Sentenza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 6535 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 3 Num. 6535 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 12/03/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 2006/2021 R.G. proposto da: COGNOME NOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
FINO 1 RAGIONE_SOCIALE, domiciliato ex lege in INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
nonchè
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
TABLE
-intimato- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO ROMA n. 5358/2020 depositata il 30/10/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23/01/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
Ritenuto che
1.-NOME COGNOME, in ragione di una fideiussione prestata a favore della società RAGIONE_SOCIALE, è diventato debitore di RAGIONE_SOCIALE. Ha raggiunto tuttavia con quest’ultima un accordo in base al quale si è impegnato a corrispondere alla banca la somma di 85 mila euro, in diverse rate, ad estinzione del debito scaturito dalla fideiussione e poi fatto valere dalla RAGIONE_SOCIALE con decreto ingiuntivo e successiva ipoteca.
Ma nella transazione è stata inserita una clausola con cui le parti hanno previsto che l’accordo avrebbe acquistato efficacia solo all’integrale adempimento delle obbligazioni in esso contenute.
2.-Conclusa la transazione per 85 mila euro, sono seguite trattative volte ad un differimento ulteriore delle scadenze cui il COGNOME si era obbligato, nelle quali la banca si era inizialmente impegnata, salvo
poi a recedervi: RAGIONE_SOCIALE, a seguito di ulteriore proposta del COGNOME, ha ritenuto di non dovervi aderire ed ha minacciato la risoluzione per inadempimento.
3.-Il COGNOME ha dunque agito in giudizio per far accertare che la transazione era ancora efficace. Il Tribunale di Roma, davanti al quale è intervenuta RAGIONE_SOCIALE incaricata della gestione del credito, ha accolto in parte la domanda, poiché ha ravvisato nell’accordo una condizione di adempimento, cui era subordinata la transazione, insita nella previsione che la transazione sarebbe divenuta efficace solo all’integrale adempimento delle obbligazioni in essa previste: secondo il Tribunale questa condizione non è ammissibile, o meglio, non è possibile sospendere l’efficacia del contratto subordinandola alla condizione che il contratto stesso venga eseguito.
Questa sentenza è stata impugnata sia da RAGIONE_SOCIALE, che ha chiesto, per contro, accertarsi l’inadempimento della transazione, sia da RAGIONE_SOCIALE, che ha chiesto il rigetto della domanda inziale del COGNOME: le due impugnazioni sono state riunite, e la Corte di Appello le ha accolte rigettando la domanda iniziale del COGNOME, e dunque ritenendo inadempiuta la transazione, con conseguente perdita di efficacia della medesima.
4.-Ora il COGNOME ricorre avverso tale decisione con due motivi, illustrati da memoria e di cui chiedono il rigetto sia RAGIONE_SOCIALE che RAGIONE_SOCIALE, la quale nel giudizio di appello è intervenuta quale mandante di RAGIONE_SOCIALE, sia con controricorso che con memoria.
Il PG ha chiesto il rigetto del ricorso.
Considerato che
5.- La questione controversa è la seguente: nel contratto di transazione è inserita una clausola la quale si prevede che ‘il presente accordo transattivo diverrà efficace ad avvenuto integrale adempimento delle obbligazioni reciprocamente assunte…’.
Il Giudice di primo grado ha escluso che tale clausola possa intendersi come una condizione di adempimento, non apponibile ad un contratto in quanto estranea allo schema tipico della condizione, ed in quanto postula l’efficacia dell’obbligo di adempiere nello stesso tempo in cui sospende l’efficacia del contratto che lo contiene.
Invece, la Corte di Appello, richiamando una giurisprudenza di questa Corte, che rimette all’autonomia negoziale la possibilità di apporre una condizione di adempimento al contratto, ha ritenuto valida la clausola, dunque validamente condizionato il contratto all’adempimento del COGNOME, ed ha accertato che costui era inadempiente e che dunque, non essendosi realizzata la condizione, la stessa transazione era definitivamente inefficace.
6.- Questa ricostruzione è contestata dal ricorrente con due motivi, che per la loro connessione logica sono da valutarsi insieme.
6.1.- Il primo motivo prospetta violazione degli articoli 1353 e ss. del codice civile.
Il motivo mira a dimostrare che non è apponibile al contratto una condizione di adempimento, o meglio, a ritenere che la condizione di adempimento non è in realtà una vera e propria condizione del contratto.
Essa non avrebbe le caratteristiche necessarie per costituire una condizione, ed in particolare non avrebbe le caratteristiche della estraneità del fatto condizionante e della sua incertezza.
7.- Il secondo motivo denuncia violazione degli articoli 1322 e 1362 c.c.
La tesi è che intendere la clausola come una condizione di adempimento implica trovarsi poi in una contraddizione: il contratto la cui efficacia è sospesa, in attesa della condizione, produrrebbe tuttavia l’obbligo di adempiere. E ciò sarebbe inammissibile.
Come conseguenza, il ricorrente ritiene che quella clausola è niente altro che la volontà di subordinare all’esatto adempimento ‘la sola efficacia dell’essenza stessa della transazione ‘.
6.2.- I motivi sono infondati.
La clausola di cui si è detto sopra opera di certo un condizionamento del contratto all’adempimento delle obbligazioni in esso dedotte, nel senso che l’inadempimento di una sola di esse impedisce al contratto di produrre effetti: il riferimento alla reciprocità (‘le obbligazioni reciprocamente assunte’), come è del tutto evidente, non significa che l’atto diventa definitivamente inefficace (per mancato avveramento della condizione sospensiva) solo quando tutte le obbligazioni siano rimaste inadempiute : interpretazione questa del tutto illogica, oltre che contraria alla lettera della clausola, che indica come reciproche le obbligazioni, non il condizionamento: se l’ efficacia del contratto fosse sospesa all’inadempimento di tutte le obbligazioni assunte, significherebbe che l’inadempimento di alcune sole di esse consentirebbe di far produrre al contratto i suoi effetti: non è dato capire quale sia l’interesse delle parti ad un meccanismo simile, in base al quale non basta che una delle obbligazioni sia inadempiuta perché il contratto possa dirsi definitivamente inefficace, ma bisogna attendere che lo siano tutte. Che ragione vi sarebbe di condizionare allora il contratto se nessuna obbligazione è adempiuta: il contratto non produce effetti per il fatto stesso di essere rimasto totalmente inadempiuto. Che motivo c’è di dire che la sua efficacia è condizionata all’adempimento di tutte le obbligazioni, quando l’ipotesi contraria (nessuna obbligazione è adempiuta) costituisce, di suo, mancata attuazione del contratto stesso.
Dunque, sgombrato il campo da questa interpretazione, occorre ripercorrere la questione della ammissibilità di questo tipo di condizione.
Questa Corte, dopo iniziali pronunce negative, è approdata al riconoscimento della configurabilità della condizione di adempimento, ossia a riconoscere che l’efficacia del contratto può essere subordinata (in modo sospensivo o risolutivo) all’adempimento di una delle parti: ‘in applicazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, la “condizione di adempimento”, sospensiva o risolutiva, si considera non avverata nel momento in cui la mora del soggetto obbligato abbia assunto il carattere di un inadempimento di non scarsa importanza, per la volontà delle parti di ritenere perduta l’utilità economica del contratto con il vano decorso del termine di adempimento, il cui accertamento, da condursi alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell’oggetto del contratto, è riservato al giudice di merito’ . (Cass. 22951/ 2015; Cass. 1759/2011; Cass. 9504/ 2010; Cass. 24299/ 2006, ma anche Cass. 17859/ 2003; Cass. 10074/ 1993).
La condizione di inadempimento risponde, in effetti, ad apprezzabili interessi dei contraenti.
Si ponga il caso in cui il venditore intenda cautelarsi per l’ipotesi in cui il compratore non paghi il prezzo.
E’ vero che egli ha l’azione di risoluzione per inadempimento, ma questa azione lo pone nella seguente condizione: egli deve dimostrare che l’inadempimento non è di scarsa importanza, e potrà sentirsi eccepire dal compratore che l’inadempimento non gli è imputabile. Inoltre, se il compratore ha nel frattempo trasferito il bene a terzi, e costoro hanno acquistato in buona fede, il venditore, con l’azione di risoluzione non potrà recuperare il bene, ma sperare nel solo risarcimento del danno: la risoluzione come è noto ‘non pregiudica i diritti acquisiti dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione ‘(art. 1458, II comma, c.c.).
Il venditore può dunque avere interesse ad una garanzia più ampia di quella offerta dalla risoluzione per inadempimento: interesse questo soddisfatto dall’inserimento nel contratto di una clausola che deduce l’inadempimento quale fatto- in una condizione, e che, di conseguenza, prevede che ove quel fatto non si verifichi (l’adempimento) il contratto è risolto. In tal modo il venditore non deve dimostrare che l’inadempimento è rilevante (di non scarsa importanza) nè può vedersi eccepita la non imputabilità di esso, in quanto l’inadempimento non rileva quale condotta illecita, ma quale mero evento dedotto in condizione, ossia alla stregua dell’evento futuro ed incerto, proprio della condizione tipica.
Ma, va fatta una precisazione poiché Cass. 22951 del 2015 sembra essere di contrario avviso, sembra cioè ritenere che anche nel caso in cui l’inadempimento è dedotto quale ‘mero evento’ in una condizione, esso rilevi solo se di non scarsa importanza, come avviene nel caso di risoluzione. Questa conclusione il citato precedente deduce da altro precedente costituito da Cass n. 11195 del 1994, che tuttavia non riguardava un caso di condizione di adempimento, ma piuttosto il caso della sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. con cui si subordinava il trasferimento di proprietà al pagamento del prezzo: meccanismo che come è evidente non è di condizionamento del contratto ad un evento futuro ed incerto (tra l’altro l’effetto reale non dipende dal contratto, che non è stato stipulato, ma da una sentenza) ma di un presupposto della domanda, la quale, come recita l’articolo 2932 c.c., non può essere accolta se la parte che l’ha proposta non esegue la sua prestazione. Del resto, la regola secondo cui l’inadempimento debba essere di particolare importanza non è assoluta, potendo essere derogata dalle stesse parti, ed è esclusa, significativamente, in caso di clausola risolutiva espressa (Cass. n. 10102/ 1994; Cass. 10815/ 1995; Cass. n. 369/ 2000; Cass. 3102/ 2000; Cass. 9275/ 2005).
In sostanza, con la condizione di adempimento il venditore ottiene il vantaggio, rispetto alla risoluzione, di non dover dimostrare l’importanza dell’adempimento, e di non subire l’eccezione di non imputabilità di esso. Inoltre, può recuperare il bene alienato nel frattempo a terzi, anche se non ha trascritto la domanda, non applicandosi l’articolo 1458 secondo comma, c.c.., e può recuperarlo beneficiando degli effetti retroattivi della condizione.
Né vale obiettare che in tal modo i contraenti annullano un vantaggio che la legge riconosce ai terzi acquirenti, ossia quello di conservare il loro acquisto anche in caso di risoluzione del contratto a danno del loro dante causa. E si aggiunge che le parti non possono disporre se non di interessi propri, mentre, scegliendo di far risolvere il contratto retroattivamente- attraverso la condizione risolutiva di inadempimentodisporrebbero, per l’appunto, dell’interesse dei terzi.
Ora, a questa obiezione è eccessivo replicare che, nel caso di condizione, la retroattività si giustifica (e dunque il sacrifico dell’interesse dei terzi) perché il contratto condizionato risolutivamente è pur sempre un contratto che produce effetti precari, non definitivi, proprio in quanto condizionati e suscettibili di essere risolti; cioè replicare che il terzo acquista il suo diritto da chi lo ha ‘precariamente’ a sua volta acquistato, a differenza invece della vendita non condizionata in cui l’acquisto è immediato e definitivo, ed è successivamente risolto per l’inadempimento di una delle parti.
Siffatta obiezione costituisce in realtà una petizione di principio: essa spiega come il meccanismo opera ma non dice perché è lecito che operi. Ossia: la scelta della condizione risolutiva di adempimento presuppone risolto positivamente il problema del pregiudizio ai terzi. Solo dopo aver dimostrato che è lecito scegliere un meccanismo che pone i terzi in una condizione meno favorevole, si può invero spiegare come e perché questo meccanismo opera.
Dunque, la questione è se mediante la condizione di adempimento l’interesse dei terzi venga a dipendere dalla mera volontà delle parti, che risulterebbero a tale stregua legittimate a disporre a piacimento degli interessi altrui.
La risposta negativa discende dalla circostanza che, quanto ai beni mobili, i terzi sono tutelati dalla regola del possesso vale titolo, e per quelli immobili, dato il requisito di forma cui sono soggetti, deve naturalmente essere reso esplicito che l’acquisto è risolutivamente condizionato all’adempimento, e di tale condizionamento va data altresì pubblicità (art. 2659, secondo comma c.c.). La tutela del terzo è dunque garantita da queste regole e non può ovviamente prescindere dalla diligenza a costui richiesta di verificare il titolo di provenienza del suo acquisto, ed accertarsi se è stato condizionato.
Resta poi una considerazione di fondo: che l’elusione di norme imperative, come anche di norme favorevoli ad un terzo (art. 1344 c.c.), presuppone che l’atto elusivo non abbia altro interesse che quello di sottrarsi al vincolo o di ledere il diritto altrui, nel senso che non può sostenersi l’elusività di atti che rispondono ad interessi apprezzabili delle parti: in tal caso semmai potrà parlarsi di un conflitto tra l’uno e l’altro interesse, ma non già di elusione o di disposizione del diritto altrui.
Medesime considerazioni possono farsi per la condizione di adempimento sospensiva, come è nel caso che ci occupa.
Anche in tale ipotesi il venditore può avere interesse ad evitare l’effetto traslativo immediato, proprio del consenso, rimanendo proprietario del bene fino a che non avrà ricevuto il corrispettivo: in caso contrario, ossia in caso di effetto non condizionato, deve poi agire per la risoluzione del contratto per inadempimento e recuperare il bene, con le difficoltà già segnalate per la condizione risolutiva.
Né vale obiettare che il venditore, almeno di bene immobile, ha a sua garanzia l’ipoteca legale sul bene, perché comunque, in caso di inadempimento, ha l’onere di attivare una procedura per far valere l’ipoteca, mentre la vendita sospensivamente condizionata all’adempimento della controparte gli evita anche questa attività.
Si obietta che, tuttavia, la condizione sospensiva di adempimento configura una condizione meramente potestativa, come tale illecita, poiché il suo avverarsi dipende dalla mera volontà del debitore.
Ma va evidenziato che la condizione (adempiere o meno, e dunque rendere o meno efficace il contratto) non è meramente potestativa in quanto la scelta non è arbitraria, costituendo l’esito dell’apprezzamento di interessi da parte dell’obbligato: costui non decide arbitrariamente se adempiere o meno, ma lo fa valutando gli interessi sottesi all’adempimento e quelli delusi dall’inadempimento. Secondo un principio di diritto di questa Corte ‘ La condizione è “meramente potestativa” quando consiste in un fatto volontario il cui compimento o la cui omissione non dipende da seri o apprezzabili motivi, ma dal mero arbitrio della parte, svincolato da qualsiasi razionale valutazione di opportunità e convenienza, sì da manifestare l’assenza di una seria volontà della parte di ritenersi vincolata dal contratto, mentre si qualifica “potestativa” quando l’evento dedotto in condizione è collegato a valutazioni di interesse e di convenienza e si presenta come alternativa capace di soddisfare anche l’interesse proprio del contraente, soprattutto se la decisione è affidata al concorso di fattori estrinseci, idonei ad influire sulla determinazione della volontà, pur se la relativa valutazione è rimessa all’esclusivo apprezzamento dell’interessato’. (Cass. 11774 / 2007; Cass. 18239/ 2014; Cass. 30143/ 2019).
E dunque la scelta del debitore di adempiere o meno non è meramente potestativa, posto che essa è l’esito (e naturalmente la valutazione segue un modello astratto, non rilevando la condizione
del debitore scellerato o irresponsabile) di una ponderazione di vantaggi e svantaggi.
Oltre a ciò, la condizione di adempimento è altresì ammissibile sul piano dommatico.
Si è in dottrina criticamente sostenuto che la condizione presuppone un evento futuro ed incerto, e tale non può considerarsi l’adempimento, essendovi il debitore obbligato.
Va al riguardo peraltro osservato che sotto il profilo considerato l’adempimento assume invero rilievo come fatto, e non già quale obbligo. E come fatto esso è incerto, atteso che il debitore, pur essendo obbligato ad adempiere, potrebbe per converso decidere di rimanere inadempiente.
Si è in dottrina ulteriormente sostenuto che ove l’efficacia del contratto venga a rimanere subordinata all’adempimento, la stessa insorgenza dell’obbligo di adempiere rimarrebbe preclusa. Più precisamente, si obietta che, nel momento in cui si condiziona l’efficacia del contratto all’adempimento di una delle parti, si postula che quest’ultima sia, per l’appunto, obbligata ad adempiere, il che contraddice il fatto che l’efficacia del contratto è sospesa in attesa dell’adempimento.
Ma tale obiezione non tiene conto del fatto che ad essere condizionata è non già la nascita dell’obbligo bensì il suo adempimento: l’obbligo di adempiere sorge comunque. Inoltre, il contratto è comunque efficace quanto, per l’appunto, all’effetto di condizionamento: non si può dire che, da un lato, si ha un contratto inefficace, in quanto sospensivamente condizionato all’adempimento, e che dall’altro, un tale contratto prevede però l’obbligo di adempiere, con ciò verificandosi una contraddizione.
Non si può dire ciò, in quanto il contratto non è condizionato nel suo momento programmatico, ma in quello esecutivo: ad essere dedotto in condizione è il concreto adempimento di una delle prestazioni già concordate. Dunque, il condizionamento non incide
su ciò che si concorda: l’accordo raggiunto sul contenuto del contratto, e dunque quali siano le obbligazioni delle parti, è un accordo immediatamente efficace, non dipende dalla condizione.
Piuttosto, è il momento esecutivo ad essere soggetto a condizione. Il contratto, perfezionato ed efficace quanto al suo contenuto, è invece soggetto a condizione quanto alla sua esecuzione: non sarà eseguito dalla parte se l’altra non avrà adempiuto e ciò spiega bene come mai possa sorgere un obbligo da un contratto sospensivamente condizionato all’adempimento: l’obbligo sorge in quanto dipende dall’accordo, attiene al momento programmatico, genetico, che non è condizionato; ad esserlo è il momento esecutivo ossia l’adempimento della parte adempiente.
All’infondatezza dei motivi nei suesposti termini consegue il rigetto del ricorso.
Attesa la rilevanza della questione trattata può peraltro disporsi la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
Roma 23.1.2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente