Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 23372 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 23372 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3775/2023 R.G. proposto da :
DIRER LAZIO -ASSOCIAZIONE DIRIGENTI E QUADRI DIRETTIVI DELLA REGIONE LAZIO E DEGLI ENTI COLLETTIVI – rappresentati e difesi dagli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME
-ricorrente-
contro
REGIONE LAZIO, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO DI ROMA n. 4848/2022 depositata il 10.1.2023, NRG 2865/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16/4/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.
Direr Lazio ha agito in giudizio nei confronti della Regione Lazio lamentando l’antisindacalità dell’essersi conclusi con anche la partecipazione di altre organizzazioni sindacali dei dirigenti -accordi con i quali erano stati in parte dirottati fondi destinati alla dirigenza a favore di Fondi per il personale del comparto e ciò in forza di due leggi regionali (L.R. Lazio n. 12/2014, art. 1; L. R. Lazio 17/2015, art. 7, co. 17) che avevano disposto in tal senso;
la Corte d’Appello di Roma, confermando con diversa motivazione la sentenza del Tribunale, ha rigettato la domanda;
essa ha evidenziato come lo storno di fondi dalla contrattazione di area dirigenziale a quella di comparto fosse avvenuto sulla base della normativa regionale che aveva stabilito in tal senso ed ha altresì ritenuto che la questione di legittimità costituzionale di tale normativa non potesse dirsi manifestamente infondata, avendo la Corte Costituzionale ripetutamente affermato che il trattamento economico dei dipendenti regionali non può essere disciplinato dalla legge regionale, in quanto esso rientra nella materia dell’ordinamento civile riservata in via esclusiva, ai sensi dell’art. 117, co. 2, Cost, alla legislazione statale;
era altresì vero -aggiungeva la Corte di merito -che l’art. 4, co. 1, del CCNL di Area riservava alla contrattazione integrativa di ambito dirigenziale la fissazione dei criteri per la distribuzione delle risorse, ma ciò al fine di integrarle e distribuirle e non per distogliere le stesse dalla destinazione ai dirigenti che è loro propria;
la Corte d’Appello, su tali basi, osservava però che la fonte del pregiudizio non stava negli accordi di contrattazione decentrata, ma nella legge regionale sulla cui base essi erano stati assunti, risalendo a quest’ultima il trasferimento delle risorse dal fondo dell’area dirigenziale al fondo del comparto;
ciò per concludere che, per un verso, la declaratoria di illegittimità costituzionale senza dubbio avrebbe potuto far venire meno il pregiudizio lamentato ma, per altro verso, che esso non era da ricondurre ad una condotta antisindacale, ma ad un atto politico quale è la legge, in sé sottratto al controllo giurisdizionale; 2.
RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, resistiti da controricorso della Regione Lazio;
è in atti memoria della ricorrente;
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.
il primo motivo di ricorso denuncia error in procedendo ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. per avere la Corte territoriale omesso di pronunciarsi in ordine alla domanda principale di accertamento dell’antisindacalità della condotta posta in essere dalla Regione Lazio;
secondo la ricorrente, la Corte d’Appello, esaminando la vicenda al solo fine di valutare la sussistenza o meno dei presupposti per sollevare la questione di legittimità costituzionale proposta dalla Direr, aveva finito per non statuire sulla domanda di accertamento dell’antisindacalità;
ciò sul presupposto che la domanda fosse fondata sulla denuncia di una duplice condotta consistente, a monte, nell’approvazione delle leggi regionali sulla cui base si era poi svolta la contrattazione collettiva e, a valle, nella stipula dei contratti integrativi di attuazione che avevano realizzato la lesione delle prerogative sindacali;
la Corte d’Appello, secondo la ricorrente, concentrando la propria disamina sulla legge regionale, aveva infatti finito, pur
condividendo sul piano giuridico le rimostranze di Direr, per non apprestare alcuna tutela rispetto al pregiudizio cagionato;
il secondo motivo adduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970 e con esso si sostiene che il comportamento antisindacale sarebbe perseguibile per il solo fatto che esso comporti la lesione delle prerogative sindacali;
per altro verso il motivo sottolinea come si sarebbe dovuto considerare il contesto in cui la condotta è stata tenuta ed in particolare il fatto che la Regione Lazio è datore di lavoro dotato di potestà legislativa ed in ogni caso considerare come, a fronte di una lesione della libertà sindacale riportabile ad un atto legislativo regionale si renderebbe possibile, secondo l’indirizzo della Corte d’Appello, l’aggiramento datoriale dei diritti del sindacato, senza prevedere per essi alcun altro tipo di tutela;
il terzo motivo assume la violazione o falsa applicazione dell’art. 23, co. 3, della leg ge n. 87 del 1953 e ancora dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970 e ciò sul presupposto che la Corte d’Appello avesse erroneamente ritenuta l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale, pur da essa ritenuta apparentemente fondata;
2.
i motivi vanno esaminati congiuntamente, dato lo stresso nesso giuridico che li connette;
3.
il comportamento addebitato alla Regione -come sintetizzato nel primo motivo -è duplice e consiste nell’avere formato una legge che dirottava i fondi stabiliti dal CCNL dall’area dirigenziale al comparto non dirigenziale, in violazione dell’art. 117 Cost., co. 2, lett. l) della Costituzione, di riserva alla legislazione statale della disciplina del c.d. ordinamento civile e nell’avere la Regione dato corso alla contrattazione integrativa necessaria per l’attuazione di quella previsione della legge regionale;
in fatto è accaduto che due leggi regionali succedutesi nel tempo hanno traslato, « previo accordo di contrattazione collettiva decentrata », risorse ‘stabili’ del Fondo per la retribuzione accessoria (posizione e risultato) del personale dirigente, di cui all’art. 26, co. 1, lett. a) del CCNL 23.12.1999 dell’Area II della dirigenza, al Fondo per la produttività del personale (non dirigente) di comparto;
l’art. 1 della L.R. Lazio n. 12 del 2004 ha infatti previsto che « a seguito dell’attuazione dei processi di riorganizzazione finalizzati all’incremento dell’efficacia e dell’efficienza dei servizi e all’ottimizzazione della funzionalità dell’amministrazione regionale mediante la razionalizzazione delle strutture esistenti, a decorrere dall’anno 2014, previo accordo di contrattazione collettiva decentrata con le organizzazioni sindacali rappresentative rispettivamente del personale non dirigenziale del comparto Regioni ed Autonomie Locali e dell’Area II della dirigenza, le risorse stabili del ‘Fondo per la retribuzione di posizione e di risultato della dirigenza’ di cui all’articolo 26, comma 1, lettera a), del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) del 23 dicembre 1999, sono ridotte del 10 per cento con corrispondente incremento delle risorse stabili del ‘Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività del personale non dirigente’ di cui all’articolo 15 del CCNL del 1° aprile 1999, come integrato dall’articolo 4 del CCNL del 5 ottobre 2001 comparto Regioni ed Autonomie Locali »;
è poi seguito, per il 2015 l’art. 7, co. 17, della L. R. Lazio n. 17/2015, di contenuto analogo, per la traslazione, previo accordo decentrato, di una ulteriore quota « a decorrere dagli accordi negoziali relativi al 2015 »;
5.
v a intanto escluso che la Corte d’Appello abbia omesso di pronunciare sull’antisindacalità della condotta della Regione nello stipulare gli accordi decentrati perché essa ha precisato che « la fonte del pregiudizio lamentato dall’organizzazione sindacale non è costituita dagli accordi di contrattazione decentrata, bensì dalle leggi regionali in attuazione delle quali gli accordi sono stati stipulati », perché « è la legge regionale a disporre il trasferimento » di risorse tra i Fondi;
ciò è argomentato accumunando la condotta consistita nell’emanazione della legge regionale di cui si assume l’incostituzionalità con i comportamenti regionali esecutivi di essa, come a dire che il fatto stesso di avere agito per attuare una legge non potesse comportare l’antisindacalità;
quindi -al di là dei più articolati distinguo che sul piano giuridico saranno svolti di seguito -non vi è dubbio che il giudice del merito abbia inteso in tal modo dare risposta alla domanda giudiziale nel suo complesso, sicché non vi è stata violazione alcuna sul piano processuale, anche ex art. 112 c.p.c.;
6.
ciò posto, la disamina deve in effetti muovere dalla fissazione del duplice piano in cui la normativa regionale rileva nel caso di specie, che poi si sviluppa parallelamente ai due profili di responsabilità dedotti da Direr e sintetizzati al punto 3 che precede;
la legge emerge in effetti, da un primo punto di vista, come norma formata dagli organi legislativi regionali, nell’esercizio della corrispondente potestà di natura politica;
la normativa regionale ha poi l’effetto, come previsione di legge, di obbligare la Regione alla sua osservanza, nel momento in cui nell’operare come datore di lavoro l’ente è coinvolto nei rapporti intersoggettivi con i lavoratori e le organizzazioni sindacali;
7.
iniziando dal primo profilo, concernente l’emanazione delle due leggi regionali come ragione di comportamento antisindacale, va detto che l’attività legislativa costituisce esercizio di una potestà, avente natura politica, da parte di organi espressivi della rappresentanza popolare ed è destinata come tale a restare insindacabile in sede giurisdizionale ed a non potersi porre come fonte di responsabilità, neanche quando vi sia pronuncia di incostituzionalità;
in questo senso questa S.C. si è già espressa, quando ha ritenuto che « in virtù dell’insindacabilità dell’attività esplicativa di funzioni legislative, in caso di declaratoria di illegittimità costituzionale di legge regionale, per violazione della potestà legislativa statale, non è ipotizzabile alcun danno risarcibile, a differenza di quanto previsto per la responsabilità dello Stato italiano nell’ipotesi di violazione del diritto dell’Unione europea, non essendo ravvisabile, nella specie, quella distinzione tra ordinamenti – con prevalenza di uno sull’altro – che costituisce il fondamento di tale ipotesi di responsabilità » (Cass. 22 novembre 2016, n. 23730; per analoghi principi, v. Cass. 24 dicembre 2019, n. 34465; Cass. 19 febbraio 2025, n. 4351);
ciò sul presupposto che « a fronte della libertà della funzione politica legislativa (artt. 68, comma 1, 122, comma 4, Cost.), non è ravvisabile un’ingiustizia » (così, ancora, Cass. 23730/2016 cit.) e quindi, per quanto qui rileva, una antisindacalità;
è quindi radicalmente da escludere che la formazione di una norma regionale che anche si ipotizzi essere incostituzionale per violazione dei limiti propri rispetto a quella nazionale (qui, sub specie dell’invasione del campo del c.d. ordinamento civile, di cui all’art. 117, lett. l della Costituzione) possa costituire in sé comportamento perseguibile sul piano dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970; 8.
la Regione, quale soggetto giuridico e nei rapporti che essa instaura con gli altri soggetti dell’ordinamento, è a propria volta in posizione di subalternità -come qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento -rispetto alla legge regionale che sia stata promulgata sulla base delle deliberazioni delle corrispondenti istituzioni rappresentative che in essa operano;
proseguendo nel ragionamento, si deve allora verificare se, nel dare attuazione ad una normativa che si assume incostituzionale ed i cui effetti si sostiene comportino la lesione di situazioni tutelate delle organizzazioni sindacali, si possa imputare alla Regione, quale soggetto giuridico chiamato alla gestione dei rapporti di lavoro con i propri dipendenti e delle relazioni con i sindacati, un comportamento perseguibile da questo punto di vista ai sensi dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970;
8.1
è ius receptum quello secondo cui « per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970) è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro ne’ nel caso di condotte tipizzate perché consistenti nell’illegittimo diniego di prerogative sindacali (quali il diritto di assemblea, il diritto delle rappresentanze sindacali aziendali a locali idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto ai permessi sindacali), ne’ nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicché ciò che il giudice deve accertare è l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l’effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale » (Cass., S.U., 12 giugno 1997, n. 5295);
il citato arresto giunge a ritenere che i provvedimenti di tutela ai sensi dell’art. 28 cit. possano riguardare anche situazioni che « siano anche solo oggettivamente riferibili » al datore di lavoro « se l’effetto sia quello di ledere quei beni tutelati dall’ordinamento » e ciò sul presupposto che la disciplina tenderebbe non tanto a sanzionare il datore di lavoro quanto « a garantire in ogni caso l’inibizione e la repressione di ogni attività lesiva della libertà sindacale » e ciò perché, in specie « quando l’illecito può continuare o ripetersi nel futuro, l’unica reazione efficace è costituita solo dall’azione inibitoria», rispetto alla quale si deve «ritenere che, ai fini della configurabilità di un comportamento antisindacale, sia irrilevante l’elemento psicologico del datore di lavoro »;
il tema rispetto al caso della P.A. datore di lavoro che dia attuazione ad una norma (qui, ipoteticamente) incostituzionale richiede ulteriori precisazioni;
8.2
l’operatività della tutela, anche a fini di inibitoria, in senso oggettivo ed anche a prescindere dalla colpa del datore di lavoro impone di affermare che, a fronte di una lesione dell’attività sindacale che derivi da normativa (in ipotesi) incostituzionale, non sia preclusa alle Organizzazioni Sindacali l’azione ai sensi dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970 al cui interno sollecitare anche la questione di legittimità costituzionale;
si può anzi pensare, anche per ovviare al rischio, insito in quanto si dirà di seguito, che il sistema sia in sé tale da comportare la perdita di attualità della domanda ex art. 28 (di natura sommaria non cautelare) , che debba consentirsi l’eventuale ricorso anche, in una delle fasi del procedimento, alla diversa e più propriamente cautelare tutela ex art. 700 c.p.c., nel cui contesto la questione di legittimità costituzionale potrebbe essere sollevata in una con la concessione provvisoria del provvedimento urgente, nelle forme della c.d. cautela ad tempus (Corte Costituzionale 12 ottobre 1990,
n 444; Corte Costituzionale 23 ottobre 2019 n. 221 e altre conformi);
8.3 il piano si sposta tuttavia a questo punto sul versante delle condizioni necessarie per l’assicurazione della tutela rivendicata, muovendo, come del resto ha fatto la Corte territoriale, dall’ipotesi costituzionale della fondatezza della questione di legittimità prospettata;
8.4 rispetto a quanto accaduto in occasione dell’attuazione di quella normativa regionale, si può osservare quanto segue;
8.4.1
con riferimento alla posizione datoriale, vanno richiamati principi già maturati presso questa S.C., secondo cui va esclusa la responsabilità della P.A.-datore di lavoro rispetto a comportamenti posti in essere in forza di normativa di legge poi dichiarata costituzionalmente illegittima (Cass. 13 novembre 2018, n. 29169; Cass. 7 ottobre 2015, n. 20100; Cass. 9 gennaio 2013, n. 355);
ciò va detto non soltanto sotto il profilo del difetto di colpa, pur valorizzato da quelle pronunce, ma anche sul piano del l’ulteriore osservazione, contenuta in quelle pronunce, per cui la P.A. è « comunque tenuta a conformarsi alla norma di legge fino alla pronuncia di incostituzionalità, ai sensi degli artt. 97 e 136 Cost. » (così Cass. n. 533/2013 cit.);
se infatti la P.A. deve tenere un certo comportamento per il fatto stesso della vigenza di una certa legge, l’antigiuridicità di esso che in ipotesi possa scaturire dalla successiva declaratoria di incostituzionalità non può venire ad essa imputata, per il passato, a titolo di responsabilità , in ipotesi risarcitoria, per l’accaduto;
8.4.2
ma anche considerando la questione, sulla scia di Cass. S.U. 5295/1997, sul piano della rimozione oggettiva degli effetti lesivi
dell’attività sindacale, è inevitabile osserva re che le caratteristiche proprie del rimedio di cui all’art. 28 della leg ge n. 300 del 1970 richiedono, per l’accoglimento della domanda, l’esistenza del requisito dell’attualità, da riferire al concreto pregiudizio all’attività sindacale e non in sé ai diritti dei lavoratori che da essa, in una qualche misura, dipendono;
si tratta di requisito fondante, perché la tutela in esame è finalizzata in via diretta ad assicurare la regolare dinamica delle relazioni sindacali e solo in via mediata ed eventuale a rimuovere gli effetti sostanziali verificatisi;
vale a dire che la rimozione di quegli effetti può aversi, quale conseguenza dell’accoglimento della domanda ex art. 28, ma solo se ricorrano i presupposti di attualità del pregiudizio alle relazioni sindacali che qualificano l’istituto ed il particolare interesse che è presupposto di esso;
si è in proposito recentemente precisato (Cass. 2 febbraio 2025, n. 2479) che « la pretesa di rimuovere dopo anni gli effetti su una molteplicità di rapporti di lavoro che i lavoratori non abbiano mai messo in discussione sarebbe tendenzialmente irrazionale ed alla fine eccedente rispetto al mezzo che l’ordinamento assicura a tutela delle prerogative sindacali », in quanto una tutela che « scompagini assetti consolidati dei rapporti di lavoro risulterebbe … difficilmente giustificabile, visto che l’operato delle organizzazioni sindacali non può che svolgersi su un piano di tendenziale coerenza con l’interesse dei lavoratori e non contro di esso, senza contare la necessità di coordinamento, in ambito di pubblico impiego, anche con i principi di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. », sicché « il trascorrere del tempo, unito al consolidarsi delle modifiche dei rapporti di lavoro realizzate nonostante la violazione delle regole sulla partecipazione del sindacato, non può … essere dato irrilevante »;
ciò è coerente con l’assetto consolidato che ritiene la sussistenza del requisito dell’attualità se il comportamento illegittimo datoriale risulti « tuttora persistente ed idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, tale da determinare una restrizione o un ostacolo al libero svolgimento dell’attività sindacale » (Cass. 22 maggio 2019, in continuità rispetto ad un orientamento costante e risalente, v. Cass. 2 giugno 1998, n. 5422), al punto che si è ritenuta ammissibile, nell’impossibilità di rimuovere certi effetti, anche solo una tutela dichiarativa, se in concreto il difetto di attualità rischi di essere di avallo a comportamenti prevaricatori che si possano ripetere (v, ancora Cass. 2479/2025);
9.
venendo quindi al caso di specie, va intanto detto che, nella vigenza delle norme regionali sopra citate, la Regione, quale datore di lavoro coinvolto nelle relazioni intersindacali, non poteva sottrarsi alla contrattazione oggetto di causa;
la normativa regionale la prevedeva per dare attuazione alla traslazione di risorse dall’Area dirigenziale al Comparto non dirigenziale e non vi è quindi ragione per cui, stante quella normativa, il datore di lavoro potesse non darvi corso o non parteciparvi, se non ponendosi in contrasto con la normativa stessa;
l’assetto di interessi era in sostanza già modulato dalla legge regionale primaria e l’attuazione di esso attraverso la contrattazione non era eludibile, se non ponendosi in contrasto con la norma;
né emergono elementi di irregolarità, sul piano della rappresentatività, degli accordi in tal senso conclusi in quel contesto;
9.1
è poi evidente che quanto regolato sulla base degli accordi del 2014 e 2015 qui in questione risulta ormai consolidato sul piano lavoristico, né sono addotti elementi in contrario;
9.2
tenuto conto di tutto ciò, rispetto alla rimozione degli effetti pregressi manca dunque una tangibile attualità sul piano anche giuridico -e tanto più essa sarebbe destinata a mancare ove il giudizio dovesse proseguire attraverso l’incidente di costituzionalità -che giustifichi la persistenza di un interesse tutelabile ai sensi dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970;
9.3 d’altra parte, dall’insieme della normativa regionale del 2014 e del 2015, emerge che quella traslazione di risorse non poteva che riguardare il 10 % stabilito per il 2014 e l’ulteriore quota del 10 % stabilita per il 2015, sicché qui non vengono in considerazione comportamenti futuri, potenzialmente da inibire; ne deriva che manca anche da questo punto di vista un percepibile interesse che giustifichi la tutela inibitoria;
10.
infine, quanto alla questione sulla non rilevanza della questione di legittimità costituzionale, il ragionamento della Corte d’Appello è pienamente valido per quanto attiene all’antisindacalità per emanazione di legge di cui si assume l’incostituzionalità e la lesività;
se infatti in tal modo si intercettano profili giudizialmente insindacabili, va da sé che la questione di costituzionalità sia priva di influenza nel giudizio a quo , perché la domanda ex art. 28 è in sé ed in assoluto inaccoglibile da questo punto di vista;
quanto ai comportamenti attuativi di una legge di cui si ipotizza l’incostituzionalità, il fatto che la pretesa ex art. 28 sarebbe inaccoglibile sul piano del difetto di attualità, valutato pur dando per ipoteticamente fondata la questione sulla legittimità
costituzionale prospettata, rende la stessa parimenti irrilevante perché appunto la domanda non potrebbe essere comunque accolta.
11. il ricorso, integrata nei termini appena detti la motivazione resa dalla Corte territoriale, va quindi complessivamente rigettato; 12.
l’indubbia peculiarità e novità giuridica della controversia giustifica la compensazione delle spese anche di questo grado di giudizio; 13.
possono anche esprimersi i seguenti principi:
-non può costituire comportamento perseguibile ai sensi dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970, perché afferente ad un atto politico non sindacabile in sede giurisdizionale, l’emanazione di una legge regionale ipoteticamente destinata ad interferire con le attività sindacali e ciò anche nel caso in cui tale legge sia sospettata di illegittimità costituzionale, per avere regolato materia di competenza statale (art. 117, lett. l, Cost. , con riferimento all’ordinamento civile) ;
-per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all’art. 28 dello Statuto dei lavoratori è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali; tuttavia nel valutare l’antisindacalità di un comportamento che si asserisca discendere dall’attuazione di una normativa di cui si sospetta l’illegittimità costituzionale, si deve considerare, ove sia coinvolta, quale datore di lavoro, una Pubblica amministrazione, che quest’ultima non può non conformarsi alla normativa quale vigente ai sensi degli artt. 97 e 136 Cost. e che per l’accoglimento della domanda ai sensi dell’art. 28 deve potersi riconoscere, al momento in cui la pronuncia giudiziale possa intervenire e quindi in esito all’ipotetico
accoglimento della questione di legittimità costituzionale, la persistenza di un interesse sindacale attuale alla rimozione degli effetti pregressi o all’inibitoria di comportamenti futuri.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 16/04/2025.