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Concorrenza sleale professionisti: la Cassazione decide

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6127/2024, ha respinto il ricorso di uno studio professionale che accusava una ex associata di concorrenza sleale per aver sottratto clienti dopo il suo recesso. La Corte ha confermato che la disciplina sulla concorrenza sleale si applica solo tra imprenditori, e non ai liberi professionisti, a meno che la loro attività non sia organizzata in forma d’impresa, circostanza non provata nel caso di specie. L’accento è stato posto sul rapporto basato sull’ ‘intuitus personae’ che lega il cliente al singolo professionista.

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Concorrenza sleale professionisti: quando non si applica?

La recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 6127/2024 offre un’importante chiarificazione sui confini della concorrenza sleale tra professionisti, ribadendo un principio fondamentale: la normativa, pensata per gli imprenditori, non si estende automaticamente agli studi professionali, a meno che non vi sia una chiara organizzazione d’impresa. Questa decisione analizza il delicato equilibrio tra la libera scelta del cliente e gli obblighi di correttezza di un ex associato.

I Fatti di Causa: Il Recesso dallo Studio Professionale

La vicenda ha origine dalla citazione in giudizio di una commercialista da parte dei suoi ex soci. I titolari di uno studio commerciale associato sostenevano che il recesso della collega fosse avvenuto con modalità illecite, finalizzate a sottrarre una parte significativa della clientela. L’accusa era quella di aver violato l’art. 2598 c.c. sulla concorrenza sleale, mettendo in atto un piano per accaparrarsi i clienti dello studio. Di conseguenza, i ricorrenti chiedevano un cospicuo risarcimento per i danni subiti.

La professionista convenuta si difendeva contestando ogni addebito e, a sua volta, presentava una domanda riconvenzionale per i presunti comportamenti vessatori e scorretti subiti dagli ex soci, volti a screditarla agli occhi dei clienti.

Sia il Tribunale di primo grado che la Corte di Appello respingevano le domande di entrambe le parti. In particolare, i giudici di merito escludevano la configurabilità della concorrenza sleale, rilevando la mancanza del requisito fondamentale: la qualità di imprenditore dei soggetti coinvolti.

La decisione della Corte di Cassazione sulla concorrenza sleale tra professionisti

La Suprema Corte ha dichiarato inammissibili e infondati i motivi del ricorso presentato dallo studio, confermando le decisioni dei gradi precedenti. L’analisi dei giudici si è concentrata su due aspetti principali: la natura dell’attività professionale e le questioni procedurali che hanno reso inammissibili le censure.

La Distinzione tra Attività Professionale e Impresa

Il punto cardine della decisione è la riaffermazione che la disciplina sulla concorrenza sleale presuppone un rapporto competitivo tra due o più imprenditori. La Corte ha osservato che l’attività svolta da uno studio di commercialisti, come quello in esame, rientra tipicamente nell’alveo delle professioni intellettuali.

Questa attività è caratterizzata dall’ intuitus personae, ovvero dal rapporto fiduciario che si instaura tra il cliente e il singolo professionista. Il cliente è libero di scegliere di seguire il professionista in cui ripone maggiore fiducia e stima. Tale rapporto non è assimilabile a quello commerciale, dove la concorrenza si basa su elementi oggettivi come prezzi e criteri qualitativi comparabili. Di conseguenza, il semplice fatto che alcuni clienti decidano di seguire il socio uscente non costituisce, di per sé, un atto di sviamento illecito.

Inammissibilità dei Motivi di Ricorso

La Cassazione ha inoltre rilevato numerosi vizi procedurali nel ricorso. In primo luogo, i ricorrenti hanno introdotto questioni nuove, mai specificamente trattate nei giudizi di merito, violando il principio di autosufficienza del ricorso.

In secondo luogo, le censure relative a una presunta “omessa, travisata e contraddittoria motivazione” sono state respinte in virtù del principio della “doppia conforme” (art. 348-ter c.p.c.). Poiché la Corte d’Appello aveva confermato la sentenza di primo grado sulla base dello stesso iter logico-argomentativo, non era possibile denunciare in Cassazione un vizio di motivazione sui fatti. La Corte ha ribadito che il suo ruolo non è quello di riesaminare il merito della causa o di sostituire la propria valutazione delle prove a quella del giudice di merito, ma solo di controllare la correttezza logico-giuridica della decisione impugnata.

Le Motivazioni della Decisione

Le motivazioni della Cassazione si fondano su una netta distinzione concettuale. L’illecito concorrenziale ex art. 2598 c.c. richiede che entrambi i soggetti in conflitto possiedano la qualifica di imprenditore. Un’associazione professionale, per sua natura, svolge un’attività intellettuale e non commerciale, a meno che non si dimostri che l’organizzazione dei capitali e del lavoro altrui sia prevalente rispetto all’apporto intellettuale dei singoli professionisti. Nel caso specifico, i ricorrenti non hanno fornito prove sufficienti a dimostrare che il loro studio fosse gestito con criteri imprenditoriali.

I giudici hanno inoltre sottolineato che, in assenza di specifiche clausole di non concorrenza nel contratto associativo, la libera scelta degli associati e dei clienti prevale. La Corte ha specificato che, sebbene un comportamento scorretto potesse essere inquadrato nella tutela generale aquiliana (art. 2043 c.c.), nel caso di specie non erano emersi elementi concreti di un’attività di convincimento illecito o denigratoria da parte della professionista receduta. Le prove, anzi, dimostravano che la scelta dei clienti di seguirla era stata libera e cosciente.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

Questa ordinanza consolida un orientamento giurisprudenziale di grande rilevanza per il mondo delle professioni. Le conclusioni che se ne possono trarre sono le seguenti:
1. Non c’è concorrenza sleale senza impresa: Gli studi professionali che intendono tutelarsi contro l’uscita di un associato che porta con sé la clientela non possono, di norma, invocare la disciplina sulla concorrenza sleale. Devono invece dimostrare che la propria struttura ha caratteristiche imprenditoriali.
2. Importanza dei patti di non concorrenza: Per prevenire future controversie, è fondamentale inserire negli atti costitutivi o negli statuti delle associazioni professionali specifiche clausole che regolamentino il recesso e prevedano eventuali patti di non concorrenza (nei limiti consentiti dalla legge).
3. Onere della prova: Chi lamenta un danno deve provarne rigorosamente i presupposti. Non è sufficiente allegare una perdita di clientela, ma occorre dimostrare condotte illecite specifiche, come la denigrazione o l’uso di informazioni riservate, che esulino dalla semplice e legittima scelta fiduciaria del cliente.

Un professionista che lascia uno studio associato e porta con sé dei clienti compie sempre concorrenza sleale?
No. Secondo la sentenza, questo non configura automaticamente concorrenza sleale. La disciplina specifica (art. 2598 c.c.) si applica solo tra imprenditori. Per i professionisti, prevale la libertà del cliente di scegliere il professionista di fiducia, a meno che non vengano provate specifiche condotte illecite (es. denigrazione) o l’attività dello studio non sia organizzata in forma d’impresa.

Perché la Corte ha ritenuto non applicabile l’art. 2598 c.c. al caso di specie?
La Corte lo ha ritenuto non applicabile perché la norma presuppone che i soggetti in conflitto abbiano la qualità di imprenditori. Nel caso esaminato, si trattava di uno studio di commercialisti, la cui attività è di natura intellettuale e basata sul rapporto fiduciario personale con il cliente (intuitus personae), e non è stata fornita la prova che lo studio operasse con una organizzazione di tipo imprenditoriale.

Cosa si intende per “doppia conforme” e quale effetto ha sul ricorso in Cassazione?
Si ha “doppia conforme” quando la sentenza di appello conferma integralmente la decisione del tribunale di primo grado, basandosi sul medesimo percorso logico-argomentativo riguardo ai fatti. L’effetto principale, ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., è precludere la possibilità di impugnare la sentenza d’appello in Cassazione per il vizio di omesso esame di un fatto decisivo (art. 360, n. 5, c.p.c.), limitando di fatto i motivi di ricorso.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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