Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 4917 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 2 Num. 4917 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 23/02/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 33130/2019 R.G. proposto da: NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE) che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO BRESCIA n. 1088/2019 depositata il 15/07/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16/01/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Bergamo rigettò la domanda di NOME COGNOME nei confronti di NOME COGNOME, volta a far dichiarare la comproprietà dell’abitazione, acquistata in regime di comunione legale fra coniugi.
La Corte di Appello di Brescia, con sentenza n. 1088 del 15 luglio 2019, accolse il gravame della COGNOME, accertando e dichiarando che l’immobile di Bergamo, già concesso in superficie e poi acquistato in proprietà, non rientrava fra i beni personali del COGNOME, facendo invece parte della comunione legale.
Il giudice di secondo grado rilevava come la presenza all’atto del coniuge non acquirente si ponesse quale condizione necessaria ma non sufficiente per l’esclusione del bene dalla comunione, occorrendo anche l’effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione di cui all’art. 179 comma 1 c.c., lett. c), d) ed f).
Contro la predetta sentenza ricorre per cassazione NOME COGNOME, sulla scorta di tre motivi.
Ha proposto tempestivo controricorso NOME COGNOME.
La causa, originariamente assegnata alla camera di consiglio dell’11 novembre 2020, è stata rimessa all’udienza pubblica, alla luce della valenza nomofilattica della materia del contendere.
In prossimità dell’udienza pubblica, entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.
Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DI DIRITTO
Attraverso la prima censura, il ricorrente deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo, oggetto di discussione fra le parti, costituito dal contratto preliminare, sottoscritto solo da lui medesimo, in data antecedente al matrimonio con la COGNOME.
In altri termini, il bene promesso in vendita sarebbe dovuto rimanere fuori dalla comunione, in quanto costituente la prestazione oggetto di un credito acquistato con il preliminare.
La lagnanza è inammissibile.
1.a) Per un verso, come ha correttamente ricordato la Corte d’appello, nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all’atto dell’altro coniuge non acquirente, prevista dall’art. 179, secondo comma, cod. civ., si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l’esclusione del bene dalla comunione, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l’effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall’art. 179, primo comma, lett. c), d) ed f), cod. civ., con la conseguenza che l’eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento negativo, non risultando preclusa tale verifica dal fatto che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi (Sez. U., n. 22755 del 28 ottobre 2009; Sez. 2, n. 7027 del 12 marzo 2019).
Orbene, nella specie, la sentenza impugnata ha negato la ricorrenza dei presupposti di fatto dell’esclusione dei beni dalla comunione, senza che il COGNOME abbia fattivamente contrastato tale affermazione.
1.b) Per altro verso, ed in ogni caso, l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Sez. U., n. 8053 del 7 aprile 2014; Sez. 2, n. 27415 del 29 ottobre 2018).
A tale proposito, va sottolineato che il ricorrente ha mancato di riportare la sedes materiae della discussione processuale, in fase di appello, intorno alla rilevanza della promessa di vendita, come va altresì sottolineato che il valore del preliminare sarebbe comunque irrilevante, considerato l’effetto obbligatorio e non reale del negozio.
Con il secondo mezzo, il ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione degli artt. 179, 1362 e 2697 c.c. La Corte d’appello avrebbe travisato la corretta, univoca interpretazione delle dichiarazioni contenute negli atti notarili del 27 marzo 1996 e del 21 dicembre 2007.
La doglianza è inammissibile.
2.a) La Corte d’appello ha richiamato i due atti di acquisto, rilevando che ‘ non solo non vi è alcuna espressa dichiarazione che il denaro utilizzato per l’acquisto costituisse il prezzo del trasferimento di altro bene personale e l’indicazione di quale bene si trattasse… ma, al contrario, nell’atto del 27 marzo 1996 si parla di denaro personale del COGNOME, dizione che non coincide affatto con il prezzo ricavato dalla vendita di un proprio bene personale, mentre in quello del 21.12.2007 viene semplicemente indicata la norma di legge, senza alcuna specificazione sul fatto che l’immobile sia stato acquistato con il prezzo di vendita di altro bene personale ovvero con lo scambio di un bene personale ‘.
2.b) Giova osservare che, in generale, nell’interpretazione del contratto, che è attività riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni ermeneutici o vizio di motivazione, il carattere prioritario dell’elemento letterale non va inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell’art. 1362 c.c. alla comune intenzione delle parti impone di estendere l’indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche laddove il testo dell’accordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti (Sez. 6-1, n. 13595 del 2 luglio 2020; Sez. 3, n. 20294 del 26 luglio 2019; Sez. 1, n. 16181 del 28 luglio 2017).
Tale attività ermeneutica è senz’altro coerente con il dettato dell’art. 1362 c.c., secondo cui il dato testuale del contratto, pur importante, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le
espressioni appaiano di per sé chiare, atteso che un’espressione ” prima facie ” chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti; ne consegue che l’interpretazione del contratto, da un punto di vista logico, è un percorso circolare che impone all’interprete, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti e quindi di verificare se quest’ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti medesime (Sez. 63, n. 32786 dell’8 novembre 2022; Sez. 3, n. 34795 del 17 novembre 2021; Sez. 3, n. 17718 del 6 luglio 2018; Sez. 3, n. 9380 del 10 maggio 2016).
Tuttavia, ove il negozio sia di per sé chiaro e tale da escludere in radice la possibilità di equivoci, il criterio letterale esaurisce gli strumenti ermeneutici a disposizione dell’interprete.
Il terzo rilievo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 2732 c.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. La Corte d’appello avrebbe erroneamente disconosciuto la natura confessoria delle dichiarazioni della COGNOME, contenute nei due atti notarili.
La censura è infondata.
3.a) La partecipazione all’atto di acquisto dell’altro coniuge non acquirente non può assumere portata confessoria, ove la dichiarazione del coniuge acquirente, ai sensi dell’art. 179, comma 1, lett. f) c.c., che i beni sono stati acquistati con il prezzo del trasferimento di beni personali, non contenga l’esatta indicazione della provenienza del bene da una delle diverse fattispecie di cui alle lettere a), b), c), d), e), del medesimo art. 179 c.c. (Sez. 2, n. 35086 del 29 novembre 2022).
Pertanto, in mancanza di tale indicazione, l’eventuale inesistenza dei presupposti che escludono dal regime della comunione legale il
bene acquistato può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento della comunione, senza che la dichiarazione adesiva del coniuge non acquirente, ex art. 179, comma 2, c.c., abbia alcun valore confessorio.
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente, come liquidate in dispositivo.
La Corte da atto che ricorrono i presupposti processuali di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002 per il raddoppio del versamento del contributo unificato, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore di NOME COGNOME, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.000 (quattromila) per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Dà atto che sussistono i presupposti processuali per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 115/2002 se dovuto.
Così deciso in Roma il 16 gennaio 2024