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Compenso professionista fallimento: la Cassazione decide

La Corte di Cassazione si è pronunciata sul compenso di un professionista che ha assistito una società prima e dopo la sua dichiarazione di fallimento. La Corte ha confermato la decisione di ridurre del 50% il compenso per l’attività svolta in favore della procedura, motivando che tale attività era in gran parte una continuazione di quella già svolta e retribuita quando la società era in bonis. È stato chiarito che la liquidazione del compenso del professionista del fallimento segue una procedura specifica e non rientra nella verifica ordinaria dei crediti. Entrambi i ricorsi, principale del professionista e incidentale del fallimento, sono stati rigettati.

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Compenso professionista fallimento: la Cassazione fa chiarezza sulla riduzione

La determinazione del compenso del professionista nel fallimento è una questione delicata che interseca diritto fallimentare e normative tariffarie. Con l’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti sui criteri di liquidazione, in particolare sulla possibilità di ridurre il compenso quando l’attività prestata a favore della curatela è una prosecuzione di quella già svolta per la società quando era ancora operativa. Analizziamo la decisione per comprenderne i principi e le implicazioni pratiche.

I Fatti del Caso: La controversia sul compenso professionale

Un dottore commercialista aveva assistito una società per azioni in un complesso contenzioso tributario, ottenendo in primo grado l’annullamento di avvisi di accertamento. Successivamente, la società veniva dichiarata fallita. Il professionista continuava a difendere la posizione, ora nell’interesse del Fallimento, anche nel giudizio di appello promosso dall’Agenzia delle Entrate, conclusosi nuovamente in modo favorevole.

Al momento di liquidare il compenso per l’attività svolta in favore della procedura fallimentare, sorgeva una controversia. Il Tribunale, pur riconoscendo il diritto del professionista a un compenso, decideva di applicare una decurtazione del 50% sull’importo calcolato in base ai parametri minimi tariffari. La motivazione di tale riduzione risiedeva nel fatto che l’attività difensiva in appello era strettamente connessa e consequenziale a quella già svolta (e retribuita) nel primo grado di giudizio, quando la società era ancora in bonis.

Insoddisfatto, il commercialista proponeva ricorso in Cassazione, lamentando l’errata applicazione delle norme tariffarie. A sua volta, il Fallimento presentava un ricorso incidentale, contestando sia la procedura seguita per la liquidazione sia il mancato scomputo di una somma già versata dalla società prima del fallimento.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato sia il ricorso principale del professionista sia quello incidentale del Fallimento, confermando di fatto la decisione del Tribunale. La Corte ha ritenuto legittima la riduzione del compenso e ha respinto le argomentazioni procedurali e di merito sollevate dalla curatela fallimentare, compensando le spese tra le parti data la reciproca soccombenza.

Le motivazioni: la riduzione del compenso del professionista nel fallimento

Il cuore della decisione della Cassazione risiede nella giustificazione della riduzione del 50% del compenso. I giudici hanno stabilito che il Tribunale ha correttamente applicato i parametri tariffari, dando conto in modo logico delle ragioni della dimidiazione.

La continuità dell’attività difensiva

La Corte ha evidenziato che l’attività difensiva svolta dal professionista nel giudizio d’appello per conto del Fallimento era una naturale prosecuzione di quella già espletata nel primo grado. Il lavoro di studio, analisi e difesa era già stato in gran parte compiuto. Pertanto, l’impegno richiesto nel secondo grado era oggettivamente inferiore, giustificando una riduzione del compenso ai sensi dell’art. 18 del D.M. 140/2012, che prevede tale possibilità quando la prestazione non implica la soluzione di questioni complesse o nuove.

L’irrilevanza della precedente remunerazione

È stato inoltre precisato che, ai fini della decisione, era irrilevante stabilire se il professionista fosse stato ‘adeguatamente’ remunerato per l’attività svolta prima del fallimento. Il Fallimento non può farsi carico di obbligazioni pregresse della società fallita. La valutazione doveva concentrarsi unicamente sulla complessità e sul valore dell’attività prestata specificamente in favore della procedura concorsuale.

La reiezione delle altre istanze

La Corte ha anche dichiarato inammissibili le doglianze del professionista relative a un presunto compenso per attività stragiudiziali successive alla sentenza d’appello. Tali richieste sono state giudicate generiche, in quanto il ricorrente non aveva chiarito se e quale specifico compenso avesse richiesto per tali attività, né ne aveva indicato l’ammontare. Il provvedimento impugnato, inoltre, aveva già escluso la prova di vere e proprie ‘negoziazioni transattive’, riconoscendo solo iniziative volte a sollecitare l’annullamento in autotutela da parte dell’amministrazione finanziaria.

Conclusioni: Implicazioni pratiche della Sentenza

Questa ordinanza della Cassazione fornisce un principio guida fondamentale per la liquidazione del compenso del professionista nel fallimento. La decisione sottolinea che, nel determinare il giusto compenso, il giudice deve tenere conto della ‘obiettiva interrelazione’ tra l’attività professionale pregressa e quella svolta per la curatela. Se l’incarico conferito dal fallimento rappresenta la continuazione di un’attività già avviata, è legittima una riduzione del compenso basata sulla minore complessità e sul ridotto impegno richiesto. Per i professionisti, ciò implica la necessità di documentare in modo analitico e specifico ogni attività svolta per la procedura, distinguendola nettamente da quella precedente, soprattutto se si intende richiedere compensi separati per fasi diverse o per attività stragiudiziali.

Quando può essere ridotto il compenso di un professionista che assiste un fallimento?
Il compenso può essere ridotto, fino al 50%, quando l’attività professionale svolta per il fallimento, come un appello, costituisce una prosecuzione di un’attività già svolta in precedenza (es. nel primo grado di giudizio) e non implica la soluzione di questioni nuove o particolarmente complesse. La riduzione si giustifica sulla base della bassa difficoltà e complessità dell’incarico, tenuto conto del lavoro di studio e difesa già effettuato.

Un pagamento ricevuto da una società prima del fallimento può essere considerato un acconto per l’attività svolta a favore della curatela?
No. La Corte ha chiarito che le somme corrisposte dalla società quando era ancora in bonis remunerano le prestazioni professionali svolte prima della dichiarazione di fallimento. Tali importi non possono essere computati per liquidare il compenso relativo all’attività successiva, svolta in favore del Fallimento, poiché quest’ultimo non può farsi carico delle obbligazioni della società fallita.

Come vengono accertati i crediti dei professionisti sorti per assistere la procedura fallimentare?
I crediti prededucibili dei professionisti nominati dagli organi della procedura, se contestati, devono essere accertati con il procedimento speciale previsto dall’art. 26 della legge fallimentare (reclamo al tribunale contro gli atti del giudice delegato). Questa è un’eccezione alla regola generale che prevede l’accertamento dei crediti tramite la procedura di ammissione al passivo (artt. 92 e segg. l.fall.).

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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