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Concorrenza sleale del dipendente: la Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un ex dipendente di una società di vigilanza, confermando la sua condanna al risarcimento dei danni per concorrenza sleale. Il lavoratore, tramite una società di comodo, aveva ottenuto un subappalto dalla propria datrice di lavoro a prezzi gonfiati, violando il dovere di fedeltà. La Corte ha ritenuto provata la condotta illecita e ha confermato le sentenze dei gradi precedenti, sottolineando l’inviolabilità del principio di lealtà nel rapporto di lavoro.

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Concorrenza sleale del dipendente: quando scatta il risarcimento?

Il dovere di fedeltà è uno dei pilastri su cui si fonda il rapporto di lavoro. Ma cosa succede quando un dipendente lo viola, arrivando a danneggiare economicamente l’azienda per cui lavora? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione affronta un caso emblematico di concorrenza sleale del dipendente, confermando la sua condanna a un cospicuo risarcimento danni. Questa decisione ribadisce la serietà con cui l’ordinamento giuridico tratta la lealtà professionale e le conseguenze di una sua violazione.

I Fatti di Causa

La vicenda ha origine dalla richiesta di pagamento del TFR da parte di un ex dipendente di una società di servizi di sicurezza. La società, tuttavia, non solo si opponeva alla richiesta, ma presentava una domanda riconvenzionale, accusando il lavoratore di averla gravemente danneggiata.

Secondo la ricostruzione, confermata nei primi due gradi di giudizio, il dipendente, insieme ad altri complici, aveva costituito una società di comodo. Attraverso questa entità, aveva fatto in modo che un importante servizio di vigilanza, appaltato alla sua datrice di lavoro, venisse subappaltato proprio alla società di comodo a un prezzo orario notevolmente superiore a quello di mercato e a quello che la stessa società datrice avrebbe applicato. La differenza di prezzo, gonfiata ad arte, garantiva un lauto profitto illecito al dipendente e ai suoi soci, a diretto discapito dell’azienda per cui lavorava. A seguito di questi fatti, il lavoratore era stato licenziato e la legittimità del licenziamento era già stata confermata in un separato giudizio fino in Cassazione.

La Tesi Difensiva del Lavoratore e il ricorso in Cassazione

Di fronte alla condanna al risarcimento di oltre 200.000 euro, il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione, basandolo su sette motivi. Tra questi, sosteneva che la conclusione del contratto di subappalto non fosse avvenuta all’insaputa della società, ma con l’avallo di un suo responsabile. Contestava inoltre l’entità del danno e le modalità con cui era stata calcolata, nonché la condanna alla restituzione di retribuzioni percepite mentre, in orario di lavoro, svolgeva attività per la società concorrente.

L’Analisi della Corte e la Concorrenza Sleale del Dipendente

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la decisione della Corte d’Appello. Gli Ermellini hanno innanzitutto sottolineato l’inammissibilità di molte censure del ricorrente a causa del principio di “doppia conforme”. Poiché sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano concordato sulla ricostruzione dei fatti, non era possibile in sede di legittimità riesaminare il merito della vicenda, come ad esempio il presunto coinvolgimento del responsabile della società.

Violazione del Dovere di Fedeltà e Calcolo del Danno

La Corte ha ribadito che la condotta del lavoratore costituiva una palese violazione dell’obbligo di fedeltà sancito dall’art. 2105 c.c. L’aver agito in concorrenza con il proprio datore di lavoro, per di più sfruttando la propria posizione per sottrarre risorse economiche, integra pienamente la fattispecie di concorrenza sleale del dipendente.

Anche le critiche relative al calcolo del danno sono state respinte. La Corte ha ritenuto corretto il metodo utilizzato dai giudici di merito, basato sulla differenza tra il corrispettivo orario pagato alla società di comodo e quello che sarebbe stato congruo. La prova del danno era stata fornita, e la sua quantificazione era immune da vizi logici o giuridici. Allo stesso modo, è stata confermata la condanna alla restituzione delle retribuzioni percepite indebitamente, poiché il dipendente, durante l’orario di lavoro, prestava attività per la società concorrente, venendo meno alla sua controprestazione lavorativa.

le motivazioni

La Cassazione ha esaminato e rigettato punto per punto i motivi del ricorso. In primo luogo, ha chiarito che le questioni relative al coinvolgimento di un altro dirigente aziendale erano questioni di fatto, già valutate e escluse dai giudici di merito e precluse in sede di legittimità per la regola della “doppia conforme”.
Sul terzo motivo, riguardante la prova del danno, la Corte ha specificato che una violazione dell’art. 2697 c.c. (onere della prova) si verifica solo se una causa viene decisa in assenza di prove, applicando la regola di giudizio, non quando il giudice valuta le prove acquisite, come avvenuto nel caso di specie.
Anche i motivi relativi alla violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (principio di disponibilità delle prove e valutazione delle prove) sono stati giudicati inammissibili, poiché miravano a una rivalutazione del materiale istruttorio, non consentita in Cassazione.
La Corte ha inoltre ritenuto infondata la censura sulla compensazione tra il TFR dovuto al lavoratore e il credito risarcitorio dell’azienda. Si è trattato, secondo i giudici, di una “compensazione impropria”, ammissibile poiché entrambi i crediti e debiti traevano origine dal medesimo rapporto di lavoro.
Infine, è stato disatteso il motivo sulla mancata pronuncia in merito alla condanna solidale, poiché la Corte d’Appello aveva implicitamente ma correttamente confermato la responsabilità integrale del ricorrente in base alle regole generali sulla responsabilità solidale (artt. 1294 e 2055 c.c.).

le conclusioni

L’ordinanza della Suprema Corte si chiude con il rigetto totale del ricorso e la condanna del lavoratore al pagamento delle spese processuali e di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato. La decisione riafferma con forza un principio fondamentale del diritto del lavoro: il dovere di fedeltà non è un mero orpello contrattuale, ma un obbligo giuridico cogente la cui violazione può comportare conseguenze patrimoniali molto gravi per il dipendente. L’aver agito in modo sistematico per danneggiare il proprio datore di lavoro, creando una struttura societaria apposita per sottrarre profitti, rappresenta un comportamento di gravità tale da giustificare non solo il licenziamento, ma anche una condanna a risarcire integralmente il danno cagionato.

Un dipendente può essere condannato a risarcire il proprio datore di lavoro per concorrenza sleale?
Sì. Come confermato in questa ordinanza, un dipendente che viola il dovere di fedeltà e svolge attività in concorrenza con il proprio datore di lavoro, causandogli un danno economico, può essere condannato a risarcire integralmente tale danno.

Cosa significa il principio della “doppia conforme” in un processo?
Significa che se il Tribunale e la Corte d’Appello giungono alla medesima conclusione sulla ricostruzione dei fatti, è preclusa la possibilità di contestare nuovamente tali fatti davanti alla Corte di Cassazione, la quale può decidere solo su questioni di diritto.

Il datore di lavoro può trattenere il TFR per compensare i danni causati dal dipendente?
Sì, in casi come questo è stato ritenuto possibile. La Corte ha qualificato l’operazione come “compensazione impropria”, ammissibile perché sia il debito del datore per il TFR sia il credito per il risarcimento del danno nascono dallo stesso rapporto di lavoro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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