Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 23720 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 23720 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: TRICOMI IRENE
Data pubblicazione: 22/08/2025
SENTENZA
sul ricorso 18658-2024 proposto da:
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– ricorrente principale –
contro
COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
ricorrente incidentale nonché contro
Oggetto
Ripetizione indebito Graduatoria Potenziale conflitto di giudicati
R.G.N. 18658/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 17/06/2025
PU
COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME
– intimati –
avverso la sentenza n. 154/2024 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 20/05/2024 R.G.N. 625/2023; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/06/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e assorbimento del ricorso incidentale condizionato; udito l’avvocato NOME COGNOME
udito l’avvocato NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 13 settembre 2021 il Tribunale di Torino, rilevato il difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’economia e delle finanze, ha dichiarato l’illegittimità del decreto con cui il Ministero dell’Interno aveva retrocesso NOME COGNOME dalla fascia retributiva F2 dell’area III alla fascia retributiva F1 della medesima area con il ripristino da parte del Ministero dell’Interno dell’inquadramento della odierna controricorrente nella fascia F2.
In fatto, era avvenuto che:
nel 2010 il Ministero dell’Interno aveva indetto una selezione per il passaggio da F1 a F2 dell’Area III;
la originaria ricorrente, inquadrata in fascia F1, si era vista attribuire la fascia F2 dal 1° gennaio 2010 e, in seguito, aveva fatto domanda per il riconoscimento della fascia F3;
il bando e la graduatoria erano stati impugnati da vari dipendenti non vincitori presso diversi Tribunali;
con d.m. 1691 del 2020, in esecuzione di sentenza del Tribunale di Matera n. 1063/2013, divenuta definitiva, era stata esclusa, assieme ad altri 91 dipendenti, dalla graduatoria già approvata per l’acquisizione della superiore fascia retributiva F2 area funzionale terza, sul presupposto che non fosse in possesso del requisito della permanenza non inferiore ai due anni nella fascia retributiva F1, da individuarsi alla data del 31 dicembre 2009.
La originaria ricorrente, quindi, aveva chiesto che:
fosse dichiarata la nullità o fosse annullato l’atto di retrocessione dalla posizione F2 a quella F1, previa disapplicazione di tutti gli atti prodromici, con conseguente ordine di ripristino del suo inquadramento nella fascia economica F2 alla data del 1° gennaio 2010, con ogni conseguenza pure quanto all’attribuzione della successiva fascia F3 dal 1° gennaio 2020; in subordine, fosse dichiarata la responsabilità del Ministero resistente per il ritardo con il quale era stata inquadrata nell’Area III, posizione economica F1 o per inidoneità della sua difesa nel giudizio concluso con ordinanza n. 21313/2020 della Corte di cassazione;
fosse condannato il Ministero al risarcimento del danno; in ulteriore subordine, fosse accertata l’irripetibilità delle somme a lei corrisposte in ragione dell’inquadramento nella fascia retributiva F2 dal 2010 al 2020.
Il Ministero dell’Interno ha proposto appello che la Corte d’appello di Torino, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 154/2024, ha rigettato. Il giudice di appello ha accolto in
parte l’appello incidentale della lavoratrice e ha condannato il Ministro al pagamento alla stessa, a titolo risarcitorio, della somma di euro 3.153,98 oltre interessi di legge.
Il Ministero dell’Interno ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un motivo.
La lavoratrice si è difesa con controricorso e ha presentato ricorso incidentale condizionato sulla base di due motivi.
L’Ufficio della Procura Generale ha depositato conclusioni scritte, ulteriormente illustrate nel corso della discussione, ed ha chiesto il rigetto del ricorso principale e l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente deve essere descritta la vicenda in esame. Nel 2010 il Ministero dell’Interno ha indetto una selezione per il passaggio da F1 a F2 della Area terza, prevedendo tra i requisiti di partecipazione la permanenza in F1 per almeno un biennio al 27 ottobre 2010, data di scadenza del termine per la presentazione delle domande di partecipazione. La controricorrente, inquadrata in fascia F1, ha ottenuto il passaggio in fascia F2 dal 1° gennaio 2010. Il bando e la graduatoria sono stati impugnati da vari concorrenti non vincitori, tutti in possesso di un biennio di permanenza in F1 in data anteriore al 1° gennaio 2010, sostenendo che detto biennio doveva sussistere già alla data del 31 dicembre 2009 e chiedendo l’esclusione di 92 concorrenti, fra cui la controricorrente, i quali avevano maturato il biennio in F1 dopo il 31 dicembre 2009, pur se prima del 27 ottobre 2010.
A fronte di numerose sentenze di rigetto, il Tribunale di Matera ha accolto il ricorso che era stato proposto da NOME COGNOME e, con sentenza n. 1063/2013, ha annullato la graduatoria nella parte ove aveva incluso dipendenti non in possesso del requisito della permanenza biennale nella fascia retributiva F1 alla data del 31 dicembre 2009.
La sentenza del Tribunale di Matera era stata confermata in appello con decisione n. 36/2015 e l’impugnazione in cassazione era stata ritenuta inammissibile con ordinanza n. 21313 del 5 dicembre 2020.
Il Ministero dell’Interno, con d.m. 25 novembre 2020, ha dato esecuzione alla citata sentenza del Tribunale di Matera, escludendo dalla graduatoria 92 vincitori, tra i quali la controricorrente, e inserendovi altrettanti concorrenti in precedenza non risultati vincitori.
In particolare, NOME COGNOME è stata retrocessa in F1 ed esclusa dalle progressioni economiche del 2020 ed ha quindi proposto, con atto del 13 settembre 2021 ricorso davanti al Tribunale di Torino invocando le sentenze di merito a lei favorevoli. La stessa era stata chiamata in altro giudizio proposto da NOME COGNOME in relazione alla medesima progressione, davanti al Tribunale di Macerata prima e alla Corte d’appello di Ancona in seguito e, al momento della notifica di tale ricorso, pendente in cassazione. Per l’esattezza, la Corte d’appello di Ancona aveva definito la controversia con sentenza n. 232/19. In precedenza, il Tribunale di Macerata si era pronunciato con sentenza n. 58/15, annullata una prima volta per mancata integrazione del contraddittorio dalla Corte
d’appello di Ancona con sentenza n. 296/16, alla quale era seguita nuova sentenza del Tribunale di Macerata n. 381/17.
L’attuale controricorrente ha chiesto, quindi, in via principale, l’accertamento dell’illegittimità dell’atto di retrocessione nonché la condanna del Ministero a ripristinare l’inquadramento in F2 dal 1° gennaio 2010; in via subordinata ha domandato l’accertamento dell’irripetibilità delle somme percepite a far tempo dal gennaio 2010. Ha chiesto, infine, la condanna del Ministero al risarcimento del danno per perdita di chance con riferimento alla esclusione dalla procedura selettiva per il passaggio da F2 a F3 nonché «ai futuri ritardi nel conseguimento delle fasce retributive da F3 a F7.
Nel corso del processo di primo grado è stato pubblicato il decreto n. 28767/21 del 19 ottobre 2021, con cui è stato dichiarato estinto il giudizio promosso dal COGNOME (al quale aveva partecipato il controricorrente) contro la sentenza n. 232/19 della Co rte d’appello di Ancona che, riformando la decisione di primo grado, aveva accolto le ragioni del Ministero dell’Interno.
C on l’unico motivo di ricorso il Ministero denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 324, 338, 391 c.p.c. nonché dell’art. 2909 c.c. e addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente assimilato la declaratoria di estinzione del giudizio per cassa zione ad una pronuncia sull’ammissibilità o sulla fondatezza dell’impugnazione e di avere, conseguentemente, errato nel ritenere che il giudicato formatosi sulla sentenza della Corte d’appello di Ancona, la quale aveva escluso l’illegittimità del bando e l e denunciate violazioni della
disciplina dettata dalla contrattazione collettiva, nazionale e integrativa, dovesse prevalere sulle statuizioni adottate dalla Corte d’appello di Potenza che, al contrario, confermando la pronuncia di primo grado, aveva espressamente ordinato all’amminist razione di espungere dalla graduatoria tutti i partecipanti non in possesso alla data del 31 dicembre 2009 del requisito della permanenza biennale nella fascia retributiva F1. Sostiene che la pronuncia di estinzione ex art. 391 c.p.c., con la quale la Corte di cassazione si limita a prendere atto della rinuncia e dipende unicamente dalla volontà del ricorrente, non è equiparabile a quella di rigetto dell’impugnazione e neppure a quelle di inammissibilità o di improcedibilità, le quali implicano comunque una valutazione, sia pure sotto il solo profilo processuale, dell’impugnazione. Richiama la disciplina dettata dall’art. 310 c.p.c. e l’art. 2945 c.c. e dalla stessa trae conferma di quanto affermato circa la non corretta equiparazione delle due diverse tipologie di pronunce in rilievo. Riporta, poi, ampi stralci di sentenze rese da altre Corti territoriali, che hanno sottolineato come il passaggio in giudicato della sentenza della Corte d’appello di Potenza aveva fatto venir meno l’interesse a coltivare i giudizi intrapresi da coloro che avevano sostenuto l’illegittimità della originaria graduatoria, perché il bene della vita perseguito era stato ottenuto per effetto di quel giudicato, al quale l’amministrazione aveva ottemperato. Rileva ancora che ha errato il giudice d’appello nel sostenere che i due giudicati fossero contrastanti perché, al contrario, la prima pronuncia, dichiarata la nullità del bando e della graduatoria, di ques t’ultima aveva espressamente ordinato la riformulazione,
mentre la sentenza della Corte d’appello di Ancona si era limitata a rigettare la domanda proposta dal COGNOME.
Innanzitutto, ritiene questo Collegio di fare delle considerazioni preliminari in ordine alla tipologia di azione che viene qui in rilievo. I giudici dei gradi di merito non hanno, infatti, del tutto correttamente inquadrato il thema decidendum della causa, da loro individuato nella determinazione, nei rapporti fra datore di lavoro e lavoratore, di quale giudicato dovesse prevalere ed essere attuato. La Corte d’appello di Torino ha ritenuto che la decisione del caso c.d. COGNOME e quella del giudizio c.d. COGNOME fossero fra loro in contrasto, con conseguente prevalenza della pronuncia posteriore, ossia quella c.d. COGNOME, essendosi il relativo giudicato formato il 19 ottobre 2021, mentre la vicenda c.d. COGNOME si sarebbe conclusa il 5 ottobre 2020. Nel fare ciò, però, la corte territoriale non ha tenuto conto che la pronuncia resa al termine della controversia c.d. COGNOME conteneva l’accoglimento di una domanda di annullamento, in parte qua, della graduatoria menzionata e che, quindi, aveva, per la parte che rileva, natura costitutiva (la sentenza c.d. COGNOME, invece, era di rigetto). Ai fini della decisione del ricorso, invece, rileva proprio la tipologia di sentenza emessa all’esito del caso c.d. COGNOME. Infatti, il giudice può pronunciare, in sede di cognizione, tre tipologie di sentenze: a) quelle di accertamento; b) quelle di condanna; c) quelle costitutive. Le decisioni sub c), che hanno il fondamento normativo nell’art. 2908 c.c. e sono tipizzate dalla legge, sono rese in seguito all’esercizi o di azioni (di cognizione) dette, appunto, costitutive, che si differenziano da quelle di
accertamento e di condanna perché, con esse, si compie un accertamento collegato a una situazione giuridica sostanziale per stabilire se vi siano le condizioni previste dalla legge per produrre un mutamento giuridico. L’azione costitutiva tende, allora, a ottenere dal giudice una sentenza che, sulla base di un accertamento, costituisce, modifica o estingue un rapporto giuridico sostanziale.
4. Inoltre, premesso quanto sopra, occorre individuare il fondamento delle sentenze di merito, favorevoli alla lavoratrice. La corte territoriale, condividendo il ragionamento del giudice di primo grado, ha affermato la prevalenza del giudicato c.d. COGNOME, formatosi al momento della pubblicazione del decreto della Corte di cassazione n. 28767 del 2021, avvenuta il 19 ottobre 2021, su quello c.d. COGNOME, venuto in essere con l’ordinanza della S.C. n. 21313 del 5 ottobre 2020. Così ragionando, ha ritenuto che la presente vicenda, concernente la controricorrente, fosse regolata dal giudicato c.d. COGNOME, sorto posteriormente, favorevole alla dipendente, in luogo di quello c.d. COGNOME, a lei sfavorevole. Ciò è avvenuto, in pratica, applicando il principio, spesso affermato dalla Suprema Corte, per il quale ‘In caso di contrasto tra giudicati, al fine di stabilire quale fra due giudicati debba prevalere, occorre fare ricorso al criterio temporale, nel senso che il secondo giudicato prevale sul primo, salvo che la sentenza contraria ad altra precedente non sia stata sottoposta a revocazione’ (Cass., Sez. 3, n. 2462 del 25 gennaio 2024). Si è detto, infatti, che ‘La formazione di giudicati contrastanti sulla medesima domanda risarcitoria o restitutoria proposta nelle sedi penale e civile, senza che venga
rilevata la violazione del divieto di contemporaneo esercizio dell’azione, si risolve con la prevalenza della sentenza emanata per ultima (…)’. Si tratta di affermazione risalente nel tempo, tanto che, anche solo prendendo in esame le decisioni massimate, si arriva agli anni ’50 del ‘900 (Cass., Sez. 6 -5, n. 13804 del 31 maggio 2018; Cass., Sez. 5, n. 26437 del 19 ottobre 2018; Cass., Sez. L, n. 10623 dell’8 maggio 2009; Cass., Sez. 2, n. 833 del 25 gennaio 1993; Cass., Sez. L, n. 5311 del 29 agosto 1986; Cass., Sez. 1, n. 4295 del 16 dicembre 1974; Cass., Sez. 3, n. 2864 del 28 luglio 1969; Cass., n. 1834 del 1957). Tale affermazione, però, nella sua perentorietà, non è accompagnata dall’indicazione del suo fondamento normativo, anche se alcune pronunce si riferiscono all’art. 15 disp. prel. (Cass., Sez. 5, n. 29580 del 29 dicembre 2011).
Bisogna valutare, allora, se il menzionato principio sia pertinente alla vicenda in esame.
Sulla base delle precedenti osservazioni, la causa può essere decisa, dovendosi affermare che, nella specie, non sussiste un contrasto fra giudicati incompatibili.
5.1. In primo luogo, la corte territoriale non ha valutato che una sentenza costitutiva, diversamente da una di mero accertamento, crea, modifica o estingue una situazione giuridica e che questo effetto, una volta avvenuto, incide in via definitiva su tale situazione, divenendo immutabile in seguito al giudicato formale della decisione.
Al formarsi della cosa giudicata formale nella vicenda COGNOME, pertanto, è seguito un effetto di cosa giudicata sostanziale che
ha comportato l’annullamento della graduatoria in esame e la sua definitiva riformulazione. Nella vicenda c.d. COGNOME si ha sempre la formazione di un giudicato formale, ma la conseguenza in termini di cosa giudicata sostanziale, ossia di accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato formale che fa stato nei confronti delle parti, dei loro eredi o aventi causa, è ben diversa, in quanto, prescinde dall’ormai intervenuta modifica definitiva della graduatoria stabilita dal giudicato Giacoia e definisce la lite facendo salva detta graduatoria che, però, era ormai stata definitivamente superata. In presenza di sentenze costitutive, invero, la modifica delle situazioni giuridiche venuta in essere, ove definitiva, come nella specie, non può più essere rimossa da pronunce successive, anche se fondate su ricostruzioni diverse e, in apparenza, incompatibili, le quali sono, in pratica, inutiliter datae , in assenza, ormai, di ogni interesse alla decisione, non esistendo più la precedente graduatoria che pertanto, non può essere ripristinata dall’autorità giudiziaria. Il giudizio COGNOME in pratica, una volta definitivamente annullata detta graduatoria, non poteva più avere ad oggetto la validità della stessa.
Bisogna ritenere, allora, che la fattispecie non integri un conflitto fra giudicati che presuppone l’identità di tutte le persone, del petitum e della causa petendi delle cause, restando irrilevante, a tal fine, l’eventuale identità delle questioni giuridiche o di fatto da esaminare per pervenire alla decisione (Cass., Sez. 1, n. 18232 del 3 luglio 2024) -, risolvibile applicando il menzionato criterio della prevalenza di quello successivo, atteso che il giudicato c.d. COGNOME, pur essendo
posteriore, aveva interessato, diversamente da quello c.d. COGNOME, un bene della vita non più esistente. E in tal senso depone anche il decreto di estinzione pronunciato da questa Corte che ha definito tale giudizio (decreto Cass. n. 28767 del 2021), in quanto lo stesso è intervenuto a seguito della rinuncia al ricorso proposta da NOME COGNOME una volta che era già intervenuta la pronuncia COGNOME favorevole.
5.2. Inoltre, la corte territoriale non ha tenuto conto del ruolo del litisconsorzio nel processo c.d. COGNOME. Infatti, vi era stata una domanda di annullamento promossa dal COGNOME contro la P.A. L’esito del giudizio era stato l’annullamento della graduatoria e la sua riformulazione, ma detto esito aveva riguardato il rapporto fra il COGNOME medesimo e la P.A. L’integrazione del contraddittorio disposta nei confronti degli altri partecipanti alla procedura non aveva comportato la proposizione, da parte loro, di una domanda analoga a quella del COGNOME. Al contrario, essi erano rimasti inerti e la notifica del ricorso era servita solo a rendere opponibile la sentenza che aveva regolato il rapporto fra lo stesso COGNOME e il datore di lavoro. Lo stesso era avvenuto nella vicenda COGNOME. La sentenza definitiva aveva accertato la legittimità della graduatoria con riferimento alla domanda del COGNOME, ma analogo specifico accertamento non vi era stato per quel che concerne gli altri intimati. In entrambe le situazioni, non è possibile riconoscere a coloro che sono stati messi in condizione di partecipare al giudizio, ma non siano intervenuti e non abbiano proposto domande, di fondare, sul giudicato finale, un diritto soggettivo proprio, autonomo e distinto da quello altrui,
nonostante nel procedimento ove siffatto giudicato si è formato non ne abbiano chiesto la tutela. Pertanto, i due processi, COGNOME e COGNOME, si differenziavano in quanto il primo aveva ad oggetto la domanda di annullamento del COGNOME, mentre il secondo quella del COGNOME. Nelle due controversie la presenza delle altre parti non aveva comportato un’estensione a loro di tali domande, ma semplicemente reso efficace le specifiche statuizioni definitive del giudice verso il COGNOME e il COGNOME. Vi erano, quindi, due liti, con domande diverse, ma inerenti alla medesima questione giuridica. La specificità degli effetti dei due giudicati è coerente con la natura delle sentenze, le quali pongono una regola che disciplina il caso concreto e riguarda solo le parti che hanno proposto domande e quelle che si sono opposte.
Solo in un secondo momento vi era stata un’ulteriore attività della P.A. che, nell’esercizio dei suoi poteri datoriali, aveva esteso a tutti i dipendenti le conseguenze dell’annullamento, definitivo, della graduatoria de qua, contenuto nella sentenza COGNOME. Più precisamente, l’atto con il quale il Ministero ha reso generali, con riferimento a ogni interessato, gli effetti della pronuncia c.d. COGNOME è un atto gestorio di diritto privato del rapporto di lavoro posto in essere dal datore nell’esercizio dei suoi poteri, che deve essere adottato nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede (Cass., Sez. L, n. 24122 del 3 agosto 2022). Per l’esattezza, la P.A., nell’estendere il giudicato c.d. COGNOME, era obbligata a tenere una condotta omogenea verso tutti gli interessati e a rispettare il giudicato favorevole a chi avesse contestato la citata graduatoria.
5.3. Vanno menzionate anche le considerazioni espresse dalla giurisprudenza amministrativa in alcune fattispecie concernenti atti amministrativi contemporaneamente efficaci verso una pluralità di persone, pur nella consapevolezza della specificità della disciplina degli effetti del giudicato del giudice amministrativo. L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con le sentenze n. 4 e n. 5 del 27 febbraio 2019, in giudizi concernenti l’impugnazione del d.m. n. 400 del 12 giugno 2017 (recante le procedure pe r l’aggiornamento e l’integrazione della graduatorie ad esaurimento – GAE per il personale docente ed educativo relative al triennio 2014-2017, poi prorogato al 2019) ha affermato che «il giudicato amministrativo ha di regola effetti limitati alle parti del giudizio e non produce effetti a favore dei cointeressati che non abbiamo tempestivamente impugnato. Infatti, il giudicato amministrativo – in assenza di norme ad hoc nel codice del processo amministrativo – è sottoposto alle disposizioni processual civilistiche, per cui il giudicato opera solo inter partes , secondo quanto prevede per il giudicato civile l’art. 2909 c.c. (‘L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa’)». In particolare, gli effetti del giudicato amministrativo di accertamento della pretesa, ordinatori, e conformativi operano sempre inter partes, essendo solo le parti legittimate a fare valere la violazione dell’obbligo conformativo o dell’accertamento della p retesa contenuto nel giudicato (Cons. Stato, n. 5634 del 1° dicembre 2017; Cons. Stato, n. 6964 del 5 dicembre 2005; Cons. Stato, n. 4977 del 5 settembre 2003; Cons. Stato, n. 4253 del 2 agosto 2000; Cons. Stato, n. 1142
del 6 marzo 2000; Cons. Stato, n. 276 del 9 aprile 1994; Cons. Stato, n. 561 del 18 luglio 1990). Quanto esposto rafforza le conclusioni di questo Collegio nella presente vicenda, ove la pretesa dell’originaria ricorrente è fondata su una non consentita estensione degli effetti conformativi/additivi di precedenti decisioni, rese a definizione di giudizi promossi da altri destinatari dell’atto impugnato, come peraltro previsto anche dall’art. 2909 c.c.
5.4. Altro profilo che rende palese come un conflitto di giudicati non sia immaginabile è la condotta della P.A. Come all’esito del processo COGNOME era quest’ultimo a potere vantare una pretesa ormai definitiva verso l’Amministrazione, dopo la controversia COGNOME era la P.A. l’unica a potere opporre, al medesimo COGNOME, il rigetto della sua domanda. Il Ministero, però, ha deciso di estendere gli effetti del giudicato COGNOME a tutti gli interessati, così palesando il suo disinteresse nei confronti del procedimento COGNOME che, non a caso, si è estinto per volontà del lavoratore, ormai beneficiario del recepimento della sentenza COGNOME da parte della P.A. Un eventuale conflitto di giudicati è, dunque, escluso anche dal modo di agire della P.A., la quale era il solo soggetto che, in realtà, avrebbe potuto utilizzare, ove fosse stato possibile (il che, in realtà, come detto, va escluso), la sentenza COGNOME per paralizzare quella COGNOME. Ciò conferma, anzi, che i due primi giudizi non erano fra loro realmente sovrapponibili, poiché il secondo era stato definito dopo l’esercizio del potere datoriale di adeguamento al giudicato c.d. COGNOME e, quindi, di modifica, ormai definitiva, della graduatoria, il cui contenuto era stato già cambiato all’epoca del
giudicato c.d. COGNOME. Per ripristinare l’identità dei giudizi sarebbe stata necessaria una previa revoca della decisione della P.A. di adeguamento al primo giudicato o una decisione giudiziaria che tale decisione avesse rimosso il che, però, non risulta sia mai stato oggetto di discussione.
5.5. A deporre in senso contrario all’esistenza di un conflitto di giudicati è anche la circostanza che il giudicato formale c.d. COGNOME riguardava unicamente il ricorrente, che non aveva convenuto tutti gli interessati, ma solo un numero ristretto di persone, mentre quello c.d. COGNOME seguiva a un ricorso destinato a definire l’intera vicenda concorsuale verso tutti i controinteressati. I giudici del merito, poi, non hanno considerato che, comunque, la causa introdotta dalla controricorrente aveva ad oggetto principalmente l’accertamento ‘dell’illegittimità’ dell’atto di retrocessione e della conseguente richiesta di recupero avanzata dalla P.A. e si estendeva al Ministero dell’Economia e delle Finanze, senza coinvolgere altri lavoratori. I procedimenti introdotti da COGNOME e COGNOME non avrebbero, invece, mai potuto interessare l’atto di retrocessione e la conseguente richiesta di recupero della P.A. Ne deriva una diversità di contenuto e soggettiva fra i giudicati delle controversie COGNOME e NOME (che, come evidenziato, si distinguono pure fra di loro) e il giudizio instaurato dalla controricorrente. L’oggetto del contendere è, quindi, nel presente giudizio, simile, ma differente da quello delle liti precedenti, a loro volta non sovrapponibili.
Peraltro, se anche si accogliesse la prospettazione del giudice di appello, per cui vi sarebbe, nella specie, un conflitto fra
giudicati (tesi qui respinta), l’esito del giudizio sarebbe sempre favorevole alla P.A. Infatti, risulta che, pendente il giudizio COGNOME, si era concluso quello COGNOME. Secondo la controricorrente, i processi, quanto alla sua posizione, presentavano identità di petitum, causa petendi e personae ed erano stati pendenti davanti a diversi tribunali e corti d’appello. Era applicabile, allora, l’art. 39 c.p.c., in base al quale, per quel che rileva, ‘Se una stessa causa è proposta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito, in qualunque stato e grado del processo, anche d’ufficio, dichiara con ordinanza la litispendenza e dispone con ordinanza la cancellazione della causa dal ruolo.
Nel caso di continenza di cause, se il giudice preventivamente adito è competente anche per la causa proposta successivamente, il giudice di questa dichiara con ordinanza la continenza e fissa un termine perentorio entro il quale le parti debbono riassumer e la causa davanti al primo giudice. (…)’.
La regola appena enunciata è chiara e univoca: in presenza di più cause pendenti davanti a giudici diversi, che siano identiche o in rapporto di continenza, quella introdotta successivamente deve essere cancellata dal ruolo o, nella seconda eventualità, riassunta davanti al primo giudice, ove sia competente a deciderla (competenza che, nella specie, sicuramente sussisteva). Ne deriva che, se vi sono due procedimenti riconducibili allo schema dell’art. 39 c.p.c., uno dei due, tendenzialmente il secondo, deve essere deciso in rito. Si tratta di una regola generale che attiene alla validità del processo e non semplicemente alla sua organizzazione e che non può subire
deroghe di alcun tipo, se non espressamente introdotte dalla legge. Ne consegue, ulteriormente, che, nelle ipotesi indicate dall’art. 39 c.p.c., non può esservi un vero contrasto fra giudicati e che, qualora il secondo giudizio venga (erroneamente) definito nel merito, il relativo giudicato è solo apparente e cedevole rispetto al primo. Pertanto, ove, in un terzo procedimento, si debba accertare quale prevalga, fra due giudicati di merito resi in precedenza in casi che avrebbero dovuto essere definiti ai se nsi dell’art. 39 c.p.c., il giudice di tale procedimento deve tenere conto dell’avvenuta violazione del citato art. 39 c.p.c. e della natura apparente e, dunque, non vincolante, del secondo giudicato, che avrebbe dovuto essere deciso in rito. Il nostro sistema processuale non consente, una volta instaurato davanti a una corte un giudizio, che, presso una corte differente, ne sia introdotto e deciso, non in rito, con efficacia di giudicato sia formale sia sostanziale, un secondo identico, magari al fine precipuo di eludere una precedente sentenza non gradita. In presenza, quindi, di sentenze (non in rito) passate in giudicato in fattispecie identiche o, comunque, riconducibili al concetto di continenza e rese in occasione di procedimenti contemporaneamente pendenti davanti a uffici giudiziari diversi, il secondo giudicato è apparente e prevale il primo.
Ma questa evenienza qui non si verifica, essendo le fattispecie esaminate rispettivamente nei due giudicati non identiche né comunque, riconducibili al concetto di continenza.
Possono ora essere esaminate le censure proposte dal Ministero dell’interno, esposte sopra al punto 2.
Dalle considerazioni che precedono discende che il ricorso del Ministero è fondato nella parte in cui fa leva sulla natura costitutiva della pronuncia Giacoia e sulla insussistenza di un reale conflitto di giudicati. Viceversa, non sono condivisibili le argomentazioni spese per sostenere che il giudicato COGNOME dovrebbe essere collocato temporalmente alla data della pronuncia di appello e non a quella del decreto di estinzione del giudizio di cassazione. Quanto a quest’ultimo aspetto va detto, infatti, che questa Corte ha affermato, in una vicenda concernente il giudizio d’appello la cui logica, però, si presta a definire il presente contenzioso, che, in tema di estinzione del processo, dalla quale deriva ex art. 338 c.p.c. il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, il termine di prescrizione dell’ actio iudicati decorre non dal momento nel quale è intervenuto l’evento estintivo, ma dalla declaratoria di estinzione del processo, ossia da quando si dà luogo all’effetto estintivo, perché il combinato disposto degli artt. 2945 c.c. e 338 c.p.c., alla luce dei principi di ragionevolezza e del contraddittorio, impone che il dies a quo coincida con la pronuncia che ha reso le parti partecipi dello stesso evento (Cass., Sez. 2, n. 23156 dell’11 ottobre 2013 ). Anche nel giudizio di cassazione, pertanto, l’estinzione avviene con l’adozione del relativo provvedimento, decorso, in caso di pronuncia con decreto, il termine per fissare l’udienza di cui all’art. 391 c.p.c.
Alla luce dell’esito del ricorso principale, il ricorso incidentale condizionato va dichiarato inammissibile, non concernendo
questioni pregiudiziali o preliminari suscettibili di decisione in questa sede.
Infatti, nel giudizio di cassazione, è inammissibile il ricorso incidentale condizionato con il quale la parte vittoriosa nel giudizio di merito sollevi questioni che siano rimaste assorbite, ancorché in virtù del principio c.d. della ragione più liquida, non essendo ravvisabile alcun rigetto implicito, in quanto tali questioni, in caso di accoglimento del ricorso principale, possono essere riproposte davanti al giudice di rinvio (Cass., Sez. 3, n. 15893 del 6 giugno 2023).
Il ricorso principale è accolto per quanto di ragione. Il ricorso incidentale condizionato è dichiarato inammissibile. La sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, per la decisione nel merito, anche in ordine alle spese, in applicazione dei seguenti principi di diritto:
‘In tema di pubblico impiego contrattualizzato, la sentenza passata in giudicato che annulla la graduatoria di una procedura finalizzata al conseguimento di una superiore fascia retributiva nei confronti di tutti i controinteressati, stante la sua natura costitutiva, non può essere resa inefficace da altra decisione successivamente divenuta definitiva che affermi la validità della detta procedura, atteso che la modifica delle situazioni giuridiche venuta in essere non può più essere rimossa da pronunce posteriori, anche se fondate su ricostruzioni diverse e, in apparenza, incompatibili’;
‘In tema di pubblico impiego contrattualizzato, la P.A., in presenza di pronunce giurisdizionali, ottenute da suoi
dipendenti, passate in giudicato e fra loro in contrasto in ordine alla validità o meno di una procedura finalizzata al conseguimento di una superiore fascia retributiva, nell’estendere a tutti gli interessati gli effetti delle eventuali decisioni di annul lamento incontra l’unico limite, ricavabile dall’art. 97 Cost. e dai principi di correttezza e buona fede, rappresentato dall’obbligo di tenere una condotta omogenea verso tutti i partecipanti e di rispettare le sentenze già divenute definitive favorevoli a chi detta procedura abbia contestato’; ‘Il passaggio in giudicato delle sentenze oggetto di ricorso per cassazione in caso di estinzione con decreto per rinuncia avviene decorsi dieci giorni dalla comunicazione della relativa declaratoria senza che le parti chiedano la fissazione dell’udienza’.
P.Q.M.
La Corte,
accoglie il ricorso principale per quanto di ragione;
dichiara inammissibile il ricorso incidentale condizionato;
-cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’ Appello di Torino, in diversa composizione, la quale deciderà la causa nel merito anche in ordine alle spese di lite di legittimità;
-ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione