Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 12156 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 12156 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14242/2022 R.G. proposto da :
COGNOME NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio digitale come da pec Registri giustizia
-ricorrente-
contro
PRESIDENZA DELLA REGIONE SICILIANA -DIPARTIMENTO REGIONALE DELLA PROTEZIONE CIVILE, in persona del Presidente pro tempore e ASSESSORATO REGIONALE DELLE AUTONOMIE LOCALI E DELLA FUNZIONE PUBBLICA DELLA REGIONE SICILIANA -DIPARTIMENTO REGIONALE DELLA FUNZIONE PUBBLICA E DEL PERSONALE, in persona del legale rappresentante pro tempore -resistenti con mandato-
avverso la sentenza n. 702/ 2021 della Corte d’Appello di Catania, pubblicata in data 07/12/2021, N.R.G. 1159/2019; udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 aprile 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
FATTO
La Corte di Appello di Catania ha rigettato il gravame proposto da NOME COGNOME COGNOME (dipendente della Regione siciliana -Dipartimento Protezione Civile, con decorrenza dal 12.3.1999 in forza di contratti a tempo determinato di durata triennale e di volta in volta prorogati) avverso la sentenza del Tribunale della stessa città, che aveva respinto le domande proposte dal medesimo, volte al riconoscimento del diritto ‘alla giusta progressione economica orizzontale’ con l’attribuzione della categoria C6 per il periodo dal 1.3.2005 al 31.12.2007 e della categoria C7 a far tempo dal 1.1.2008.
La Corte territoriale non ha condiviso l’interpretazione offerta dall’ARAN, secondo cui l’art. 109 del CCRL 2002/2005 sarebbe destinato ai soli dipendenti della Regione a tempo indeterminato ed ha evidenziato che per il personale a tempo determinato non era stato costituito un fondo FAMP, ma si era stabilito di provvedere annualmente ad impegnare le somme necessarie ad erogare il salario accessorio in favore, peraltro, del personale impegnato dalla Regione in progetti di unità collettiva ed assunto con contratti di durata quinquennale e la cui retribuzione sarebbe stata regolata, per la prima volta, dai CCRL del personale regionale; l’art. 7 del CCRL 2006-2009 aveva quindi stabilito di istituire un fondo a parte per tale personale, donde l’esigenza di effettuare separati stanziamenti per remunerare il salario accessorio di detto personale.
3. Il giudice di appello ha tuttavia rilevato che il Napoli aveva chiesto ed ottenuto un decreto ingiuntivo, poi opposto, avente ad oggetto le differenze retributive maturate nel periodo da luglio 2002 a giugno 2007 tra la posizione economica C1, nella quale era inquadrato, e la posizione economica C6, che riteneva spettante in virtù del decreto presidenziale regionale n. 9/2001; ha altresì evidenziato che il Napoli, con giudizio proposto innanzi alla Sezione Lavoro del Tribunale di Catania, aveva chiesto la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato con inquadramento in fascia C6 e che tale domanda era stata rigettata con sentenza del 30.7.2007, poi appellata.
Tutto il contenzioso era stato oggetto di una conciliazione giudiziale sottoscritta dalle parti in data 1.6.2010, con la quale il COGNOME aveva accettato l’adeguamento alla posizione economica C5 con decorrenza dal 1.1.2003 rinunciando al decreto ingiuntivo e al diritto oggetto dell’altro procedimento, all’epoca pendente innanzi alla Corte di Appello di Catania.
In ragione di ciò la difesa erariale con le note del 3.5.2021 aveva eccepito l’inammissibilità della domanda per effetto della suddetta rinuncia e che tale eccezione è rilevabile d’ufficio anche nel giudizio di appello ed ha ritenuto che l’inquadramento del Napoli nella categoria C5 non potesse più essere messo in discussione, quanto meno fino alla data della sottoscrizione della conciliazione. La Corte d’Appello ha accolto l’eccezione, atteso che la conciliazione giudiziale ha comportato che l’inquadramento nella categoria C5 non poteva più essere messo in discussione, quanto meno fino alla data della sottoscrizione della conciliazione (1° giugno 2010), e che la questione dell’applicazione parziale dell’art. 109 del CCRL (posto
a fondamento della domanda introdotta con ricorso dinanzi al Tribunale di Catania nel 2014 per cui è causa, come si legge a pag. 2, par. I, del ricorso) era già nota e deducibile nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo.
Considerato che il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile è estensibile alla conciliazione e che il ricorso per decreto ingiuntivo era stato proposto nel 2007 (dopo la pubblicazione sulla GURS n. 28 del 1.7.2005 della circolare n. 3 del 16.6.2005, nella quale si dava espressamente atto dell’applicabilità dell’art. 109 solo ai dipendenti dell’Amministrazione regionale, e dunque del mancato riconoscimento del diritto azionato), ha ritenuto irrilevante la circostanza che nei giudizi definiti con la conciliazione giudiziale non era stata invocata l’applicazione dell’art. 109 del CCRL 2002/2005.
In ordine al periodo dal 1.1.2008, per il quale era stata rivendicata l’attribuzione della categoria C7 (sul presupposto che a fronte della sussistenza del diritto all’inquadramento nella categoria C6 per il periodo precedente l’esito della procedura selettiva espletata nel 2009 avrebbe avuto tale risultato), ha ritenuto l’insussistenza del presupposto in capo al Napoli, per concorrere ed ottenere la progressione economica per la categoria C7; ha infatti osservato che al momento in cui la procedura è stata indetta ed espletata e fino al 1° giugno 2010 l’inquadramento dovuto era il C5 in forza della suddetta conciliazione giudiziale.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di un unico motivo.
La Presidenza della Regione Siciliana -Dipartimento Regionale della Protezione Civile e l’Assessorato Regionale delle
Autonomie Locali e della Funzione Pubblica della Regione Siciliana -Dipartimento Regionale della Funzione Pubblica hanno presentato un mero atto di costituzione ai fini dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.
DIRITTO
Con l’unico motivo, il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto che la domanda proposta fosse coperta dal giudicato implicito formatosi sul verbale di conciliazione giudiziale sottoscritto in data 1.6.2010.
Evidenzia che la causa davanti al giudice del lavoro di Catania era stata proposta nel 2004, quando l’art. 109 del CCRL 2002 -2005 non era ancora entrato in vigore e che la conciliazione si era innestata in un procedimento bifasico (uno di merito, definito con sentenza di rigetto appellata davanti alla Corte di Appello di Catania e uno monitorio con cui era stato rivendicato lo stesso bene della vita non riconosciuto dal giudice di merito di primo grado), il cui petitum era costituito esclusivamente dall’applicazione dell’Accordo sulla riclassificazione del personale regionale, approvato con D.P. Reg. n. 9/2001, ed in particolare della tabella di equiparazione che aveva equiparato la categoria C-fascia economica 5 (erroneamente rivendicata come fascia economica 6), al sesto livello posseduto dal Napoli, non essendo ancora entrato in vigore l’art. 109 del CCRL 2002 -2005.
Deduce che il giudicato formatosi sulla conciliazione giudiziale del 1.6.2010 e sulle vicende transattivamente definite con la medesima non ha costituito antecedente logico necessario della
domanda proposta nel presente giudizio, (diversa dalla domanda proposta nei giudizi transatti sia quanto al petitum che alla causa petendi ), in quanto avente ad oggetto la progressione economica prevista dall’art. 109 del CCRL 2002 -2005.
Il motivo è inammissibile, in quanto il ricorrente, prospettando la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909, cod. civ., non censura adeguatamente la ratio decidendi della sentenza di appello che si incentra sull’oggetto e sugli effetti della conciliazione giudiziale, di cui la Corte d’Appello ha accertato il carattere transattivo richiamando la giurisprudenza in materia (punto 2 dei Motivi della decisione), già intervenuta tra le parti, che copre sì il dedotto e il deducibile, ma trova fondamento contrattuale nella volontà delle parti in esito ad uno specifico procedimento, a differenza del giudicato.
Ed infatti, questa Corte (Cass. 23482 del 2017, n. 690 del 2005) ha chiarito che l’oggetto del negozio transattivo, che si rinviene anche nella conciliazione giudiziale che pone fine alla lite, va identificato non in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, non essendo necessaria una puntuale specificazione delle contrapposte pretese, bensì in relazione all’oggettiva situazione di contrasto che le parti stesse hanno inteso comporre attraverso reciproche concessioni, giacché la transazione – quale strumento negoziale di prevenzione/definizione di una lite – è destinata, analogamente alla sentenza, a coprire il dedotto ed il deducibile.
La conciliazione giudiziale prevista dagli artt. 185 e 420, cod. proc. civ., è una convenzione non assimilabile ad un negozio di diritto privato puro e semplice, caratterizzandosi, strutturalmente, per il necessario intervento del giudice e per le formalità previste dall’art. 88, disp. att., cod. proc. civ. e, funzionalmente, da un lato per
l’effetto processuale di chiusura del giudizio nel quale interviene, dall’altro per gli effetti sostanziali derivanti dal negozio giuridico contestualmente stipulato dalle parti, che può avere anche ad oggetto diritti indisponibili del lavoratore (Cass., n. 8898/2024, n. 25472/2017).
Ciò evidenzia che la conciliazione giudiziale è frutto dell’incontro della volontà delle parti, e il relativo verbale, ancorché redatto con l’intervento del giudice a definizione di una controversia pendente, è ad ogni effetto un atto negoziale, la cui interpretazione si risolve in un accertamento di fatto di esclusiva spettanza del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità, ove sia sorretto da motivazione scevra da vizi logici e da errori giuridici: infatti, l’intervento del giudice nel tentativo di conciliazione non altera, ove il medesimo riesca, la natura consensuale dell’atto di composizione che le parti volontariamente concludono.
Pertanto, per quanto qui rileva, come per ogni contratto ed anche ai fini dell’individuazione del contenuto o dell’oggetto dell’obbligo in esso assunto, la contestazione dell’interpretazione del verbale di conciliazione giudiziale va svolta alla stregua degli articoli 1362, ss., cod. civ., estendendosi al verbale di conciliazione giudiziale gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in tema di ermeneutica contrattuale (Cass., n. 4564/2014, n. 10981/2020).
E’ consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’orientamento secondo cui l’esegesi del contratto, dell’atto unilaterale ed anche del provvedimento amministrativo è riservata all’esclusiva competenza del giudice del merito (cfr. fra le tante Cass. n. 17067/2007; Cass. n. 11756/2006), perché la ricerca della volontà delle parti o del dichiarante si sostanzia in un accertamento di fatto (Cass. n. 9070 del 2013; Cass. n. 12360 del 2014).
Se ne è tratta la conseguenza che le valutazioni espresse al riguardo soggiacciono, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato limitato alla verifica della sussistenza di una interpretazione condotta nel rispetto dei criteri di logica ermeneutica e di corretto apprezzamento delle risultanze di fatto (ex plurimis, Cass. n. 21576/2019; Cass. n. 20634/2018).
Si è inoltre precisato che la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica esige una specifica indicazione in iure, ossia la precisazione delle ragioni giuridiche, non fattuali, per le quali deve essere ravvisata l’anzidetta violazione, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione di un’interpretazione diversa da quella criticata (cfr. Cass. nn. 946/2021 e Cass. n. 995/2021 nonché Cass. n. 28319/2017).
Disattendendo tali principi, il ricorso censura impropriamente come violazione della disciplina del giudicato, l’interpretazione della conciliazione giudiziale effettuata dalla Corte territoriale, che con motivazione rispettosa dei criteri ermeneutici e della giurisprudenza di questa Corte in materia, ha ritenuto che la stessa, in ragione dell’accordo negoziale intercorso tra le parti, estende i suoi effetti alla vicenda per cui è causa, ravvisando, quale mero argomento ad abundantiam che non concorre a definire la ratio decidendi della sentenza di appello -trattandosi di una argomentazione ultronea, che non ha lo scopo di sorreggere la decisione già basata su altre decisive ragioni e che è quindi è improduttiva di effetti giuridici e, come tale, non è suscettibile di gravame, né di censura in sede di legittimità (Cass. 11 giugno 2004, n. 11160; Cass. 22 novembre 2010, n. 23635; Cass. 10 dicembre 2019, n. 32257) – una similitudine con il giudicato ex art. 2909, cod. civ., con conseguente inammissibilità del motivo.
Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, senza attribuzione delle spese, in quanto gli intimati non hanno svolto alcuna attività difensiva.
Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art.13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, dell’obbligo, per parte ricorrente, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso; nulla spese; dà atto della sussistenza dell’obbligo per parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro