Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 1439 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 1439 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1360/2021 R.G. proposto
da
ISTITUTI RIUNITI ASSISTENZA NOME COGNOME in persona del legale rappresentante pro tempore ed elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME COGNOME, rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME
-ricorrente – contro
COGNOME NOME COGNOME
Oggetto:
Pagamento
prestazioni professionali
R.G.N. 1360/2021
Ud. 09/01/2025 CC
-intimato –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO L’AQUILA n. 723/2020 depositata il 20/05/2020.
Lette le conclusioni scritte depositate dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del terzo motivo di ricorso;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 09/01/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza n. 723/2020, pubblicata in data 20 maggio 2020, la Corte d’appello di L’Aquila, decidendo sull’appello principale di COGNOME COGNOME e sull’appello incidentale dell’IPAB ISTITUTI RIUNITI ASSISTENZA NOME COGNOME – entrambi proposti avverso l’ordinanza ex art. 702 -bis c.p.c. del Tribunale di Chieti pubblicata in data 13 gennaio 2019 -ha, in parziale accoglimento dell’appello principale, condannato gli ISTITUTI RIUNITI ASSISTENZA NOME COGNOME al pagamento in favore di COGNOME d ella somma di € 5.676,51, oltre accessori, a titolo di compensi per attività di revisore contabile.
COGNOME, infatti, aveva adito il Tribunale di Chieti, chiedendo la condanna dell’odierna ricorrente alla corresponsione dei compensi per la carica di membro del Collegio dei Revisori dei Conti degli ISTITUTI RIUNITI NOME COGNOME per gli anni 2012, 2013, 2014, 2015.
Come riferito nella decisione impugnata, il giudice di prime cure aveva disatteso la domanda sulla base di una duplice considerazione.
In primo luogo, il Tribunale aveva rilevato che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 161/12, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 8, 9, 10, 11, L.R. Abruzzo n. 17/11, risultando in tal modo preclusa retroattivamente la possibilità di liquidare il compenso dei revisori sulla scorta del parametro ivi previsto.
In secondo luogo, il giudice di prime cure aveva ritenuto non adeguatamente provata la pretesa azionata, avendo COGNOME COGNOME depositato le fatture emesse nei confronti di tutte le IPAB della Provincia di Chieti.
3. La Corte d’appello, decidendo sul gravame di COGNOME ha, in primo luogo, affermato che la pronunzia di illegittimità costituzionale dell’art. 11, L.R. Abruzzo n. 17/11 in tema di determinazione del compenso del Presidente dell’Azienda – non ha inciso sul diritto dei revisori nominati nell’ambito delle IPAB al compenso per l’attività professionale prestata, sia perché la pronuncia non aveva interessato il successivo art. 12 -dedicato, appunto, al compenso dei revisori -sia perché la sentenza della Corte Costituzionale n. 161/12 veniva a basarsi sulla natura onorifica della carica di presidente e di consigliere di amministrazione delle aziende pubbliche di servizi alla persona, laddove nel caso dei revisori deve essere escluso il carattere onorifico dell’incarico.
Ha quindi osservato la Corte territoriale che l’art. 21, comma 13, della stessa L.R. Abruzzo n. 17/11 aveva espressamente previsto per il revisore dei conti un compenso parametrato ad una percentuale di quanto spettante al Presidente dell’organismo Straordinario e che tale previsione era rimasta in vigore sino alla modifica operata con L.R. Abruzzo n. 43/13, la quale ha ridisegnato il compenso spettante ai
revisori prevedendo unicamente un rimborso delle spese peraltro debitamente documentate.
Sulla scorta di tale ricostruzione, la Corte d’appello ha escluso la fondatezza delle pretese azionate per gli anni 2014 e 2015, non avendo COGNOME COGNOME provveduto al deposito di documentazione alcuna che attestasse tali spese.
In relazione, invece, ai compensi richiesti per gli anni 2012 e 2013, la Corte territoriale ha ritenuto fondata la pretesa, rilevando l’esistenza di prova dell’incarico costituita dalla delibera della Giunta Regionale n. 576/2011 -e l’assenza di prova dell’adempimento, mentre ha disatteso le deduzioni degli appellati in ordine all’applicabilità degli artt. 159, D. Lgs. n. 267/2000 e 1, comma 210, Legge n. 244/2007.
Con successiva ordinanza ex art. 287 segg. c.p.c., la Corte territoriale ha disposto la correzione del capo c) del dispositivo della propria decisione -il quale disponeva, testualmente, ‘c) condanna l’appellante alla rifusione in favore della controparte delle spese del presente grado che liquida in € 2.400,00 per compensi professionali oltre al 15%, calcolato su detto importo, dovuto per spese forfetarie, IVA e CPA dovuti come per legge’ -stabilendo che là ove era scritto ‘condanna l’appellante’ deve intendersi invece scritto ‘condanna l’appellata’ .
Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di L’Aquila ricorrono gli ISTITUTI RIUNITI ASSISTENZA NOME COGNOME
È rimasto intimato COGNOME.
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, secondo comma, e 380bis .1, c.p.c.
Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte, chiedendo l’accoglimento del terzo motivo di ricorso
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è affidato a quattro motivi.
1.1. Con il primo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c. e 2967 c.c.
Si censura la decisione impugnata per aver parzialmente accolto la domanda dell’odierno intimato, sebbene quest’ultimo non avesse fornito adeguata prova del diritto azionato.
Argomenta, in particolare, il ricorso che l’intimato non ha dato prova né dell’ an né del quantum della propria pretesa, non avendo dimostrato né le attività effettivamente svolte a favore dell’odierno ricorrente, né l’entità dei compensi, essendosi limitato a produrre una mera ‘prenotula’.
1.2. Con il secondo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 21, comma 13, L.R. Abruzzo n. 17/11, nel testo vigente prima della modifica operata dalla successiva L.R. Abruzzo n. 43/2013.
Argomenta l’Ente ricorrente che la Corte territoriale, nell’accogliere parzialmente la domanda dell’intimato non avrebbe correttamente applicato l’art. 21, comma 13, della L.R. Abruzzo n. 17/11, in quanto avrebbe fatto riferimento alla delibera di Giunta n. 576/2011, la quale tuttavia veniva a conferire incarico per una pluralità di IPAB e non solo per l’odierno ricorrente, in tal modo gravando l’odierno ricorrente della integralità dei compensi richiesti dall’intimato.
1.3. Con il terzo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 5, L.R. Abruzzo n. 43/2013 e dell’art. 35 dello Statuto della Regione Abruzzo.
Argomenta l’Ente ricorrente che, alla luce della modifica apportata dall’art. 5, L.R. Abruzzo n. 43/2013 all’art. 21, comma 13, L.R. Abruzzo
17/11, i compensi richiesti dall’intimato dovevano essere esclusi anche in relazione al mese di dicembre 2013, operando già all’epoca la modifica.
1.4. Con il quarto motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 287 c.p.c.
Viene impugnata l’ordinanza con cui è stata disposta la correzione del capo c) del dispositivo della decisione della Corte d’appello, contestandosi che, nella specie, ricorresse un evidente errore materiale.
Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
Poiché ratio decidendi della sentenza impugnata è l’affermazione dell’assenza di prova del fatto estintivo dell’obbligazione , ritenuta dalla Corte d’appello medesima provata , era onere della parte ricorrente, nel rispetto del canone di specificità di cui all’art. 366 c.p.c. individuare in modo specifico le difese svolte nel giudizio di primo grado, in modo da permettere a questa Corte di verificare se effettivamente in quella sede fosse stato contestato il quantum dell’obbligazione dedotta.
Ulteriormente inammissibile è la deduzione di violazione dell’art. 115 c.p.c., dal momento che tale ipotesi si viene ad integrare solo nei casi in cui si denunci che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. Sez. U – Sentenza n. 20867 del 30/09/2020).
Inammissibile è anche il secondo motivo di ricorso.
Si deve rammentare che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione. (Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 16700 del 05/08/2020; Cass. Sez. 1 – Sentenza n. 24298 del 29/11/2016).
Il ricorrente, quindi, a pena d’inammissibilità della censura, ha l’onere di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. Sez. U – Sentenza n. 23745 del 28/10/2020).
Nel caso ora in esame il motivo non viene concretamente a dedurre alcuna violazione o falsa applicazione di legge ma si limita a censurare la valutazione in fatto operata dalla Corte d’appello circa la riferibilità dei compensi richiesti dall’intimato alla sola odierna ricorrente.
Si deve, allora, ribadire il principio per cui è inammissibile il ricorso per cassazione che, dietro l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U – Sentenza n. 34476 del 27/12/2019; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8758 del 04/04/2017), atteso che il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti (Cass. Sez. L, Sentenza n. 4293 del 04/03/2016; Cass. Sez. U, Sentenza n. 7931 del 29/03/2013).
Ulteriormente inammissibile è il terzo motivo di ricorso.
Si deve rilevare, preliminarmente, che la L.R. 25 novembre 2013, n. 43 è stata approvata dal Consiglio regionale con verbale n. 166/2 del 12 novembre 2013, pubblicata nel BURA 4 dicembre 2013, n. 44 ed entrata in vigore il 19 dicembre 2013 ai sensi dell’art. 35 dello Statuto ( ‘1. Le leggi regionali sono pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore dopo quindici giorni, salvo che le leggi stesse non dispongano diversamente’ ) richiamato dalla stessa ricorrente.
Osservato, allora, che la legge in questione è stata in vigore per poco più di dieci giorni del mese di dicembre 2013, incombeva sulla ricorrente, sempre nel rispetto della regola di specificità di cui all’art. 366 c.p.c. specificare non solo le modalità di maturazione del compenso dell’intimato, ma anche chiarire se nel periodo in questione l’intimato avesse svolto attività suscettibile di compenso.
Il quarto ed ultimo motivo è invece infondato.
Questa Corte ha già chiarito che il contrasto tra formulazione letterale del dispositivo e quanto dichiarato in motivazione, non incidendo sull’idoneità del provvedimento, considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale, non integra un vizio attinente alla portata concettuale e sostanziale della decisione, bensì un errore materiale, trattandosi di ovviare ad un difetto di corrispondenza tra l’ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica, rilevabile ictu oculi dal testo del provvedimento, senza che venga in rilievo un’inammissibile attività di specificazione o di interpretazione della sentenza (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 668 del 15/01/2019; Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 15321 del 12/09/2012).
Nel caso in esame la lettura della motivazione della sentenza impugnata evidenzia in modo univoco che la Corte di merito ha inteso applicare sui due gradi di giudizio il medesimo criterio di regolazione delle spese di lite, in ossequio, peraltro, al principio -da questa Corte enunciato -per cui in tema di regolamento delle spese processuali in appello, la soccombenza ex art. 91 c.p.c. va individuata ex post, con riguardo al processo considerato unitariamente, cioè all’esito della controversia decisa dal giudice dell’impugnazione e non dei singoli segmenti (grado e fase) del giudizio (Cass. Sez. 5 – Ordinanza n. 23639 del 03/09/2024; Sez. 2 – Ordinanza n. 9785 del 25/03/2022; Cass. Sez. 3 – Ordinanza n. 9064 del 12/04/2018; Cass. Sez. L, Sentenza n. 11423 del 01/06/2016).
Si intende agevolmente dalla lettura del provvedimento che le spese di appello sono state poste a carico dell’appellata, perché il criterio di soccombenza applicato è quello definito per le spese di primo grado -inequivocabilmente in motivazione liquidate in favore
dell’attore -appellante, evidentemente sulla base dell’esito complessivo della controversia – essendosi evidentemente fatto riferimento anche per le spese appello alla soccombenza, alla luce de ll’esito complessivo della controversia, da ciò derivando che correttamente la Corte territoriale ha ritenuto successivamente di poter procedere alla correzione di un evidente lasus calami .
6. Il ricorso deve quindi essere respinto.
Nulla sulle spese, non essendovi controricorso.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto” , spettando all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (Cass. Sez. U, Sentenza n. 4315 del 20/02/2020).
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il giorno 9 gennaio 2025.
Il Presidente
NOME COGNOME