Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 27207 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 27207 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 11/10/2025
Oggetto
Responsabilità civile generale
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23428/2023 R.G. proposto da NOME
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO, domiciliato digitalmente ex lege ;
-ricorrente –
contro
NOME, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO, domiciliata digitalmente ex lege;
-controricorrente – avverso la sentenza del Tribunale di Vallo della Lucania, n. 343/2023, depositata in data 17 aprile 2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 1° ottobre 2025
dal Consigliere NOME COGNOME.
Rilevato che:
NOME convenne in giudizio, nel 2018, davanti al Giudice di pace di Agropoli AVV_NOTAIO chiedendone la condanna al risarcimento dei danni conseguenti all’aggressione per la quale il predetto, nel procedimento penale seguito alla querela da lei sporta il 4 agosto 2010, era stato riconosciuto, con sentenza passata in giudicato, colpevole del reato p. e p. dall’art. 582 c.p. e condannato anche al risarcimento dei danni da liquidarsi in sede civile;
l’adito giudice, con sentenza n. 108 del 2020, richiamato il menzionato giudicato penale ed affermatane l’ efficacia vincolante nel giudizio civile secondo il disposto dell’art. 651 c.p. p., ritenne sussistente la responsabilità del COGNOME per aver cagionato con la propria condotta all’attrice lesioni personali e turbamento psichico;
osservò infatti che, secondo quanto accertato in sede penale, « il 2/8/10, in Ogliastro Cilento, nel negozio gestito dall’attrice, in seguito alla richiesta di restituzione di una somma data in prestito, è stata aggredita fisicamente dal Sig. COGNOME che l’afferrava per un braccio scaraventandola a terra, tra la porta del negozio ed un espositore di fiori, procurandole lesioni consistite in: contusioni escoriate multiple per il corpo, contusione spalla e braccio sinistro, contusione ginocchio destro, giudicate guaribili in giorni 7 s.c., come da referto medico redatto dal pronto soccorso dell’ospedale di Agropoli »;
esclusa la configurabilità del concorso del fatto colposo della danneggiata, condannò il convenuto al pagamento in favore della COGNOME della somma di euro 2.000,00, a titolo di risarcimento danni, oltre interessi dalla domanda al saldo ed oltre alle spese processuali;
con sentenza n. 343/2023, resa pubblica il 17 aprile 2023, il Tribunale di Vallo della Lucania ha confermato tale decisione rigettando il gravame proposto da NOME COGNOME, con il quale lo stesso si doleva del mancato riconoscimento del concorso del fatto colposo della
danneggiata e della quantificazione del danno;
sotto il primo profilo ha escluso che la condotta della vittima ─ che secondo quanto dedotto dall’appellante si era recata nell’esercizio commerciale da lui gestito in compagnia di altra persona per reclamare il pagamento di un preteso credito in realtà inesistente, come nel frattempo accertato in altro giudizio ─ potesse in alcun modo considerarsi connotata da colpa, « non risultando irrispettosa di precetti legali, di patti contrattuali o di regole di comune prudenza, considerato anche che la reazione di COGNOME NOME fu ‘ assolutamente sproporzionata ‘, così come affermato in sede penale »;
con riferimento poi al secondo profilo di doglianza, ha ritenuto che la liquidazione del danno fosse stata fatta nel corretto esercizio del potere di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., e che congruo fosse l’importo in tal modo determinato di euro 2.000,00, « tenuto con delle sofferenze patite dall’offeso , della gravità dell’illecito penale e di tutti gli elementi peculiari della fattispecie concreta, anche nella considerazione del rapporto intercorso tra le parti »;
avverso tale sentenza NOME COGNOME propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui resiste l’intimata depositando controricorso;
è stata fissata per la trattazione l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ., con decreto del quale è stata data rituale comunicazione alle parti costituite;
non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero;
considerato che:
con il primo motivo il ricorrente denuncia « violazione di legge degli artt. 115, 116 e 1227 c.c. in relazione all’art. 360 terzo e quinto comma c.p.c.; illogicità e carenza di motivazione » (così testualmente in rubrica);
denuncia anzitutto un vizio di carenza motivazionale per essersi il
giudice di secondo grado limitato a riprodurre la decisione confermata, riportandone pedissequamente la trascrizione e dichiarando in termini apodittici e stereotipati di aderirvi, senza dare conto degli specifici motivi di impugnazione;
lamenta inoltre che erroneamente, nel confermare la decisione di condanna, il Tribunale di Vallo della Lucania si sia basato esclusivamente sulla sentenza penale, omettendo di « indagare sui fatti che hanno determinato l’evento lesivo » e soprattutto non tenendo conto « di una precedente sentenza del Giudice di Pace, resa in altro giudizio civile, che aveva ritenuto infondate le pretese restitutorie avanzate dalla COGNOME e che l’avevano indotta a portarsi presso il negozio gestito dall’ex compagno »;
sostiene che l’accertamento, passato in giudicato, della infondatezza del presunto prestito avrebbe fornito la prova certa della istigazione della NOME nei confronti del COGNOME, quantomeno per determinarne un concorso di colpa nella causazione dell’evento lesivo ;
il motivo è manifestamente infondato, quando non inammissibile, con riferimento ad entrambe le censure dedotte al suo interno;
con la prima si intende prospettare un vizio di mancanza (o apparenza) di motivazione, certamente al di fuori dei ristretti casi in cui esso è configurabile;
devesi invero ribadire che, intanto un vizio di motivazione omessa o apparente è configurabile, in quanto, per ragioni redazionali o sintattiche o lessicali (e cioè per ragioni grafiche o legate alla obiettiva incomprensibilità o irriducibile reciproca contraddittorietà delle affermazioni delle quali la motivazione si componga: v. Cass. Sez. U. 07/04/2014, nn. 8053 – 8054), risulti di fatto mancante e non possa dirsi assolto il dovere del giudice di palesare le ragioni della propria decisione;
non può invece un siffatto vizio predicarsi quando, a fronte di una motivazione in sé perfettamente comprensibile, se ne intenda
diversamente prospettare ─ come nella specie ─ un mero disallineamento dalle acquisizioni processuali (di tipo quantitativo o logico: vale a dire l’insufficienza o contraddittorietà della motivazione);
in questo secondo caso, infatti, il sindacato che si richiede alla Corte di cassazione non riguarda la verifica della motivazione in sé, quale fatto processuale considerato nella sua valenza estrinseca di espressione linguistica (significante) e in relazione alla sua idoneità o meno a veicolare un contenuto (significato) chiaro e comprensibile, in adempimento del dovere di motivare imposto al giudice (sindacato certamente consentito alla Corte di cassazione quale giudice anche della legittimità dello svolgimento del processo: cfr. Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077), ma investe proprio il suo contenuto (che si presuppone, dunque, ben compreso) in relazione alla correttezza o adeguatezza della ricognizione della quaestio facti ;
una motivazione in ipotesi erronea sotto tale profilo non esclude, infatti, che il dovere di motivare sia stato adempiuto, ma rende semmai sindacabile il risultato di quell’adempimento nei ristretti limiti in cui un sindacato sulla correttezza della motivazione è consentito, ossia, secondo la vigente disciplina processuale, per il diverso vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ.), salva l’ipotesi dell’errore revocatorio;
la censura che, sotto il profilo dell’omesso esame ex art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., viene contestualmente dedotta, in relazione alla lamentata omessa considerazione della sentenza civile che nel 2016 avrebbe accertato l’infondatezza della pretesa creditoria che, secondo il ricorrente, aveva dato occasione al diverbio poi culminato nell’aggressione, si appalesa poi inammissibile, sotto diversi profili;
una tale censura non può anzitutto trovare ingresso nel presente giudizio per la preclusione che deriva – ai sensi dell’art. 360, quarto
comma, cod. proc. civ. , ripetitivo, peraltro, di quanto già previsto dall’art. 348ter , ultimo comma, cod. proc. civ. – dall’avere il Tribunale deciso in modo conforme alla sentenza di primo grado (c.d. doppia conforme), non avendo il ricorrente assolto l’onere in tal caso su di lui gravante di indicare le ragioni di fatto della decisione di primo grado ed in cosa queste si differenziavano da quelle poste a fondamento della decisione di appello (v. Cass. 28/02/2023, n. 5947; 15/03/2022, n. 8320; 06/08/2019, n. NUMERO_DOCUMENTO; n. 22/12/2016, n. NUMERO_DOCUMENTO);
l’inammissibilità della censura avrebbe comunque dovuto predicarsi poiché inosservante dell’onere di specifica indicazione dell’atto richiamato, imposto a pena di inammissibilità dell’art. 366 n. 6 c.p.c., non avendo il ricorrente indicato se e quando ha offerto in produzione la menzionata sentenza, né dove la stessa sia localizzata nel fascicolo di causa;
il dedotto vizio avrebbe comunque dovuto dirsi anche privo di decisività atteso che: a) il menzionato documento dimostrerebbe soltanto, stando a ciò che del suo contenuto viene riferito, l’infondatezza della pretesa creditoria della COGNOME, ma non anche che quella pretesa fu realmente il motivo che diede origine al diverbio, né dimostra le modalità con cui in quella occasione fu fatta valere; b) non si vede come la pur accertata infondatezza della pretesa creditoria possa mai giustificare, sia pure quale mera concausa, di per sé, una reazione violenta da parte del preteso debitore;
con il secondo motivo il ricorrente denuncia « violazione ed errata applicazione degli art. 112, 113, 114, 115 e 116 c.p.c. e 1226 e 2056 c.c. ed insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360, terzo e quinto comma, c.p.c. ed art. 111 Cost .»
(così testualmente in rubrica);
lamenta che erroneamente il giudice abbia liquidato in euro 2.000,00 il danno in via equitativa, senza che vi fosse una richiesta esplicita in tal senso e in assenza comunque dei relativi presupposti, dal momento che era documentata l’entità del danno (7 giorni di prognosi secondo il referto medico);
denuncia l’assenza di un percorso logico nella determinazione del danno e la mancata applicazione di criteri oggettivi, come le Tabelle del Tribunale di Milano, con la conseguente violazione dei principi di diritto relativi alla liquidazione del danno;
il motivo è infondato;
la sentenza impugnata ha offerto congrua motivazione della operata liquidazione equitativa del danno attraverso il riferimento alle « sofferenze patite », alla « gravità dell’illecito penale », a « tutti gli elementi peculiari della fattispecie concreta », al « rapporto intercorso tra le parti »;
in tal modo ha legittimamente orientato – tanto più che si tratta di una liquidazione in via equitativa relativa ad una vicenda obiettivamente modesta – la propria valutazione principalmente verso la componente morale del pregiudizio sofferto in dipendenza dalla aggressione, svincolata da un mero stretto riferimento a quella dinamico-relazionale, in termini che possono ritenersi giustificati avuto riguardo alle modalità dell’episodio ed alla sua rilevanza penale;
il ricorso deve essere dunque rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute da controparte, liquidate come da dispositivo e da distrarsi in favore del difensore che ne ha fatto richiesta nel controricorso;
va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a
titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1bis dello stesso art. 13;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 1.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge, disponendone la distrazione in favore del procuratore antistatario, AVV_NOTAIO.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 1° ottobre 2025.
Il Presidente NOME COGNOME