Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 19925 Anno 2025
INPS;
Civile Ord. Sez. L Num. 19925 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 17/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 22650/2022 proposto da:
NOME COGNOME rappresentata e difesa da ll’ Avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, presso l’Avv. NOME COGNOME , in INDIRIZZO;
-ricorrente –
contro
Università del Salento, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa da ll’Avvocatura generale dello Stato e domiciliata per legge presso di essa in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente-
nonché
-intimato-
avverso la SENTENZA della Corte d’appello di Lecce n. 252/2022 pubblicata il 25 marzo 2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 7 maggio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
NOME COGNOME, già lettrice di lingua madre inglese presso l’Università di Lecce, poi del Salento, con ricorso depositato il 18 giugno 2008, atteso il riconoscimento giudiziale, con sentenza del Pretore di Lecce n. 5249/95, dell’unicità e continuità del proprio rapporto di lavoro sin dalla prima assunzione, il 3 marzo 1986, con la qualifica di lettore universitario ex d.P.R. n. 382 del 1980, ha chiesto di accertare il diritto al l’adeguamento della sua retribuzione secondo l’inquadramento economico del r icercatore e assistente universitario a tempo pieno o a tempo determinato, dall’inizio del rapporto in poi, in via alternativa la spettanza della giusta retribuzione commisurata a quella del ricercatore confermato, in via subordinata ex art. 36 Cost., in ogni caso con condanna dell’Università a pagare gli aumenti stipendiali previsti dal CCNL di categoria e le differenze retributive, con regolarizzazione contributiva, o il risarcimento del danno da omessa contribuzione.
Il Tribunale di Lecce, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 10483/2012, ha negato la sua giurisdizione, in favore del TAR, per ogni questione concernente il rapporto di lavoro intercorso fra le parti sino a tutto il 1993, mentre per le pretese retributive successive ha dichiarato estinto il processo.
NOME COGNOME ha proposto appello, nelle more del quale l’Università ha riconosciuto, in seguito a transazione, l’anzianità di servizio della ricorrente dalla sottoscrizione del primo contratto sino a quella di instaurazione del nuovo rapporto quale collaboratrice ed esperta linguistica (1° dicembre 1994) ex art. 4 d.l. n. 120 del 1995, conv., con modif., dalla legge n. 236 del 1995, le differenze retributive spettanti dal 1° gennaio 1994, la corresponsione di un assegno ad personam riassorbibile e il riconoscimento di un importo di euro 70.953,19.
La Corte d’appello di Lecce, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 84/2017, ha dichiarato la giurisdizione ordinaria per la domanda proposta sino al 31 dicembre 1993, rimettendo le parti davanti al Tribunale di Lecce.
Il giudizio è stato riassunto davanti al Tribunale di Lecce che, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 1329/2019, ha dichiarato estinto il giudizio.
NOME ha proposto appello che la Corte d’appello di Lecce, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 252/2022, ha rigettato.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi e ha depositato memoria.
L’Università del Salento si è difesa con controricorso.
L’INPS è rimast o intimato.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente si osserva, in risposta alle considerazioni svolte dalla ricorrente nella sua memoria, che il controricorso è presente agli atti e risulta debitamente notificato l’11 ottobre 2022.
Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 e ss. c.c. sull’oggetto e gli effetti della conciliazione .
Sostiene che la corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che la transazione giudiziale intervenuta tra le parti il 2 aprile 1998 fosse idonea a definire il presente giudizio.
Infatti, la causa conclusa con la detta transazione avrebbe avuto a oggetto la richiesta di una maggiore retribuzione e dell’unicità del rapporto di lavoro, mentre, con quello in esame era stata chiesta solo una maggiore retribuzione. Inoltre, il contenzioso precedente era fondato sul disposto dell’art. 28 del d.P.R.
n. 382 del 1980, con riferimento alla retribuzione dei professori associati; quello attuale si basava sulla legge n. 63 del 2004.
La causa petendi del primo giudizio, poi, non era limitata a tutto il 1993 e, quindi, era diversa.
La Corte d’appello di Lecce avrebbe ulteriormente errato a richiamare un precedente giurisprudenziale in una causa analoga, deciso dalla S.C. con ordinanza n. 9287/2020 . In definitiva, la ricorrente sostiene che l’accordo in questione avrebbe definito la lite precedente solo fino al 31 dicembre 1991 e non a tutto il 1993.
Con il secondo motivo la lavoratrice lamenta la violazione e falsa applicazione delle norme sul giudicato, della legge n. 63 del 2003 e della legge n. 167 del 2017, come integrata con d.i. n. 765 del 16 agosto 2019.
La corte territoriale avrebbe errato a rigettare la sua domanda volta a ottenere il pagamento di una maggiore retribuzione, ragguagliata, negli anni 1992 e 1993 a quella del ricercatore confermato a tempo definito.
Le censure, che possono essere trattate insieme, stante la stretta connessione, sono inammissibili.
Questa Suprema Corte (Cass. n. 23482 del 2017; Cass., n. 690 del 2005) ha chiarito che l’oggetto del negozio transattivo, che si rinviene anche nella conciliazione giudiziale che pone fine alla lite, va identificato non in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, non essendo necessaria una puntuale specificazione delle contrapposte pretese, bensì in relazione all’oggettiva situazione di contrasto che le parti stesse hanno inteso comporre attraverso reciproche concessioni, giacché la transazione – quale strumento negoziale di prevenzione/definizione di una lite – è destinata, analogamente alla sentenza, a coprire il dedotto ed il deducibile.
La conciliazione giudiziale prevista dagli artt. 185 e 420 c.p.c. è una convenzione non assimilabile ad un negozio di diritto privato puro e semplice, caratterizzandosi, strutturalmente, per il necessario intervento del giudice e per le formalità previste dall ‘ art. 88, disp. att., c.p.c. e, funzionalmente, da un lato per l’effetto processuale di chiusura del giudizio nel quale interviene, dall’altro
per gli effetti sostanziali derivanti dal negozio giuridico contestualmente stipulato dalle parti, che può avere anche ad oggetto diritti indisponibili del lavoratore (Cass., n. 8898/2024; Cass., n. 25472/2017).
Ciò evidenzia che l a conciliazione giudiziale è frutto dell’incontro della volontà delle parti, e il relativo verbale, ancorché redatto con l’intervento del giudice a definizione di una controversia pendente, è, ad ogni effetto, un atto negoziale, la cui interpretazione si risolve in un accertamento di fatto di esclusiva spettanza del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità, ove sia sorretto da motivazione effettiva: infatti, l’intervento del giudice nel tentativo di conciliazione non altera, ove il medesimo riesca, la natura consensuale dell ‘ atto di composizione che le parti volontariamente concludono.
Pertanto, per quanto qui rileva, come per ogni contratto ed anche ai fini dell’individuazione del contenuto o dell’oggetto dell’obbligo in esso assunto, la contestazione dell’interpretazione del verbale di conciliazione giudiziale (ma analoghe conclusioni valgono per un qualsiasi accordo transattivo concluso fra le parti e, poi, portato all’attenzione del giudice) va svolta alla stregua degli artt. 1362 ss. c.c., estendendosi al verbale di conciliazione giudiziale gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in tema di ermeneutica contrattuale (Cass., n. 4564/2014; Cass., n. 10981/2020).
D’altronde, è consolidato, nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, l’orientamento per il quale l’esegesi del contratto, dell’atto unilaterale ed anche del provvedimento amministrativo è riservata all ‘ esclusiva competenza del giudice del merito (cfr., fra le tante, Cass., n. 17067/2007; Cass., n. 11756/2006) perché la ricerca della volontà delle parti o del dichiarante si sostanzia in un accertamento di fatto (Cass., n. 9070 del 2013; Cass., n. 12360 del 2014).
Se ne è tratta la conseguenza che le valutazioni espresse al riguardo soggiacciono, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione effettiva ( ex plurimis , Cass., n. 21576/2019; Cass., n. 20634/2018).
Si è, inoltre, precisato che la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica esige una specifica indicazione in iure , ossia la precisazione delle ragioni giuridiche, non fattuali, per le quali deve essere ravvisata la detta violazione, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione di un’interpretazione diversa da quella criticata (cfr. Cass. , n. 946/2021; Cass., n. 995/2021; Cass., n. 28319/2017).
Disattendendo tali principi, il ricorso censura, invece, l’interpretazione dell ‘intesa intervenuta fra le parti come effettuata dalla corte territoriale, la quale, con motivazione effettiva e completa ha ritenuto che la stessa, in ragione dell’accordo negoziale intercorso, estend a i suoi effetti alla vicenda per cui è causa.
La ricorrente, dal canto suo, si limita a prospettare una possibile interpretazione alternativa a quella scelta dal giudice di appello, così contestando la sentenza di appello in maniera inammissibile.
Peraltro, la lavoratrice non riporta nemmeno il contenuto essenziale degli atti processuali dai quali dovrebbe ricavarsi l’oggetto dei giudizi da lei richiamati (atti, peraltro, pure genericamente indicati), rendendo impossibile, in ragione della non specificità del suo ricorso, la valutazione della conformità della decisione impugnata alla transazione menzionata.
Oltre a ciò, si evidenzia che la ricorrente impropriamente riconduce a una conciliazione gli effetti tipici del giudicato.
L’esito dei motivi sopra esaminati esclude l’opportunità di un rinvio alla pubblica udienza o di una rimessione della questione al Primo Presidente per l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
In particolare, si evidenzia che, secondo le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., SU, n. 4331/2024), all’esito della riformulazione dell’art. 375 c.p.c., operata dal d.lgs. n. 149 del 2022, la Corte di Cassazione, anche a Sezioni Unite, pronuncia in pubblica udienza unicamente nei casi di ricorso per revocazione ex art. 391 quater c.p.c. e di particolare rilevanza della questione di diritto, mentre delibera con ordinanza, resa all’esito della camera di consiglio ex art. 380 bis 1
c.p.c., «in ogni altro caso in cui non pronuncia in pubblica udienza» ( art. 375, comma 2, n. 4 quater).
La disposizione delinea un rapporto regola/eccezione secondo cui i ricorsi sono «normalmente» destinati ad essere definiti nel rispetto delle forme previste dall’art. 380 bis 1 c.p.c., ossia all’esito di adunanza camerale, salvo che non ricorrano le condizioni indicate nel primo comma dello stesso art. 375 c.p.c., l’applicabilità del quale, quanto all’ipotesi riferibile all’esercizio del potere nomofilattico, richiede che la questione di diritto sulla quale la Suprema Corte è chiamata a pronunciare si presenti di particolare rilevanza, che va esclusa non solo ove la questione medesima non sia nuova, perché già risolta dalla Corte, ma anche qualora il principio di diritto che la Corte è chiamata ad enunciare sia solo apparentemente connotato da novità, perché conseguenza della mera estensione di principi già affermati, sia pure in relazione a fattispecie concrete connotate da diversità rispetto a quelle già vagliate.
Quest’ultima evenienza ricorre nella fattispecie, giacché le questioni prospettate si risolvono sulla base di principi che questa Suprema Corte ha già enunciato in plurime pronunce.
3) Il ricorso è dichiarato inammissibile.
Le spese di lite seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte,
dichiara inammissibile il ricorso;
condanna la ricorrente a rifondere le spese di lite, che liquida in complessivi € 3.000,00 per compenso, e a rimborsare le spese prenotate a debito;
-ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione Civile, il 7