione ‘problematica’ da questo diverso punto di vista per essere, in ipotesi, coloro che, quali ulteriori ‘presentatori’ di titoli dipendenti del notaio e ‘rappresentanti’ di quest’ultimo, prima e al di fuori del giudizio avrebbero raccolto la confessione orale del loro collega, e, successivamente, in corso di causa, i soli due testi che, sempre nella suddetta veste, avrebbero con le loro dichiarazioni dimostrato tale confessione stragiudiziale.
Analogamente, va esclusa la violazione (o falsa applicazione) degli artt. 115 e 116 c.p.c., perché la Corte di merito non ha errato nell’escludere il valore di prova legale di una confessione dimostrata, bensì ha motivatamente ritenuto non provata tale confessione.
Del resto, le considerazioni svolte dalla ricorrente nello sviluppo del terzo motivo s’incentrano su una critica della valutazione dell’inattendibilità dei due ridetti testimoni, espressa nell’impugnata sentenza; ma, secondo un consolidato
orientamento di questa Corte, sono riservati al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento (Cass., sez. II, 22.2.2022, n. 5732; con precipuo riferimento alla valutazione dell’attendibilità dei testi v. già, tra le altre , Cass. n. 2834/1988).
Il quarto motivo è inammissibile.
Come ben risulta dallo svolgimento di tale censura (cfr. pagg. 29-37 del ricorso), in essa, in realtà, non è dedotto l’omesso esame circa uno o più fatti storici, principali o secondari, decisivi per il giudizio e che abbiano formato oggetto di discussione tra le parti.
Piuttosto, la ricorrente vi muove una critica alla valutazione probatoria operata dalla Corte di merito e ne propone una alternativa, il che non può trovare ingresso in questa sede di legittimità (cfr. per tutte Sez. un. n. 34476/2019).
Parimenti inammissibile è il quinto motivo.
La censura, infatti, difetta dei requisiti di specificità/autosufficienza del ricorso per cassazione.
La Corte territoriale aveva dato conto che: ‘All’udienza del 30.3.3022 l’appellante ha chiesto acquisirsi la trascrizione delle dichiarazioni rese in data 18.5.2021 in dibattimento dal notaio Belli nell’ambito del processo penale n. 1166/2020 innanzi al Tribunale di Latina, processo originato dalla querela presentata dal notaio. L’appellato ha ottenuto rinvio per l’esame
di tale documento, e nessuna eccezione ha mosso in punto di inutilizzabilità delle dichiarazioni in esso riportate; tali dichiarazioni, peraltro successive all’appello, sono dunque utilizzabili’.
Ebbene, la ricorrente in primo luogo non considera che la Corte d’appello aveva evidenziato che le dichiarazioni in questione, in quanto rese in data 18.5.2021, erano successive alla proposizione dell’atto d’appello, sicché il documento che le conteneva in trascrizione non era prova che si fosse formata in precedenza e che l’appellante prima potesse produrre, o chiedere di acquisire (e, secondo questa Corte, nel rito del lavoro la produzione di documenti successivamente al deposito degli atti introduttivi è ammissibile solo nel caso di documenti formati o giunti nella disponibilità della parte dopo lo spirare dei termini preclusivi: cfr. Cass., sez. lav., 17.12.2019, n. 33393; e in termini analoghi, tra le altre, sui documenti sopravvenuti già Cass. n. 15912/2004; n. 7845/2003).
Sotto altro profilo, la ricorrente deduce che la Corte di merito non avrebbe considerato le proprie note autorizzate, depositate il 20.4.2022, ma non trascrive in ricorso il contenuto delle stesse almeno nella parte in cui vi avrebbe dedotto l’inammissibilità e l’irrilevanza del documento in questione e sotto quali profili.
Inammissibilmente, infine, anche in questo motivo la ricorrente propone una propria rilettura della portata di quella specifica emergenza istruttoria, sostenendo ‘che le deposizioni rese dal notaio Belli in sede penale confermano tutte le affermazioni rese (sotto giuramento) dai testi escussi, indotti da essa resistente, nel giudizio di lavoro, opportunamente valutate dal primo giudice …’, e aggiungendo, per contrastare
l’apprezzamento a riguardo compiuto dalla Corte territoriale, che: ‘A nulla rilevano le eventuali incertezze che dovessero emergere dalla deposizione del notaio COGNOME nel giudizio penale, sia in considerazione del notevole lasso di tempo (di ben sette ann i !) trascorso dall’epoca dei fatti, che alla luce del particolare fervore inquisitorio con cui risulta condotto il controinterrogatorio penale …’.
30 . La ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del l’8.10 .2024.
La Presidente
NOME COGNOME