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Condanna art. 96 c.p.c.: niente indennizzo

Un cittadino, dopo aver perso una causa contro un istituto di credito e aver subito una condanna art. 96 c.p.c. per lite temeraria, ha richiesto l’indennizzo per l’eccessiva durata del processo. La Cassazione ha confermato il rigetto della domanda, stabilendo che la condanna per lite temeraria costituisce un abuso del processo che esclude automaticamente il diritto all’indennizzo, senza possibilità di riesame nel merito.

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Pubblicato il 27 ottobre 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Condanna art. 96 c.p.c.: quando la lite temeraria esclude l’indennizzo

La legge prevede un indennizzo per chi subisce un processo dalla durata irragionevole, ma questo diritto non è assoluto. Un’ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce che una condanna art. 96 c.p.c. per lite temeraria nel giudizio originario preclude automaticamente l’accesso a tale risarcimento. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I fatti del caso: un lungo contenzioso e la richiesta di indennizzo

Un cittadino, al termine di un lungo procedimento giudiziario contro un istituto di credito durato tre gradi di giudizio, si è visto respingere le proprie pretese. Non solo: nel corso di quel giudizio, era stato condannato per lite temeraria ai sensi dell’art. 96 del codice di procedura civile, per aver agito con la consapevolezza dell’infondatezza della sua domanda e aver resistito in giudizio con argomentazioni non veritiere.

Successivamente, ritenendo che il processo fosse durato troppo a lungo, lo stesso cittadino ha avviato una nuova causa contro il Ministero della Giustizia per ottenere l’equo indennizzo previsto dalla Legge Pinto (L. 89/2001).

La condanna art. 96 c.p.c. e la decisione della Corte d’Appello

La Corte d’Appello ha rigettato la domanda di indennizzo, basando la sua decisione su due punti principali:
1. L’esistenza della precedente condanna art. 96 c.p.c., che dimostrava un abuso del processo da parte del richiedente.
2. Il fatto che il cittadino avesse tratto un vantaggio economico dalla durata del procedimento, avendo trattenuto per un lungo periodo una somma di denaro versatagli dall’istituto di credito a seguito di una sentenza di secondo grado, poi riformata.

Insoddisfatto, il cittadino ha proposto ricorso in Cassazione.

Le motivazioni della Suprema Corte: l’abuso del processo

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la decisione della Corte d’Appello con motivazioni nette e precise. I giudici hanno chiarito che la legge sull’equo indennizzo (L. 89/2001, art. 2, comma 2-quinquies) elenca specifiche ipotesi di abuso del processo che escludono il diritto al risarcimento. Tra queste, rientra proprio il caso in cui la parte sia stata condannata, nel procedimento presupposto, per lite temeraria ai sensi dell’art. 96 c.p.c.

L’automatismo tra condanna per lite temeraria e perdita dell’indennizzo

Il punto centrale della decisione è l’automatismo di questa esclusione. La Cassazione, richiamando un suo precedente orientamento, ha affermato che la norma sottrae al giudice dell’equo indennizzo ogni possibilità di apprezzare il caso specifico. In presenza di una condanna art. 96 c.p.c., il diritto all’indennizzo è senz’altro escluso.

Ciò significa che il giudice che valuta la richiesta di indennizzo non può e non deve riesaminare la legittimità della condanna per lite temeraria emessa nell’altro giudizio. Quella condanna è un fatto storico che, per ope legis (cioè per diretta previsione di legge), funge da causa ostativa al riconoscimento dell’indennizzo. Essendo questa motivazione sufficiente a respingere la richiesta, la Corte ha ritenuto ‘assorbito’ ogni altro motivo di ricorso, incluso quello relativo al presunto vantaggio economico ottenuto dalla durata del processo.

Le conclusioni: implicazioni pratiche della sentenza

L’ordinanza in esame ribadisce un principio fondamentale: il diritto all’equo indennizzo non spetta a chi ha abusato degli strumenti processuali. La condanna art. 96 c.p.c. non è una semplice sanzione economica, ma un marchio che qualifica la condotta della parte come contraria ai doveri di lealtà e correttezza processuale. Di conseguenza, il legislatore ha stabilito che chi si macchia di tale comportamento non può poi lamentarsi della lentezza di un sistema giudiziario che ha contribuito a congestionare con una lite infondata. Questa decisione serve da monito: agire in giudizio in malafede non solo comporta il rischio di una condanna per danni, ma preclude anche la possibilità di essere risarciti per i ritardi della giustizia.

Una condanna per lite temeraria (art. 96 c.p.c.) impedisce di ottenere l’indennizzo per l’eccessiva durata del processo?
Sì, la Corte di Cassazione ha stabilito che una condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c. esclude automaticamente il diritto all’indennizzo, in quanto integra una delle ipotesi di abuso del processo previste dalla legge (art. 2, comma 2-quinquies, lett. a, L. 89/2001).

Il giudice che decide sulla richiesta di indennizzo può valutare se la condanna per lite temeraria fosse giusta?
No, il provvedimento stabilisce che il giudice dell’equo indennizzo non ha il potere di riesaminare o controllare la legittimità della condanna ex art. 96 c.p.c. pronunciata nel giudizio presupposto. La presenza di tale condanna è un fatto che esclude di per sé il diritto.

Aver ottenuto un vantaggio economico dalla durata del processo influisce sul diritto all’indennizzo?
Sebbene la Corte d’Appello avesse menzionato questo punto, la Cassazione lo ha ritenuto “assorbito”. La ragione decisiva e sufficiente per negare l’indennizzo è stata la preesistente condanna art. 96 c.p.c., rendendo superfluo esaminare l’eventuale vantaggio economico.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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