Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15283 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 15283 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14724/2022 R.G. proposto da:
Bisignano NOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi dall’Avv . NOME COGNOME e domiciliati presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione in Roma;
-ricorrente-
contro
La Presidenza della Regione Siciliana – Dipartimento regionale della Protezione civile e Assessorato regionale delle Autonomie locali e della funzione pubblica della Regione siciliana – Dipartimento regionale della Funzione pubblica e del personale, in persona del legale rappresentante p.t., rap presentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato e domiciliati per legge in Roma, INDIRIZZO
-controricorrenti e ricorrenti incidentali-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO di CATANIA n. 711/2021 pubblicata il 9 dicembre 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/04/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza n. 2140 del 2019 il Tribunale di Catania ha rigettato il ricorso di NOME COGNOME e NOME COGNOME, dipendenti della Regione siciliana, Dipartimento della Protezione civile, in virtù di contratti a tempo determinato di durata triennale sottoscritti il 12 marzo 1999 e prorogati di volta in volta, che mirava al riconoscimento del diritto ‘alla giusta progressione economica orizzontale’, con l’attribuzione della categoria C6 per il periodo 1° marzo 2005 – 31 dicembre 2007 e della categoria C7 a partire dal 1° gennaio 2008.
Il Tribunale ha respinto la domanda sul presupposto che la quota del FAMP da destinare alla progressione economica del personale a tempo determinato era stata istituita a decorrere dal 2008, con la conseguenza che i ricorrenti avevano ottenuto la posizione C6 dal 1° gennaio 2008.
NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno proposto appello che la Corte d’appello di Catania, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 711/2021, ha rigettato, sul diverso presupposto che i ricorrenti, concludendo una transazione giudiziale con la controparte in altri procedimenti, avevano accettato di essere inquadrati, rispettivamente, il COGNOME nella categoria C5, dal 1° gennaio 2003, e la COGNOME nella categoria C5, dal 1° gennaio 2003 al 31 dicembre 2007, e in quella C6, dal 1° gennaio 2008, situazioni che non potevano più essere messe in discussione fino alla data di sottoscrizione delle intese.
NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di un motivo.
Le Amministrazioni intimate si sono difese con controricorso e hanno proposto ricorso incidentale condizionato con un motivo.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1) Con un unico motivo i ricorrenti principali lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. in quanto la corte territoriale avrebbe errato nell’affermare che la domanda da loro proposta e finalizzata a ottenere la progressione economica orizzontale ex art. 109 CCRL dipendenti Regione siciliana quadriennio 2002-2005 fosse coperta da giudicato implicito formatosi sui verbali di conciliazione giudiziale da loro sottoscritti il 1° giugno 2010 davanti al giudice del lavoro di Catania (il Bisignano) e il 20 dicembre 2011 presso la Corte d’appello di Catania (la COGNOME), con i quali avevano accettato di essere inquadrati, rispettivamente, il Bisignano nella categoria C5, dal 1° gennaio 2003, e la COGNOME nella categoria C5, dal 1° gennaio 2003 al 31 dicembre 2007, e in quella C6, dal 1° gennaio 2008, situazioni che non potevano più essere messe in discussione fino alla data di sottoscrizione delle intese.
Sostengono che le cause introdotte davanti al giudice del lavoro di Catania sarebbero state proposte nel 2004 e, quindi, prima dell’entrata in vigore dell’art. 109 CCRL 2002 -2005, con la conseguenza che le transazioni non avrebbero mai potuto riguardare questa disposizione. La Corte d’appello di Catania avrebbe sbagliato nel ritenere che sarebbe stata irrilevante la mancata deduzione della violazione del nuovo contratto collettivo, sul presupposto che il giudicato avrebbe coperto il dedotto e il deducibile, in quanto il giudicato formatosi sulle conciliazioni giudiziali del 1° giugno 2010 e del 20 dicembre 2011 non era stato il necessario antecedente logicogiuridico della diversa questione poi sottoposta nella presente sede.
Al contrario, avrebbe dovuto trovare applicazione il citato art. 109, in base al quale ‘in sede di contrattazione di cui all’art. 3 3, comma 3, per l’anno 2005 la quota del F.A.M.P. da destinare alle progressioni economiche (sarebbe stata) determinata in modo da consentire a tutti i dipendenti l’acquisizione della posizione economica successiva a quella giuridicamente posseduta, con effetto dal 1° marzo 2005’.
Il motivo è inammissibile, in quanto i ricorrenti, prospettando la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., non censura no adeguatamente la ratio decidendi della sentenza di appello, che si incentra sull’oggetto e sugli effetti della conciliazione giudiziale, di cui la Corte d’Appello di Catania ha accertato il carattere transattivo richiamando la giurisprudenza in materia (punto 2 dei Motivi della decisione), già intervenuta tra le parti, che copre sì il dedotto e il deducibile, ma trova fondamento contrattuale nella volontà delle parti in esito ad uno specifico procedimento, a differenza del giudicato.
Ed infatti, questa Corte (Cass., n. 23482 del 2017; Cass., n. 690 del 2005) ha chiarito che l’oggetto del negozio transattivo, che si rinviene anche nella conciliazione giudiziale che pone fine alla lite, va identificato non in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, non essendo necessaria una puntuale specificazione delle contrapposte pretese, bensì all’oggettiva situazione di contrasto che le parti stesse hanno inteso comporre attraverso reciproche concessioni, giacché la transazione – quale strumento negoziale di prevenzione/definizione di una lite – è destinata, analogamente alla sentenza, a coprire il dedotto ed il deducibile.
La conciliazione giudiziale prevista dagli artt. 185 e 420 c.p.c. è una convenzione non assimilabile ad un negozio di diritto privato puro e semplice, caratterizzandosi, strutturalmente, per il necessario intervento del giudice e per le formalità previste dall’art. 88, disp. att., c.p.c. e, funzionalmente, da un lato, per l’effetto processuale di chiusura del giudizio nel quale interviene, e, dall’altro, per gli effetti
sostanziali derivanti dal negozio giuridico contestualmente stipulato dalle parti, che può avere anche ad oggetto diritti indisponibili del lavoratore (Cass., n. 8898/2024; Cass., n. 25472/2017).
Ciò evidenzia che la conciliazione giudiziale è frutto dell’incontro della volontà delle parti e che il relativo verbale, ancorché redatto con l’intervento del giudice a definizione di una controversia pendente, è, ad ogni effetto, un atto negoziale, la cui interpretazione si risolve in un accertamento di fatto di esclusiva spettanza del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità, ove sia sorretto da motivazione: infatti, l’intervento del giudice nel tentativo di conciliazione non altera, ove il medesimo riesca, la natura consensuale dell’atto di composizione che le parti volontariamente concludono.
Pertanto, per quanto qui rileva, come per ogni contratto ed anche ai fini dell’individuazione del contenuto o dell’oggetto dell’obbligo in esso assunto, la contestazione dell’interpretazione del verbale di conciliazione giudiziale va svolta alla stregua degli artt. 1362 ss. c.c., estendendosi al verbale di conciliazione giudiziale gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in tema di ermeneutica contrattuale (Cass., n. 4564/2014; Cass., n. 10981/2020).
Nella giurisprudenza di questa Suprema Corte è consolidato l’ indirizzo secondo cui l’esegesi del contratto, dell’atto unilaterale ed anche del provvedimento amministrativo è riservata all’esclusiva competenza del giudice del merito (cfr., fra le tante, Cass., n. 17067/2007; Cass., n. 11756/2006), perché la ricerca della volontà delle parti o del dichiarante si sostanzia in un accertamento di fatto (Cass., n. 9070 del 2013; Cass., n. 12360 del 2014).
Se ne è tratta la conseguenza che le valutazioni espresse al riguardo soggiacciono, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato limitato alla verifica di una interpretazione condotta nel rispetto dei criteri di logica ermeneutica e di corretto apprezzamento delle risultanze di fatto ( ex plurimis , Cass., n. 21576/2019; Cass., n. 20634/2018).
Si è, inoltre, precisato che la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica esige una specifica indicazione in iure, ossia la precisazione delle ragioni giuridiche, non fattuali, per le quali deve essere ravvisata l’anzidetta violazione, non pote ndo le censure risolversi nella mera contrapposizione di un’interpretazione diversa da quella criticata (cfr. Cass., n. 946/2021; Cass. n. 995/2021 e Cass., n. 28319/2017).
Disattendendo tali principi, il ricorso censura, per la violazione della disciplina del giudicato, l’interpretazione della conciliazione giudiziale come effettuata dalla Corte territoriale, che con motivazione rispettosa dei criteri ermeneutici ha ritenuto che la stessa, in ragione dell’accordo negoziale intercorso tra le parti, estende i suoi effetti alla vicenda per cui è causa, ravvisando, quale mero argomento ad abundantiam , che non concorre a definire la ratio decidendi della sentenza di appello, una similitudine con il giudicato ex art. 2909 c.c., con conseguente inammissibilità del motivo.
Il ricorso incidentale è da considerare assorbito, attesa la sua natura condizionale.
Il ricorso principale è dichiarato inammissibile, assorbito l’incidentale condizionato .
Le spese di lite seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 , si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, ad opera dei ricorrenti principali , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte,
-dichiara inammissibile il ricorso principale, assorbito l’incidentale ;
condanna i ricorrenti principali a rifondere le spese di lite in favore delle parti controricorrenti, che liquida in € 3.000,00 per compenso, e a rimborsare le spese prenotate a debito;
-ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, ad opera dei ricorrenti principali , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione