Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 22207 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 22207 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 01/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23166/2022 R.G. proposto da : COGNOME difeso dall’avvocato COGNOME
-ricorrente-
contro
COGNOME COGNOME difesi da ll’avvocato COGNOME che li rappresenta e difende
-controricorrenti-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO L’AQUILA n. 290/2022 depositata il 21/02/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/07/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La controversia trae origine dalla domanda di risarcimento danni proposta da NOME COGNOME, possessore di un capannone in Ortona, nei confronti dei confinanti NOME e NOME COGNOME. Il ricorrente lamenta che i convenuti, verso la fine del 2014, avevano realizzato una tettoia infiggendo nove travi di sostegno nel muro di
sua proprietà esclusiva, senza il suo consenso. A seguito delle sue proteste, e in pendenza di un procedimento per accertamento tecnico preventivo, i convenuti rimuovevano parzialmente le travi, lasciando tuttavia dei danni che, a dire di un consulente di parte, ne compromettevano la stabilità. L’attore domandava pertanto il risarcimento dei danni materiali, il rimborso delle spese legali e tecniche sostenute, e un’indennità per la comunione di fatto che si era venuta a creare sul muro, cui risultavano ancorate anche altre costruzioni dei convenuti.
Nel giudizio di primo grado, il Tribunale di Chieti, basandosi sulla consulenza tecnica d’ufficio espletata nella fase di accertamento tecnico preventivo, accoglieva parzialmente la domanda. Con sentenza n. 110/2018, il Tribunale condannava i signori COGNOME al pagamento di € 1.500, oltre interessi, a titolo di risarcimento del danno, compensando integralmente tra le parti le spese di lite e ponendo a loro carico in egual misura le spese della c.t.u.
NOME COGNOME ha proposto appello avverso tale decisione, domandando la riforma parziale della sentenza, con la condanna degli appellati al pagamento di tutte le somme richieste in primo grado, e insistendo per la riapertura dell’istruttoria con l’ammissione delle prove orali e di una nuova c.t.u. La Corte di appello di L’Aquila, con la sentenza n. 290/2022, ha rigettato il gravame. La Corte territoriale ha ritenuto generiche e non decisive le critiche mosse dall’appellante alla c.t.u. e ha confermato le conclusioni del perito, secondo cui l’immobile era già vetusto e i convenuti avevano causato solo un «danno estetico» quantificabile in € 1.500, senza alcun pregiudizio strutturale. Ha giudicato superflua la richiesta di prove orali, in quanto le circostanze erano già state accertate dal c.t.u. La Corte ha poi esaminato le domande su cui il primo giudice aveva omesso di pronunciarsi: ha rigettato la richiesta di rimborso delle spese stragiudiziali di € 4.700, ritenendole in parte non correlate al merito e in parte assorbite
nella statuizione generale sulle spese; ha rigettato anche la domanda di indennità per comunione forzosa, affermando che la facoltà di chiedere la comunione del muro spetta a chi costruisce in appoggio, e non al proprietario del muro stesso. Infine, ha confermato la compensazione delle spese di primo grado, giustificandola non con la sproporzione tra chiesto e ottenuto, ma con l’accoglimento di una sola delle plurime domande proposte dall’attore. Di conseguenza, ha condannato l’appellante al pagamento delle spese del secondo grado di giudizio.
Ricorre in cassazione l’attore con quattro motivi, illustrati da memoria. Resistono i convenuti con controricorso e memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo si denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 874 c.c., 42 Cost., 832 c.c. e 112 c.p.c., nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. La critica si concentra sulla decisione della Corte di appello di rigettare la domanda di indennità di medianza. Si sostiene che la Corte abbia errato nell’interpretare l’art. 874 c.c., affermando che solo chi costruisce in appoggio può chiedere la comunione del muro. Il ricorrente afferma, invocando giurisprudenza di legittimità, che la costruzione in appoggio senza permesso manifesta di per sé la volontà di rendere comune il muro, legittimando il proprietario di quest’ultimo a domandare il pagamento della relativa indennità. Si contesta inoltre alla Corte di appello di aver violato l’art. 112 c.p.c. per aver rilevato d’ufficio un’eccezione non sollevata dalle parti. Il fatto decisivo di cui si denuncia l’omesso esame è la circostanza, accertata dal c.t.u., che altre opere dei convenuti (un magazzino e un gazebo) permanevano in appoggio al muro del ricorrente, integrando così i presupposti di fatto per la comunione forzosa.
La Corte di appello, dopo aver riconosciuto l’omessa pronuncia del primo giudice sul rimborso delle spese per ottenere la rimozione della pensilina e sull’indennità per comunione forzosa, ha affrontato
tutte le questioni nel merito. Ha esplicitamente affermato che il presupposto di legge per tale indennità non si è verificato, poiché la facoltà di chiedere la comunione forzosa del muro sul confine, prevista dall’art. 874 c.c., spetta unicamente al proprietario del fondo finitimo che edifica in aderenza o in appoggio, e non al proprietario del muro stesso. In base a tale interpretazione, il proprietario del muro può solo domandare la rimozione delle opere, ma non l’indennità per una comunione che egli non è titolato a domandare.
Il primo motivo è rigettato.
La decisione della Corte di appello, pur sintetica, si fonda su un’interpretazione corretta dell’art. 874 c.c. La facoltà di chiedere la comunione forzosa del muro sul confine costituisce un diritto potestativo che l’ordinamento attribuisce al proprietario del fondo confinante che intenda costruire in appoggio al muro altrui, e non al proprietario del muro stesso. Quest’ultimo è titolare del diritto consequenziale a percepire l’indennità di medianza una volta che il vicino abbia esercitato la predetta facoltà. La sentenza impugnata enuncia correttamente tale principio.
La censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. è inammissibile ex art. 348-ter co. 5 c.p.c.
– Con il secondo motivo si denunciano l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, la violazione dell’art. 112 c.p.c. e la motivazione apparente. La censura riguarda il rigetto della domanda di rimborso delle spese stragiudiziali per € 4.700. Si definisce la motivazione della Corte d’appello «palesemente apparente» e «apodittica», in quanto priva di un collegamento con le risultanze processuali. Il fatto decisivo di cui si lamenta l’omesso esame è la circostanza, emergente dagli atti, che il ricorrente era stato costretto ad agire in giudizio a causa del rifiuto dei convenuti di demolire bonariamente il manufatto, ciò che giustificava la domanda di rimborso spese.
I controricorrenti negano di essersi rifiutati di rimuovere l’opera, avendo provveduto spontaneamente, ma di essersi solo opposti a una richiesta risarcitoria ritenuta esorbitante di € 25.000.
Il secondo motivo è rigettato.
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la motivazione con cui la Corte di appello ha rigettato la domanda di rimborso delle spese stragiudiziali non è né apparente né illogica. La Corte territoriale ha esaminato la domanda (quindi è infondata la censura ex art. 112 c.p.c.), riconoscendo l’omissione del primo giudice, e l’ha respinta con un ragionamento intellegibile e giuridicamente corretto.
La Corte di appello, rilevata l’omissione del primo giudice, ha rigettato la domanda nel merito. La motivazione esplicita è che tali somme «o sono assolutamente irrelate con il merito della decisione e con la responsabilità dei convenuti (opposizione al compenso del ctu) o dipendenti dalla statuizione sul rimborso delle spese del giudizio».
Quanto ai profili fatti valere ex art. 360 n. 5 c.p.c., essi sono preclusi per il principio della doppia conforme ex art. 348 co. 5 c.p.c.
3. – Con il terzo motivo si denunciano l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e la motivazione apparente. La critica è rivolta contro la conferma del diniego di rinnovare la consulenza tecnica. Si sostiene che la Corte abbia errato nel definire «generiche» le critiche alla c.t.u., le quali erano invece specifiche e puntuali. Il fatto decisivo di cui si denuncia l’omesso esame consiste nell’insieme delle contestazioni mosse alla perizia, accusata di essere parziale, approssimativa (con valutazioni «ad occhio» e senza indagini strumentali), frutto di opinioni personali e contenente errori tecnici, al punto da dover essere considerata nulla.
Il terzo motivo è rigettato.
La decisione di disporre o rinnovare una consulenza tecnica d’ufficio rientra nel margine di apprezzamento del giudice di merito. Tale decisione è insindacabile in sede di legittimità, se non per il vizio di motivazione del tutto omessa, manifestamente illogica o contraddittoria, ipotesi che qui non ricorre.
Contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, la Corte di appello non ha omesso di valutare le critiche mosse alla c.t.u., ma le ha esaminate e le ha respinte con una motivazione specifica e non apparente. La Corte ha infatti ritenuto tali critiche «generiche ed espresse in via meramente esemplificativa, senza che si comprenda in che modo la fondatezza delle stesse possa incidere sulla decisione». Ha inoltre condiviso l’iter logico-argomentativo del perito, ritenendolo né illogico né incoerente, e ha fatto proprie le sue conclusioni circa la natura meramente estetica del danno e l’assenza di pregiudizi strutturali, a fronte di uno stato di vetustà e degrado preesistente del fabbricato. La Corte ha anche dato atto che le osservazioni del consulente di parte erano state prese in considerazione e confutate dal c.t.u. nella relazione finale.
Le argomentazioni del ricorrente, pur denunciando un vizio di motivazione, si risolvono in realtà in una critica all’apprezzamento di fatto compiuto dal giudice di merito e nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle risultanze peritali. Tale operazione, tuttavia, è preclusa in sede di legittimità, dove non è consentito un riesame del merito della controversia, ma solo un controllo sulla coerenza logica e giuridica della decisione impugnata. La motivazione della Corte territoriale, esistendo ed essendo immune da vizi logici, si sottrae alla censura proposta.
Ad abundantiam: l a censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. è inammissibile ex art. 348-ter co. 5 c.p.c.
– Con il quarto motivo si denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e la motivazione apparente. La censura
investe la statuizione sulle spese. Si contesta la motivazione con cui la Corte ha confermato la compensazione delle spese di primo grado, definendola «inconferente» perché basata sull’esito dell’appello anziché su quello del primo giudizio. Si sostiene che, a fronte dell’accertamento di un fatto illecito e dell’accoglimento seppur parziale della domanda, la compensazione non fosse giustificata e vanificasse l’esito favorevole per il ricorrente. Il fatto decisivo di cui si lamenta l’omesso esame è il comportamento processuale ed extraprocessuale delle parti, in particolare la mala fede dei convenuti che avrebbero costretto l’attore ad agire legalmente. Si ritiene inoltre ingiusta la condanna alle spese d’appello, dato che alcuni motivi erano stati ritenuti corretti nel rilievo del vizio di omessa pronuncia.
Il quarto motivo è rigettato.
La censura, che contesta la regolamentazione delle spese di entrambi i gradi di merito, è infondata sotto ogni profilo.
Quanto alla compensazione delle spese di primo grado, la motivazione della Corte di appello non è né apparente né inconferente. La Corte ha correttamente esercitato il proprio potere di integrare correttamente la motivazione del primo giudice, constatando la soccombenza reciproca. Ha infatti rilevato che l’attore aveva proposto «domande plurime , di cui una sola accolta». L’originario attore è risultato vittorioso sulla domanda di risarcimento per il danno materiale, ma soccombente sulle domande, del tutto autonome, di indennità di medianza e di rimborso delle spese stragiudiziali. Tale situazione integra la fattispecie della soccombenza reciproca che, ai sensi dell’art. 92 c.p.c.
Quanto alla condanna alle spese del giudizio d’appello, anche in questo caso la decisione della Corte territoriale è corretta. La liquidazione delle spese processuali segue l’esito finale del grado di giudizio. Poiché l’appello è stato integralmente rigettato,
l’appellante è risultato totalmente soccombente e, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., è stato giustamente condannato a rifondere le spese alla controparte. È irrilevante la circostanza che la Corte abbia dovuto esaminare nel merito domande omesse dal primo giudice; ciò che rileva è che, all’esito di tale esame, tali domande sono state comunque respinte, determinando il rigetto completo del gravame. Non vi è dunque stata alcuna violazione delle norme che regolano la materia.
5. – La Corte rigetta il ricorso. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Inoltre, ai sensi dell’art. 13 co. 1 -quater d.p.r. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo unificato a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente a rimborsare alla parte controricorrente le spese del presente giudizio, che liquida in € 2.000 , oltre a € 200 per esborsi, alle spese generali, pari al 15% sui compensi, e agli accessori di legge.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo unificato, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 09/07/2025.