Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 19906 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 19906 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 17/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 6526-2021 proposto da:
COGNOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
AZIENDA UNITA’ RAGIONE_SOCIALE TOSCANA SUD – EST, in persona del Direttore Generale pro tempore, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 264/2020 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 04/09/2020 R.G.N. 155/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/03/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
Oggetto
SANZIONE
DISCIPLINARE
R.G.N. 6526/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 04/03/2025
CC
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Grosseto annullava la sanzione disciplinare irrogata al dipendente NOME COGNOME dalla Azienda USL n. 9 di Grosseto di un mese di sospensione dal servizio e dalla retribuzione per avere detenuto, senza autorizzazione della datrice, quote della società RAGIONE_SOCIALE avente oggetto sociale la organizzazione e prestazione di servizi accessori all’attività medica trovandosi, quindi, in situazione di incompatibilità e conflitto di interesse, anche solo potenziale, con la qualifica di dirigente medico specializzato in radiodiagnostica con rapporto di lavoro non esclusivo e, quindi, in violazione degli obblighi di condotta stabiliti dal CCNL area dirigenza medica.
La Corte di appello di Firenze rigettava l’appello dell’azienda motivando l’annullamento con l’inesistenza di un conflitto concreto di interessi avendo l’azienda medesima l’onere di dimostrare la concretezza del conflitto di interesse medesimo, determinatosi nell’ambito del rapporto di lavoro. Ad avviso della Corte territoriale non bastava la mera potenzialità del conflitto di interesse che avrebbe, invece, dovuto concretizzarsi in ulteriori elementi oggettivi assenti nella contestazione disciplinare.
La Corte di cassazione accoglieva il ricorso proposto dalla Azienda con una motivazione unitaria dei tre motivi di impugnazione per violazione di legge, rimettendo il giudizio alla Corte d’appello per decidere la controversia uniformandosi ai principi di diritto ivi enunciati alla luce dei quali regolare la vicenda di fatto già accertata dai giudici di merito.
Al riguardo la Corte rilevava che l’ordinamento stabiliva un severo regime di incompatibilità teso a prevenire un futuro insorgere di un eventuale conflitto di interessi. Ad avviso della Corte si imponeva una valutazione astratta con giudizio
prognostico ex ante indipendentemente dall’esistenza di effettivi riflessi negativi sul rendimento e sull’osservanza dei doveri d’ufficio. Nel caso concreto, la Corte riteneva che ex ante si dovesse valorizzare la portata rigorosa dell’incompatibilità per la sola titolarità da parte del dottor COGNOME delle quote di maggioranza nella società e per integrare la situazione di incompatibilità espressamente prevista dall’articolo 4, comma 7, legge 412/1991 bastava constatare l’oggetto sociale: la prestazione di servizi accessori all’attività medica. In altri termini, la partecipazione maggioritaria ad una società con oggetto sociale inconciliabile rispetto al servizio sanitario nazionale già di per sé integrava il divieto, esprimendo una situazione di contrasto la cui inesistenza avrebbe potuto essere dimostrata dal dottor COGNOME nella misura in cui il dato formale non corrispondesse ad alcuna realtà fattuale. Secondo la Corte di Cassazione non era significativo neppure il riferimento alla circostanza che il dottore fosse autorizzato all’esercizio privato dell’attività professionale, trattandosi di situazione del tutto diversa dalla partecipazione societaria e che l’azienda fosse già in origine a conoscenza della partecipazione societaria, fin da quando il dottor COGNOME era stato assunto nel 2004, poiché ciò poteva tutt’al più rilevare ai fini di una tardività della contestazione, ma non come autorizzazione implicita della datrice di lavoro a tenere un comportamento contrario alla legge.
La Corte distrettuale quale giudice del rinvio rilevava, in primo luogo, la preclusione dell’eccezione di tardività della procedura disciplinare in quanto preclusa per formazione del giudicato interno sul rigetto espresso della medesima eccezione contenuto nella sentenza di primo grado, capo in relazione al
quale il dottor COGNOME, pur vittorioso nelle successive questioni di merito, non aveva proposto appello incidentale.
In ordine alla sussistenza della condotta contestata, la Corte di merito non poteva che prendere atto del principio affermato dalla Cassazione in sede di rinvio che aveva imposto di equiparare attualità e potenzialità del conflitto di interessi, atteso il dichiarato intento del legislatore di prevenire, piuttosto che di reprimere le situazioni di contrasto fra l’interesse pubblico dell’amministrazione e quello privato del suo dipendente.
La Corte territoriale aggiungeva che l’unica possibilità per il medico di dimostrare l’assenza della propria condizione di incompatibilità era quella di provare che l’oggetto sociale non fosse effettivamente quello che solo formalmente risultava dalla visura camerale.
L’ordinanza rescindente non consentiva neppure in ipotesi la prospettazione di un’autorizzazione implicita che il dottor COGNOME pretendeva di aver ottenuto in un colloquio informale con l’allora direttore generale dell’azienda.
Il rigore della disciplina primaria tesa a prevenire conflitti di interesse avrebbe imposto piuttosto la preventiva segnalazione della propria condizione di socio formalmente indirizzata agli organi competenti dell’azienda con richiesta di autorizzazione espressa alla sua prosecuzione, solo qualora l’azienda l’avesse ritenuta legittima. Secondo il giudice del rinvio come interpretato dalla Corte distrettuale la rigorosa interpretazione della pronuncia rescindente esclude in radice ogni ulteriore argomento sulla pretesa buonafede del dipendente derivante da un asserito errore sull’esistenza dell’autorizzazione aziendale al possesso delle quote sociali o addirittura sull’inesistenza della propria condizione di incompatibilità. Infatti, dal punto di vista
oggettivo il possesso delle quote rappresentava violazione di normativa primaria e dal punto di vista soggettivo il dipendente non aveva tenuto una condotta diligente tesa a sottoporre alla datrice la doverosa verifica di legittimità sulla propria condizione.
La Corte distrettuale rilevava la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata per violazione dell’articolo 6 paragrafo 2 CEDU ipotizzata dal dottor COGNOME ed invero l’ingerenza nella vita privata del medico pubblico dipendente appare del tutto coerente con le necessità di garantire che il medesimo si trovi ed operi in condizioni di indipendenza e totale disponibilità per l’amministrazione; infine, la Corte distrettuale, per un verso eccepiva la novità degli argomenti svolti per la prima volta nel ricorso in riassunzione in tema di necessaria tipicità del potere disciplinare e, dall’altro riteneva congrua e proporzionata la sospensione di un mese inflitta in concreto; inoltre, rilevava che la stessa condotta in astratto rappresentava violazione di norma primaria di diretta derivazione costituzionale la cui obbligatoria osservanza per il dirigente medico era ribadita anche dall’articolo 6 del CCNL. in materia di adeguatezza della misura osservava che la stessa potesse essere confermata, stante la rilevanza dell’infrazione, l’intenzionalità del comportamento di detenzione non dichiarata e il grado di negligenza dimostrata evidenziato anche dall’originario dubbio sulla legittimità della propria condizione in assenza di ogni segnalazione formale ai competenti organi aziendali.
Proponeva ricorso per cassazione NOME COGNOME assistito da quattro motivi cui resisteva con controricorso l’Azienda USL Toscana sud-est.
La controricorrente provvedeva altresì a depositare memoria.
Con il primo motivo si denuncia la violazione degli articoli 112 e 346 c.p.c. in relazione all’articolo 360, comma 1, n. 4 c.p.c..
In particolare, si contesta l’omesso esame della doglianza che aveva eccepito l’inefficacia del provvedimento disciplinare concluso dopo che era decorso il termine di 120 giorni dalla data di acquisizione della prima notizia di rilievo disciplinare ex articolo 55-bis del decreto legislativo 165/ 2001.
La decisione della Corte di appello avrebbe erroneamente rilevato la formazione del giudicato interno per omessa impugnazione della sentenza di primo grado in ordine alla questione concernente la tardività del provvedimento disciplinare. La Corte di appello rileva che la sentenza di primo grado aveva espressamente respinto l’eccezione sollevata dall’odierno ricorrente, accogliendo nel merito la domanda di quest’ultimo, per cui il COGNOME avrebbe dovuto proporre formalmente appello incidentale avverso il capo di sentenza che aveva respinto la questione in esame. Sul punto richiama i principi in materia di overruling processuale, rilevando che l’atto processuale ossia il giudizio di appello avverso la sentenza del Tribunale fosse del 2014 e, quindi, antecedente alla sentenza n. 11799 del 2017 della Cassazione che ha affermato il principio della necessaria proposizione dell’appello incidentale nel caso di espresso rigetto di domanda o eccezione anche da parte del soggetto risultato vincitore nel merito in sede di prime cure.
1.1) Il motivo è inammissibile, nella misura in cui si ritiene applicabile il c.d. overruling processuale, considerato che il mutamento giurisprudenziale in ordine alla necessità di proporre il rimedio dell’ appello incidentale, nel caso di specie, era assolutamente imprevedibile. Ad avviso del ricorrente in questo caso si dovrebbe applicare la giurisprudenza che
escludeva la necessità di proporre appello incidentale, nel caso in cui vi fosse stata la soccombenza su una specifica domanda, ma la vittoria sulla domanda di merito.
Ed invero, non può considerarsi imprevedibile il principio affermato dalle Sezioni Unite, secondo cui in tema di impugnazioni, qualora un’eccezione di merito sia stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione del gravame incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345, comma 2, c.p.c. (per il giudicato interno formatosi ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c.), né sufficiente la mera riproposizione, utilizzabile, invece, e da effettuarsi in modo espresso, ove quella eccezione non sia stata oggetto di alcun esame, diretto o indiretto, ad opera del giudice di prime cure, chiarendosi, altresì, che, in tal caso, la mancanza di detta riproposizione rende irrilevante in appello l’eccezione, se il potere di sua rilevazione è riservato solo alla parte, mentre, se competa anche al giudice, non ne impedisce a quest’ultimo l’esercizio ex art. 345, comma 2, c.p.c. (Sez. U – , Sentenza n. 11799 del 12/05/2017). Ed invero tale anzidetto principio non può considerarsi imprevedibile, nella misura in cui già nel 2008 è stato affermato il principio della necessità dell’appello incidentale nel caso di pronuncia di rito in materia di giurisdizione cui è conseguito l’accoglimento delle domande di merito da parte del soccombente in sede di rito.
Al riguardo, la Cassazione (Cass. Sez. U, Ordinanza n. 25246 del 16/10/2008) aveva già affermato il principio suddetto secondo cui la parte risultata vittoriosa nel merito nel giudizio
di primo grado, al fine di evitare la preclusione della questione di giurisdizione risolta in senso ad essa sfavorevole, è tenuta a proporre appello incidentale, non essendo sufficiente ad impedire la formazione del giudicato sul punto la mera riproposizione della questione, ai sensi dell’art. 346 cod. proc. civ., in sede di costituzione in appello, stante l’inapplicabilità del principio di rilevabilità d’ufficio nel caso di espressa decisione sulla giurisdizione e la non applicabilità dell’art. 346 cod. proc. civ. a domande o eccezioni autonome espressamente e motivatamente respinte, rispetto alle quali rileva la previsione dell’art. 329, secondo comma, cod. proc. civ., per cui in assenza di puntuale impugnazione opera su di esse la presunzione di acquiescenza.
Con il secondo motivo di ricorso si contesta la violazione dell’articolo 1375 codice civile in relazione all’articolo 360, comma 1, n. 3 c.p.c., nonché dei principi che governano l’accertamento della responsabilità disciplinare del medico autorizzato all’esercizio della professione in regime extra moenia. In particolare, la censura sottopone a critica la pronuncia della Corte distrettuale, nella parte in cui rifiuta di prendere in considerazione l’argomento portato dalla difesa relativo all’assenza del rilievo disciplinare in nome del principio di buona fede, della inoffensività in concreto del comportamento censurato.
3.1) Tale censura è inammissibile nella misura in cui non tiene conto della ratio decidendi della Corte di appello che esclude specificamente la buona fede dell’odierno ricorrente per non aver preventivamente segnalato la propria condizione di socio agli organi competenti dell’azienda con richiesta di autorizzazione espressa alla sua prosecuzione, solo qualora l’azienda l’avesse ritenuta legittima. Inoltre, la Corte
distrettuale rileva che la rigorosa interpretazione della pronuncia rescindente della Corte di Cassazione che esclude in radice ogni ulteriore argomento sulla pretesa buona fede del dipendente derivante dalla dell’asserito errore sull’esistenza dell’autorizzazione aziendale al possesso delle quote sociali o addirittura sull’ inesistenza della propria condizione di incompatibilità.
Ad avviso della Corte, dal punto di vista oggettivo, il possesso delle quote sociali rappresenta violazione di normativa primaria e, dal punto di vista soggettivo, e quindi relativamente alla questione della sussistenza della buona fede dell’odierno ricorrente, la Corte rileva che il dipendente non ha tenuto una condotta diligente tesa a sottoporre alla datrice la doverosa verifica di legittimità sulla propria condizione. Tali profili motivazionali non vengono specificamente aggrediti dalla censura che ripropone in sede di legittimità la questione di merito della sussistenza della buona fede del ricorrente che, viceversa, è stata espressamente esclusa dalla Corte territoriale.
Con il terzo motivo si denuncia la violazione degli artt. 99, 12, 342, 346 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.. La violazione degli artt. 55 d.lgs 165/2001, e CCNL 6/5/2010 integrativo del CCNL Area Dirigenza MedicoVeterinaria del 17/10/2008. Omessa pronuncia sulla domanda proposta in primo grado e sempre richiamata nelle successive fasi del processo riguardo la violazione del principio di legalità delle sanzioni disciplinari e dell’obbligo di motivazione del provvedimento sanzionatorio.
La sentenza avrebbe considerato erroneamente nuovi i motivi di doglianza a proposito della legalità della sanzione applicata immotivatamente fuori dai casi considerati nel catalogo
demandato alla contrattazione collettiva che, invece, erano stati rappresentati già con il ricorso introduttivo del processo innanzi al Tribunale di Grosseto e quindi replicati in grado di appello.
4.1) Il motivo è inammissibile non confrontandosi specificamente con la ratio decidendi della pronuncia impugnata.
Ed invero, la Corte di appello, pur ritenendo inammissibili gli argomenti nuovi in tema di necessaria tipicità del potere disciplinare anche quanto alla scelta del tipo e della misura della sanzione inflitta, afferma correttamente che la condotta in astratto rappresenta violazione di norma primaria di diretta derivazione costituzionale la cui obbligatoria osservanza per il dirigente medico è ribadita anche dall’articolo 6 CCNL ed in concreto di sicuro rilievo disciplinare dal punto di vista oggettivo e soggettivo.
4.2) Inoltre, il motivo è inammissibile anche per difetto di autosufficienza, non avendo il ricorrente richiamato specificamente gli atti con i quali avrebbe sottoposto al Tribunale e successivamente alla Corte di Appello domande di cui il giudice del rinvio avrebbe ritenuto la novità, senza trascriverne il contenuto in modo da consentire in questa sede la valutazione della censura.
Con il quarto motivo si deduce la violazione degli artt. 55 d.lgs. n. 165/2001, 7 e 8 del CCNL 6/5/2010 integrativo del CCNL Area Dirigenza Medico-Veterinaria del 17/10/2008 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.. Omessa motivazioneAssenza totale di spiegazione riguardo l’impiego del criterio dettato dall’articolo 8 del contratto collettivo nella selezione della sanzione della sospensione dal servizio e dallo stipendio in luogo delle altre sanzioni alternativamente disponibili, elencate nell’articolo 7 dello stesso contratto.
Si contesta la errata applicazione delle regole adottate nel contratto collettivo nazionale ed in particolare dell’articolo 8 del contratto collettivo, nella misura in cui la Corte territoriale non ha motivatamente tenuto conto della possibilità di infliggere al dipendente le sanzioni alternative del richiamo o della multa, piuttosto che quella più grave della sospensione dal servizio e dallo stipendio.
5.1) Va al riguardo premesso che in materia di sanzioni disciplinari, il giudizio di proporzionalità tra sanzione e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, in quanto implica un apprezzamento dei fatti che hanno dato origine alla controversia, ed è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi o manifestamente ed obiettivamente incomprensibili, ovvero ancora sia viziata da omesso esame di un fatto avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto con certezza ad un diverso esito della controversia. (cfr. Sez. L – , Sentenza n. 107 del 03/01/2024).
5.2) Ciò posto, anche tale censura è inammissibile in quanto la Corte d’appello con un giudizio insindacabile in questa sede ha ritenuto congrua e proporzionata la sospensione di un mese inflitta in concreto sulla base dell’articolo 8 commi 5/8 CCNL, anche in considerazione della rilevanza dell’infrazione, dell’intenzionalità del comportamento e del grado di negligenza dimostrata. La motivazione della pronuncia impugnata pertanto è scevra da vizi giuridici, ovvero viziata da omesso esame di un fatto avente valore decisivo.
6) In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese secondo il principio della soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Condanna il ricorrente al rimborso di € 4.000,00, a titolo di compensi, oltre € 200,00 per esborsi, nonché al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione