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Concordato in continuità: i flussi finanziari futuri

Una società in concordato in continuità sosteneva di poter utilizzare liberamente i profitti futuri derivanti dalla prosecuzione dell’attività, trattandoli come finanza esterna. Un creditore si è opposto e la Corte d’Appello ha revocato l’omologa del piano. La Corte di Cassazione, pur dichiarando cessata la materia del contendere per eventi sopravvenuti, ha esaminato il caso ai fini delle spese legali. Ha stabilito il principio che i flussi finanziari futuri non sono finanza esterna, ma un incremento del patrimonio aziendale soggetto alla garanzia generica dei creditori. Pertanto, devono rispettare l’ordine delle cause di prelazione e non possono essere distribuiti liberamente.

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Concordato in continuità: i flussi finanziari futuri non sono finanza esterna

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha affrontato un tema cruciale per le imprese in crisi: la gestione dei profitti futuri nel concordato in continuità. La questione centrale era se i flussi di cassa generati dalla prosecuzione dell’attività aziendale potessero essere considerati “finanza esterna” e, quindi, distribuiti ai creditori senza rispettare il rigido ordine di priorità previsto dalla legge. La Corte ha dato una risposta chiara, rafforzando la tutela dei creditori privilegiati.

I Fatti di Causa

Una società operante nel settore agro-alimentare aveva presentato una proposta di concordato preventivo in continuità aziendale. Il piano prevedeva di soddisfare parzialmente alcuni creditori chirografari (cioè senza cause di prelazione) utilizzando i flussi finanziari che sarebbero stati generati dalla futura gestione dell’impresa.

Tuttavia, un ente pubblico, creditore munito di privilegio generale, si opponeva a tale piano. Secondo l’ente, l’attivo della società era insufficiente a coprire integralmente i crediti privilegiati, e quindi i flussi futuri non potevano essere destinati ai creditori chirografari in violazione delle regole sulla prelazione.

La Corte d’Appello accoglieva il reclamo dell’ente, revocando l’omologazione del concordato. I giudici di secondo grado stabilivano che le risorse generate dall’esercizio dell’impresa sono “finanza autoprodotta” e fanno parte del patrimonio della società, dovendo quindi rispettare l’ordine di pagamento dei creditori. La società proponeva quindi ricorso in Cassazione.

La questione giuridica nel concordato in continuità

Il cuore della controversia risiedeva nella qualificazione giuridica del surplus finanziario derivante dalla prosecuzione dell’attività. La società ricorrente sosteneva che tali risorse, essendo future e non esistenti al momento della presentazione della domanda, dovessero essere considerate alla stregua della finanza esterna. Come tali, non sarebbero state vincolate al rispetto delle cause legittime di prelazione, potendo essere allocate liberamente dal debitore secondo quanto previsto dal piano.

Di contro, i creditori resistenti e la Corte d’Appello ritenevano che qualsiasi risorsa generata dall’attività d’impresa, presente o futura, rientrasse nella garanzia patrimoniale generica del debitore e dovesse sottostare alle rigide regole concorsuali.

La Decisione della Corte di Cassazione e le motivazioni

La Corte di Cassazione, prima di entrare nel merito, ha dichiarato la “cessazione della materia del contendere”. Questo perché, nelle more del giudizio, il concordato era stato risolto con una sentenza passata in giudicato, facendo venir meno l’interesse a una decisione sull’originaria omologa.

Tuttavia, ai fini della regolamentazione delle spese processuali, la Corte ha proceduto a una valutazione di “soccombenza virtuale”, analizzando la fondatezza del ricorso. L’esito di questa analisi è stato negativo per la società ricorrente.

le motivazioni

La Corte ha rigettato la tesi della “finanza esterna” sulla base di un solido principio giuridico, già affermato in precedenti pronunce. Il surplus finanziario generato dalla continuità aziendale non è un apporto esterno, ma un “mero incremento di valore dei fattori produttivi aziendali”.

In altre parole, i profitti futuri sono considerati “beni futuri” che, ai sensi dell’art. 2740 del Codice Civile, rientrano a pieno titolo nell’oggetto della garanzia generica del credito. Di conseguenza, non possono essere liberamente distribuiti dal debitore, ma soggiacciono al divieto di alterazione delle cause legittime di prelazione. I flussi finanziari generati dalla continuità aziendale, essendo funzionalmente collegati al patrimonio del debitore, non possono essere assimilati agli apporti di un terzo finanziatore, che sono gli unici a poter essere considerati “neutri” rispetto all’assetto patrimoniale preesistente.

le conclusioni

La decisione della Cassazione consolida un orientamento fondamentale per la gestione delle crisi d’impresa. Stabilisce con chiarezza che nel concordato in continuità, la priorità assoluta rimane la tutela dei creditori secondo l’ordine di prelazione stabilito dalla legge. L’obiettivo di salvaguardare la continuità aziendale non può avvenire a discapito dei diritti dei creditori privilegiati. Questa pronuncia offre quindi un importante punto di riferimento, limitando la discrezionalità del debitore nella redazione del piano e garantendo maggiore certezza e prevedibilità per tutti i soggetti coinvolti nella procedura.

I profitti futuri generati da un’azienda in concordato in continuità possono essere usati liberamente per pagare i creditori?
No. Secondo la Corte di Cassazione, i profitti e i flussi finanziari futuri generati dalla continuità aziendale sono parte integrante del patrimonio del debitore. Pertanto, devono essere utilizzati per soddisfare i creditori rispettando rigorosamente l’ordine delle cause legittime di prelazione (privilegi, pegni, ipoteche).

Cosa si intende per “finanza esterna” in un concordato preventivo?
Per finanza esterna si intendono le nuove risorse finanziarie apportate da soggetti terzi (non dal debitore stesso attraverso la sua attività) per supportare il piano di concordato. Queste risorse, essendo esterne al patrimonio originario del debitore, possono talvolta essere distribuite secondo regole diverse da quelle previste per l’attivo aziendale.

Perché la Corte ha deciso il caso nel merito anche se la disputa era formalmente conclusa?
La Corte ha applicato il principio della “soccombenza virtuale”. Poiché il giudizio si è concluso per una ragione procedurale (cessazione della materia del contendere), il giudice deve comunque valutare chi avrebbe avuto ragione nel merito per decidere a chi addebitare le spese legali del processo. In questo caso, la Corte ha ritenuto che la società ricorrente avrebbe perso la causa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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