Ordinanza di Cassazione Civile Sez. U Num. 11519 Anno 2025
Civile Ord. Sez. U Num. 11519 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: TRICOMI IRENE
Data pubblicazione: 02/05/2025
Sul ricorso iscritto al n. r.g. 19070/2024 proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
CONSIGLIO DELL’ ORDINE DEGLI AVVOCATI DI IMPERIA;
– intimato – avverso la sentenza n. 290/2024 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 05/07/2024.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 11/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale NOME COGNOME il quale chiede che le Sezioni Unite della Corte di cassazione vogliano accogliere il quarto motivo di ricorso, assorbiti gli altri e cassare senza rinvio la sentenza impugnata per intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare; con le conseguenze di legge.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 290 del 2024, ha respinto il ricorso proposto dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME avverso la decisione n. 76/2018 del Consiglio di Disciplina della Liguria, con la quale è stata disposta la sanzione disciplinare della censura nei confronti dell’avv. NOME COGNOME e la sanzione disciplinare del richiamo verbale nei confronti dell’avv. NOME COGNOME.
Agli stessi è stato contestato di ‘aver violato l’art. 34 del nuovo CDF (azione contro il cliente e la parte assistita per il pagamento del compenso) in quanto hanno mantenuto gli incarichi professionali civili e penali in favore della signora NOME COGNOME dopo aver ottenuto contro la medesima decreto ingiuntivo n. 490/14 del 25 agosto 2014 dal Tribunale di Imperia e successiva iscrizione di ipoteca giudiziaria. Fatti avvenuti dal 2014 sino al 2017′.
2. Il CDD della Liguria ha affermato l’illiceità della condotta sotto il profilo deontologico e ha operato un esame critico delle singole posizioni degli incolpati.
Quanto all’avv. NOME COGNOME il CDD, pur ritenendo che lo stesso avesse avuto una posizione assolutamente marginale rispetto ai fatti contestati, in quanto i rapporti con la assistita COGNOME, dal 2012, erano stati seguiti e curati in via esclusiva dall’avv. NOME COGNOME rilevava tuttavia come dagli atti risultasse che esso avv. NOME COGNOME aveva omesso di rinunciare ad un incarico conferitogli con riguardo ad un ricorso per cassazione, sebbene l’incolpato affermasse di essersi limitato alla sola redazione dell’atto iniziale nel
2009, senza poi svolgere alcuna ulteriore attività difensiva, nemmeno partecipando all’udienza di discussione avanti la Suprema Corte.
Ritenuta la particolare tenuità della violazione e valutatane la scusabilità, considerata altresì l’assenza di precedenti disciplinari, il CDD ha deliberato, quanto all’avv. NOME COGNOME la sanzione disciplinare del richiamo verbale ai sensi dell’art. 22, n. 4, del CDF.
Diversa valutazione ha operato il CDD con riguardo alla posizione dell’avv. NOME COGNOME avendo quest’ultima condotto in prima persona ed in via esclusiva tutti i rapporti con la signora COGNOME sia per quanto riguardava gli accordi interni di definizione dei rapporti economici, sia per quanto concerneva la prosecuzione dei mandati difensivi.
Stante la ritenuta inderogabilità del principio deontologico violato, veniva affermata la responsabilità dell’avv. NOME COGNOME rispetto alla condotta disciplinare di cui al capo di incolpazione; ciò nondimeno, considerata l’assenza di precedenti disciplinari, rilevato che non risultava alcun pregiudizio per la parte assistita e, da ultimo, preso atto dell’atteggiamento processuale dell’incolpata, il CDD, a maggioranza, deliberava l’irrogazione della sanzione disciplinare attenuata dell’avvertimento rispetto a quella edittale della censura prevista dall’art. 34, del CDF.
3. IL CNF ha rigettato l’impugnazione proposta avverso la decisione del CDD della Liguria.
Il CNF ha affermato che, nonostante vi fosse stato un accordo sul riconoscimento del debito, la scelta di presidiare rapidamente ed efficacemente il credito con una garanzia reale (tra l’altro assunta con largo margine di copertura avendo colpito molteplici cespiti, tra cui due abitazioni, una delle quali censita Categoria A7 ‘abitazione in villini’ avente consistenza catastale di 11,5 vani) aveva lo scopo di porre i creditori avvocati al riparo dell’eventuale inadempienza della debitrice, ed era di per sé indicativa della sussistenza di interessi contrapposti.
Dunque, si poneva in potenziale conflitto di interessi: da un lato la dichiarata impossibilità della Vuocolo di onorare il proprio debito, dall’altra la
volontà da parte degli avvocati di perseguire non solo un ‘contemperamento degli interessi di tutti’, bensì e anzitutto un preciso proprio interesse, quello di garantirsi la recuperabilità futura di un credito già maturato, ma al momento non realizzabile a ragione della incapacità della loro debitrice a farvi fronte (e non già quello di interrompere la prescrizione, perché a tal fine sarebbe stato sufficiente già il riconoscimento del debito, ovvero al più una formale intimazione stragiudiziale). Contrapposizione di interessi rispetto alla quale l’impegno assunto dagli avvocati di non escutere il titolo giudiziale, peraltro ampiamente garantito, per cinque anni non assumeva valenza esimente, ma anzi in certa misura ne costituiva riprova. Impegnarsi a differire temporalmente l’azione esecutiva in forza del titolo giudiziale già ottenuto, con implicita riserva di attivarla in ipotesi di inadempimento perdurante oltre il termine di dilazione concesso, non significava rinunciare a quel titolo ma anzi, e piuttosto, costituiva chiara manifestazione di volontà di giovarsi di esso seppure non nell’immediato.
Il CNF ha affermato che l’art. 34 Nuovo Codice Deontologico reca un precetto preciso e categorico: l’avvocato per poter agire nei confronti del cliente per il pagamento delle proprie prestazioni professionali, deve previamente rinunciare a tutti gli incarichi da quel cliente conferitigli.
Significativamente tale disposizione non lascia alcuno spazio alla possibilità di derogarvi attraverso il consenso della parte assistita, e proprio la mancanza di una espressa previsione in tale direzione, a differenza di altre disposizioni richiamate dai ricorrenti, viceversa conferma e rafforza la natura inderogabile della regola deontologica sottraendola a qualsiasi forma di disponibilità da parte dei soggetti destinatari della stessa.
Non assumeva rilievo la prospettata asserita natura ‘non contenziosa’ della scrittura privata (di riconoscimento di debito) sottoscritta dalla Vuocolo, posto che ciò che viene in rilievo con riguardo al caso di specie non tale accordo quanto l’aver gli avvocati COGNOME promosso, sulla scorta di detto documento, un procedimento monitorio, che senz’altro si configura come un’azione giudiziale, nei confronti della loro assistita eludendo il dovere (in ciò sostanziandosi la violazione di cui al capo di incolpazione) di rinunciare a tutti gli
incarichi ricevuti, dovere fondato sul presupposto che il pur legittimo diritto dell’avvocato ad esser remunerato per l’attività professionale svolta ove azionato giudizialmente implichi ex se una situazione di conflitto di opposti interessi.
Il CNF ha affermato che la condotta degli incolpati era cessata il 27 dicembre 2018, allorché era stata rilasciata la fattura n. 422/2018 per il pagamento del debito oggetto del decreto ingiuntivo come convenuto tra le parti nella minor somma di euro 50.000.
4 Per la cassazione della sentenza del CNF ricorrono gli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME prospettando tre motivi di impugnazione.
Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta con la quale ha concluso per l’accoglimento del quarto motivo di ricorso, assorbiti gli altri, con cassazione senza rinvio della sentenza impugnata per intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso è dedotto il vizio di violazione di legge nullità della sentenza ai sensi degli artt. 521 e 522, cod. proc. pen. – difetto di correlazione tra accusa e sentenza.
Si denuncia contrasto tra il capo di incolpazione, che abbraccia l’arco temporale 2014-2017, e l’affermazione riportata nella sentenza n. 290 del 2024 del CNF: ‘Contrapposizione e potenziale conflitto di interessi che sono peraltro perdurati fino a dicembre 2018 allorquando la RAGIONE_SOCIALE ha estinto il proprio debito, come documentato dalla fattura a saldo n. 422/2018 prodotta a corredo del ricorso’.
Illustrano i ricorrenti che il capo di incolpazione ha individuato il contrasto di interessi fino al mantenimento degli incarichi professionali, mentre nel capo della sentenza oggetto di impugnazione l’esistenza del conflitto di interessi è stata protratta fino a dicembre 2018, data di estinzione del debito da parte della signora COGNOME intervenuta a seguito di ulteriore riduzione dell’importo da parte dello studio COGNOME.
In tal modo il CNF avrebbe sovrapposto due diversi piani: il primo relativo all’attività che si assume essere stata svolta in conflitto di interessi; il secondo relativo all’adempimento di un’obbligazione da parte della cliente che per sua scelta ha deciso di anticipare il pagamento (previsto per il 2019), traendo un ulteriore sconto sul dovuto.
1.1. Il motivo è inammissibile.
Secondo la giurisprudenza consolidata di queste Sezioni Unite le decisioni del CNF in materia disciplinare, quanto all’accertamento del fatto, all’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, alla scelta della sanzione opportuna e, in generale, alla valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito; e non è quindi consentito alle Sezioni Unite sindacare, sul piano del merito, le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, sulla adeguatezza e sulla assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale (v., Cass. S.U. n. 20344 del 2018).
Pertanto, l’accertamento del fatto e l’apprezzamento della sua gravità ai fini della concreta individuazione della condotta costituente illecito disciplinare e della considerazione dell’adeguatezza della sanzione irrogata non possono essere oggetto del controllo di legittimità, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza,
La censura, più che concretare una ipotesi di violazione di legge, attinge l’accertamento del fatto, la sua gravità e la valutazione dell’adeguatezza della sanzione irrogata, rimessi all’Ordine professionale.
Nella specie, tuttavia non sono ravvisabili vizi in ordine a tali profili, atteso che la sentenza del CNF ha esaminato in modo coordinato e con ampia motivazione la pluralità di elementi storici risultanti dagli atti di causa ed illustrati dalle parti, e ha indicato in modo argomentato e specifico le fonti di convincimento provvedendo a determinare la sanzione con riguardo al caso concreto.
Peraltro, il controllo di legittimità sull’applicazione di tali norme non consente alla Corte di cassazione di sostituirsi al CNF nel giudizio di adeguatezza della sanzione irrogata, essendo positiva la valutazione di ragionevolezza in ordine all’individuazione del precetto, alla gravità del fatto ed alla adeguatezza all’accertata gravità della sanzione.
Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la violazione dell’art. 2, comma 4, cod. pen., dell’art. 111, secondo comma, Cost., e dell’art. 6 della CEDU, nonché la violazione del principio di overruling al caso concreto
Assumono i ricorrenti che nella specie troverebbe applicazione il precedente codice disciplinare, che non sottendeva interessi pubblicistici, e le cui norme erano derogabili in virtù di accordi.
Il nuovo codice disciplinare è stato approvato in attuazione dell’art. 65 della legge 247/2012, per effetto del provvedimento 31 gennaio 2014 del Ministero della Giustizia – Consiglio Nazionale Forense, pubblicato nella G.U. 16.10.2014 n. 241, ed è entrato in vigore decorsi 60 giorni da detta pubblicazione (ai sensi dell’art. 73 di detto provvedimento) e quindi il giorno 15.12.2014.
Peraltro, i giudizi che erano stati seguiti dallo studio professionale per la signora COGNOME erano iniziati prima del 2014, data di entrata in vigore del nuovo CDF.
La sentenza non avrebbe chiarito quale sarebbe l’interesse pubblico sotteso alla necessità di rinunciare al mandato, pur in presenza di un palese interesse della cliente a ottenere l’esatto contrario.
Nel dedurre la violazione del principio dell’ overruling e dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, Cost., e all’art. 6 della CEDU – o comunque la sussistenza della loro buona fede, i ricorrenti espongono di aver fatto affidamento sulla giurisprudenza del (CNF n. 215 del 2013), dalla quale avevano tratto che il consenso prestato dall’assistito esclude il conflitto d’interessi.
2.1. Il motivo non è fondato.
Occorre rilevare, come già affermato da questa Corte, che l’illecito disciplinare è necessariamente atipico; di conseguenza la Corte non può
sostituirsi all’Organo disciplinare nel valutare se una determinata condotta rientri o meno in una previsione disciplinare di portata generale; la Corte può tuttavia sindacare, sotto il profilo della violazione di legge, la ragionevolezza con cui l’organo disciplinare ha ricavato, dalla previsione deontologica generale, il precetto da applicare al caso concreto (Cass., S.U., n. 26369 del 2024).
Non opera in materia il principio di stretta tipicità dell’illecito, proprio del diritto penale, per cui non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti vietati, ma solo l’enunciazione dei doveri fondamentali, tra cui segnatamente quelli di probità, dignità, decoro, lealtà e correttezza di cui all’art. 9 del nuovo codice deontologico forense che, quale ‘norma di chiusura’, consente, mediante l’art. 3, comma 3, della legge n. 247 del 2012, di contestare l’illecito anche solo sulla base di tale previsione precettiva, evitando che la mancata descrizione di uno o più comportamenti, e della relativa sanzione, generi immunità (Cass., S.U., n. 7073 del 2022, n. 37550 del 2021).
Di talché, la Corte può sindacare la decisione del Consiglio Nazionale Forense sul piano della ‘ragionevolezza’ con la quale ha ricavato dalla norma deontologica generale il precetto del caso concreto.
Nella specie, il CNF ha individuato il contenuto del conflitto di interessi in esame, anche potenziale, e dei ‘beni’ protetti dalla disposizione che viene in rilievo, art. 34 CDF, che lo prevede, e ha ricordato che è principio consolidato del CNF, radicatosi nella vigenza del precedente CDF, che l’illecito disciplinare di cui all’art. 46 CDF (che, giova precisarlo, non contiene riferimenti al consenso), ora art. 34 nuovo CDF, si configura ogni qualvolta l’avvocato intenti un’azione giudiziaria contro il proprio cliente senza avere preventivamente rinunciato al mandato alle liti, e quindi senza aver evitato, con l’unico mezzo possibile, qualsiasi situazione di incompatibilità esistente tra mandato professionale e contemporanea pendenza della lite promossa contro il proprio assistito (è richiamata CNF, n. 38 del 2018).
Tale principio, come peraltro ha evidenziato il CNF, trova riscontro nella giurisprudenza di legittimità (cfr., Cass., S.U., n. 20881 del 2024) formatasi nel più ampio alveo della previsione generale sul conflitto di interesse secondo
cui: ‘la nozione di conflitto di interessi, ai sensi e per gli effetti dell’art. 24 del vigente codice deontologico forense (già art.37 del codice deontologico forense approvato dal CNF in data 17 aprile 1996) non va riferita, restrittivamente, alla sola ipotesi in cui l’avvocato si ponga in contrapposizione processuale con il suo assistito in assenza di un consenso da parte di quest’ultimo, ma comprende tutti i casi in cui, per qualsiasi ragione, il professionista si ponga processualmente in antitesi con il proprio assistito, come quando, nell’ambito di una procedura esecutiva, chieda l’attribuzione di somme del proprio assistito senza sostanzialmente cessarne la difesa, potendo essere il conflitto anche solo potenziale’.
Di talché, in ragione della concatenazione logico giuridica della statuizione del CNF, che ha valorizzato in modo coordinato una pluralità di elementi storici e fonti di convincimento e non si presta a vizi di ragionevolezza, la doglianza sulla mancanza di rilievo pubblicistico del precedente CDF e dunque sulla derogabilità delle relative disposizioni, di cui pertanto si prospetta l’applicazione alla fattispecie, è priva di rilevanza.
Il profilo di censura relativo all ‘overruling non è fondato.
Non sussistono le condizioni per l’applicabilità dell’istituto dell’ overruling , richiamato dai ricorrenti in correlazione con gli art. 111, Cost, e 6 della CEDU, atteso che questa Corte ha posto in evidenza che affinché si possa applicare tale istituto l’innovazione giurisprudenziale deve incidere su una regola del processo, deve essere imprevedibile ovvero seguire ad altra consolidata nel tempo tale da considerarsi diritto vivente, nonché comportare un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa (Cass., S.U., n. 15144 del 2011).
Il richiamo dei ricorrenti a decisioni del CNF che avrebbero dato rilievo al consenso dell’assistito, su cui gli stessi avrebbero fatto affidamento, non contiene indici riferibili all’istituto dell’ overruling , secondo i principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte, e di per sé non censura adeguatamente, per le ragioni sopra esposte, il motivato accertamento effettuato dal CNF, nel rispetto del canone di ragionevolezza, sulle vicende, intercorse tra gli avvocati ricorrenti e la loro assistita, che hanno dato causa all’illecito disciplinare.
Con il terzo motivo di impugnazione è dedotta la violazione dell’art. 56, della legge n. 247 del 2012- vizio di motivazione ai sensi dell’art. 111 Cost. intervenuta prescrizione dell’illecito.
In via subordinata i ricorrenti rilevano come – nelle more del giudizio – sia maturato il termine di prescrizione dell’illecito disciplinare contestato.
In proposito i ricorrenti segnalano, come già nel primo motivo di ricorso, che l’incolpazione ha indicato: ‘Fatti avvenuti dal 2014 sino al 2017’. L’illecito disciplinare de quo integra una fattispecie coincidente con l’apertura del contenzioso (emissione del decreto ingiuntivo del 2014) contro la Vuocolo.
Quanto alla posizione dell’avv. NOME COGNOME è pacifico che egli sia rimasto difensore della signora COGNOME sino al deposito della sentenza della Corte di Cassazione n. 20587/2009, del 30/04/2015.
Quanto alla posizione dell’avv. NOME COGNOME in ragione della sostituzione da parte di altro difensore, e di meri rinvii di udienza, dal 2016 al 2017 non c’è stata alcuna attività professionale.
Sia per l’ambito penale sia per il giudizio civile, dunque l’avv. NOME COGNOME non ha svolto attività professionale dal luglio 2016, termine utile ad accertare l’intervenuta prescrizione dell’illecito.
3.1. Il motivo non è fondato.
Lo stesso, in particolare, si incentra sulla modifica dell’incolpazione, che sarebbe intervenuta con la sentenza del CNF, questione richiamata sia pure sotto altro profilo anche con il primo motivo di ricorso già esaminato, e sulle ricadute della cessazione della condotta rispetto alla decorrenza del termine di prescrizione, nonché sul regime giuridico di quest’ultima.
Dalla data di cessazione della condotta decorre il termine di prescrizione dell’illecito disciplinare, che è disciplinato dall’art. 56 della legge professionale n. 247 del 2012.
La disciplina previgente stabiliva un termine di 5 anni (art. 51 R.D.L. 1578/1933). La disciplina attualmente vigente prevede che il termine prescrizionale sia pari a 6 anni (art. 56 legge 247/2012).
In caso di interruzione del termine di prescrizione, da ogni interruzione decorre un nuovo termine della durata di cinque anni. Se gli atti interruttivi sono più di uno, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi, ma in nessun caso il termine di 6 anni può essere prolungato di oltre un quarto (art. 56, comma 3, legge 247/2012).
Per valutare il decorso del termine di prescrizione, occorre chiarire se venga in esame un illecito istantaneo o permanente (Cass., S.U., n. 26991 del 2022).
Spetta all’Organo disciplinare accertare la data di commissione del fatto che, in caso di illecito permanente, si identifica con quella di cessazione della permanenza (Cass., S.U., n. 14957 del 2023). Nel caso in cui, come nella specie, la violazione risulti integrata da una condotta protrattasi e mantenuta nel tempo, la decorrenza del termine prescrizionale ha inizio dalla data della cessazione della condotta.
La prospettazione dei ricorrenti sulla modifica che sarebbe intervenuta da parte del CNF, con riguardo alla cessazione della condotta, rispetto all’incolpazione, investe il tema della qualificazione della contestazione come aperta o meno.
È applicabile al procedimento disciplinare degli avvocati l’art. 521, cod. proc. pen., primo comma (correlazione tra l’impugnazione contestata e la sentenza), volto a stabilire che con la decisione non può essere data al fatto una definizione giuridica diversa da quella attribuita con l’incolpazione. È necessario quindi che il giudice non pervenga ad una modificazione del fatto in contestazione, poiché ciò darebbe luogo ad una palese violazione del principio di corrispondenza tra l’imputazione e la decisione con la lesione del diritto di difesa (v., Cass. penale, n. 22521 del 2016).
Tuttavia, nella specie, trova applicazione anche la giurisprudenza di legittimità sulla disciplina della prescrizione, che con riguardo ai reati permanenti
afferma (Cass. penale, n. 45376 del 2019) che nell’ipotesi di contestazione aperta, il giudizio di penale responsabilità dell’imputato può estendersi, senza necessità di modifica dell’imputazione originaria, agli sviluppi della fattispecie emersi dall’istruttoria dibattimentale.
L’incolpazione, nella specie intervenuta nel 2017 (10 ottobre 2017, v. pag. 4 della sentenza CNF), ha ad oggetto il periodo 2014 al 2017, è stata formulata ‘aperta’, in quanto la condotta disciplinarmente rilevante è iniziata con il decreto ingiuntivo del 25 agosto 2014 e al momento della formulazione del capo di incolpazione in data 10 ottobre 2017 non vi era ancora accertamento sulla cessazione.
Il 27 dicembre 2018 veniva rilasciata dall’assistita fattura, n. 422/2018, per il pagamento del debito oggetto del decreto ingiuntivo come convenuto tra le parti nella minor somma di euro 50.000.
Il CNF, nella sentenza impugnata, ha accertato che in tale data era intervenuta la cessazione del conflitto di interessi e quindi della condotta disciplinare.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 23746 del 2020) che l’accertamento sul carattere permanente dell’illecito e sulla cessazione dello stesso costituisce ‘accertamento di fatto sia per quanto concerne la permanenza che con riguardo alla sua cessazione che non è sindacabile nella presente sede atteso che, ai sensi dell’art. 36 comma 6 della legge n. 247 del 2012, ma già ai sensi dell’art. 51 del r. d.l. n. 1578 del 1933, può essere proposto ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge con la conseguenza che l’accertamento del fatto anche con riguardo alla cessazione della sua permanenza non può essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traduca in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito (…)’.
Poiché la prescrizione dell’azione disciplinare decorre dalla commissione del fatto o dalla cessazione della sua permanenza (…) è a quel momento che si deve avere riguardo anche per stabilire la legge applicabile’.
Nella specie non è ravvisabile tale vizio rispetto all’accertamento del CNF della cessazione della condotta disciplinare.
Il regime di prescrizione, applicabile ratione temporis , è quello dettato dall’articolo 56 della legge n. 247 del 2012.
L’azione disciplinare, pertanto, ai sensi del primo comma del suddetto articolo, si prescrive nel termine di sei anni; e comunque, se intervengono eventi interruttivi, come previsto dal terzo comma del medesimo articolo, il termine di cui al primo comma non può essere prolungato di oltre un quarto.
Nella specie, atteso l’accertamento – che non presenta i vizi denunciabili in sede di legittimità nei sensi sopra illustrati – del CNF sulla cessazione il 27 dicembre 2018 della contrapposizione e potenziale conflitto di interessi, determinati dalla condotta disciplinare, oggetto di contestazione aperta, la prescrizione, con interruzione, non è decorsa.
Il ricorso va rigettato.
Nulla spese in mancanza di attività difensiva della controparte.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili l’11