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Comunione de residuo: onere della prova e divisione

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 1453/2025, chiarisce i principi sulla comunione de residuo. In un caso di divorzio, la Corte ha stabilito che spetta al coniuge che avanza pretese dimostrare l’esistenza di utili e incrementi non consumati al momento dello scioglimento della comunione. La sentenza ha rigettato il ricorso della moglie che chiedeva una quota dell’impresa del marito, costituita prima del matrimonio, e la restituzione di una somma ricevuta in eredità, per mancanza di prove adeguate.

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Pubblicato il 16 settembre 2025 in Diritto di Famiglia, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Comunione de residuo: chi deve provare l’esistenza dei beni da dividere?

La fine di un matrimonio comporta spesso complesse questioni sulla divisione del patrimonio. Un concetto cruciale in questo ambito è la comunione de residuo, che riguarda i proventi dell’attività separata di un coniuge. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti fondamentali su chi grava l’onere di provare l’esistenza di tali beni al momento della separazione, stabilendo un principio chiaro: chi chiede, deve provare.

I Fatti di Causa

Il caso esaminato nasce dalla richiesta di una donna, dopo la separazione giudiziale, di ottenere lo scioglimento della comunione su alcuni beni. In particolare, la ricorrente sosteneva che l’impresa di autotrasporti gestita dall’ex marito, sebbene costituita prima del matrimonio, fosse di fatto parte della comunione legale. Chiedeva inoltre la divisione degli utili e degli incrementi di tale attività, rientranti nella comunione de residuo, e la restituzione integrale di una somma di 85.000 euro, da lei ricevuta in eredità e versata sul conto del coniuge.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano respinto le sue principali richieste. I giudici di merito avevano accertato che l’impresa era stata costituita prima del matrimonio e, pertanto, era un bene personale del marito. Per quanto riguarda la somma ereditata, avevano riconosciuto la restituzione di soli 14.000 euro, l’unico versamento effettivamente provato e non adeguatamente contestato. La questione è quindi giunta dinanzi alla Corte di Cassazione.

L’onere della prova nella comunione de residuo

Il cuore della decisione della Cassazione ruota attorno all’interpretazione dell’art. 177, lettera c), del codice civile, che disciplina appunto la comunione de residuo. Questa categoria include i proventi dell’attività separata di ciascun coniuge che non siano stati consumati al momento dello scioglimento della comunione.

La ricorrente sosteneva che, una volta dimostrata l’esistenza di redditi derivanti dall’attività del marito, spettasse a quest’ultimo provare che tali somme fossero state consumate per i bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha rigettato questa interpretazione, confermando un orientamento giurisprudenziale più recente e rigoroso.

La decisione sui beni personali e l’eredità

Oltre al tema centrale della comunione de residuo, la Corte ha affrontato altre due questioni. In primo luogo, ha confermato che l’impresa di autotrasporti era un bene personale del marito, poiché la sua costituzione (attestata dall’iscrizione nel Registro delle Imprese e dalla partita IVA) era anteriore al matrimonio. La circostanza che alcuni beni strumentali fossero stati acquistati con denaro donato alla moglie non era sufficiente a cambiare la natura giuridica dell’impresa stessa.

In secondo luogo, riguardo alla restituzione della somma di 85.000 euro, la Corte ha dichiarato il motivo inammissibile per difetto di autosufficienza. La ricorrente non aveva trascritto nel ricorso gli atti processuali necessari a dimostrare le sue affermazioni, né a provare la mancata contestazione da parte dell’ex marito sui versamenti specifici. Pertanto, la decisione di merito, che riconosceva solo la restituzione della somma provata di 14.000 euro, è stata confermata.

Le Motivazioni

La Corte ha spiegato che la comunione de residuo si realizza solo su ciò che effettivamente sussiste nel patrimonio del singolo coniuge al momento dello scioglimento della comunione. Di conseguenza, l’onere della prova è a carico di chi agisce per la divisione. Il coniuge che avanza pretese deve prima dimostrare la persistenza degli utili e degli incrementi alla data di cessazione del regime di comunione. Solo dopo aver fornito questa prova, l’onere si sposta sull’altro coniuge, che potrà allora dimostrare che tali somme sono state utilizzate per soddisfare bisogni familiari o per investimenti già comuni. In assenza della prova iniziale sulla sussistenza dei beni, la domanda di divisione non può essere accolta. Questo approccio, secondo la Corte, è l’unico conforme alla lettera della legge e impedisce di trasformare un giudizio di divisione in un’azione di rendiconto generale sull’amministrazione del patrimonio personale del coniuge.

Conclusioni

Questa ordinanza consolida un principio di fondamentale importanza pratica: nella divisione dei beni successiva a una separazione, non è sufficiente affermare di avere diritto a una quota dei proventi dell’altro. È indispensabile fornire prove concrete che dimostrino che tali proventi, o gli incrementi patrimoniali derivanti, esistevano ancora e non erano stati consumati alla data dello scioglimento della comunione. La sentenza ribadisce la centralità dell’onere della prova e impone un approccio rigoroso e documentato a chi intende far valere i propri diritti sulla comunione de residuo.

Che cos’è la comunione de residuo?
È una categoria di beni che, pur essendo di proprietà personale di un coniuge durante il matrimonio (come i redditi da lavoro o da un’impresa personale), cadono in comunione al 50% al momento dello scioglimento del regime patrimoniale (es. separazione), ma solo per la parte che non è stata spesa o consumata.

In una causa sulla comunione de residuo, chi deve provare l’esistenza dei beni da dividere?
Secondo la sentenza, l’onere della prova spetta al coniuge che chiede la divisione. Questa persona deve dimostrare che gli utili o gli incrementi dell’attività dell’altro coniuge esistevano ancora nel suo patrimonio alla data di scioglimento della comunione. Solo dopo questa prova, l’onere si sposta sull’altro coniuge, che potrà dimostrare come ha speso quei soldi.

Quando un’impresa individuale è considerata bene personale e non cade in comunione?
Un’impresa individuale è considerata un bene personale del coniuge che l’ha costituita se è stata creata prima della data del matrimonio. L’iscrizione nel Registro delle Imprese e la titolarità della partita IVA prima delle nozze sono elementi probatori decisivi in tal senso, anche se successivamente sono stati usati fondi comuni o donazioni per acquistare beni per l’attività.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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