Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 3318 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 2 Num. 3318 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 06/02/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 8633/2017 R.G. proposto da
COGNOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO, elettivamente domiciliato in Roma, INDICOGNOME, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO
-RICORRENTE –
contro
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, in persona del liquidatore pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio in Roma, INDICOGNOME.
-CONTRORICORRENTE- avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo n. 327/2016, pubblicata il 28 febbraio 2016.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del giorno 11.1.2024 dal AVV_NOTAIO.
Udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Generale NOME AVV_NOTAIO, che ha chiesto di respingere il ricorso.
Oggetto:
compensi
professionali
Udito l’AVV_NOTAIO.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 10 novembre 2003, l’RAGIONE_SOCIALE ha proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 2046/2003 emesso dal Tribunale di Palermo in favore dell’ing. NOME COGNOME, per l’importo di € 87.112,01, quale compenso per l’espletamento dell’incarico di Presidente della commissione di collaudo statico dei lavori di realizzazione della Diga Blufi, sul fiume Imera Meridionale. Ha dedotto che, nonostante il richiamo alle tariffe professionali contenuto nell’atto di conferimento dell’incarico, il COGNOME aveva titolo a percepire solo una quota del compenso unico previsto per l’intera commissione ( e non l’intero compenso per l’opera svolta ), secondo quanto stabilito dall’art. 7 L.R. 21/1985, in deroga alla generale previsione dell’art. 7 L. 143/1949.
Instaurato il contraddittorio, il Tribunale, espletata c.t.u. per la quantificazione delle spettanze, con sentenza n. 2923/2010 ha respinto l’opposizione, regolando le spese.
Sul gravame interposto dall’E.A.S., la Corte di appello di Palermo, nella resistenza di NOME COGNOME, ha revocato il decreto ingiuntivo n. 2046/03 e ha condannato l’E.A.S al pagamento di €. 21.189,83 euro, oltre interessi, e alla rifusione della metà delle spese processuali, delle spese di CTU e del procedimento monitorio.
Il Giudice territoriale ha ritenuto le parti, nel concordare i criteri di quantificazione del compenso, non avessero inteso derogare alla disciplina, avente carattere imperativo, dell’art. 7 della L.R. 21/1985, e ha liquidato al ricorrente solo una quota del compenso unitario spettante all’intera Commissione.
Lo stesso riferimento alla natura collegiale delle attività, contenuto nella delibera di incarico, era teso ad evidenziare -secondo la pronuncia l’unitarietà ed inscindibilità delle attività di collaudo, non suscettibili di essere frazionate e svolte autonomamente dai singoli componenti, senza comportare anche l’applicazione delle
norme della legge professionale che riconoscevano a ciascun componente il diritto a percepire l’intero compenso per l’opera svolta, spettando infine, sempre in applicazione della disciplina regionale, solo il rimborso delle spese documentate, e non un importo calcolato in misura forfettaria, secondo le previsioni delle tariffe professionali.
Avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME sulla base di sei motivi, cui ha resistito con controricorso l’RAGIONE_SOCIALE
Con ordinanza interlocutoria n.19896/2023, la causa è stata rimessa alla pubblica udienza per la particolare rilevanza delle questioni poste dai motivi terzo, quinto e sesto, vertenti sulla possibilità che la legge regionale intervenga a regolare la misura ed il criterio di calcolo del compenso professionale per le attività di collaudo di un’opera pubblica.
Le parti hanno depositato memorie illustrative.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza o del procedimento ex art.360 n.4 c.p.c. e la violazione dell’art.101, comma 2 c.p.c., per aver la Corte di Appello ritenuto che l’art. 7 della L.R. n. 21/1985 costituisse norma imperativa, insuscettibile di deroga pattizia attraverso il richiamo alla legge professionale degli ingegneri e degli architetti, e per aver, quindi, rilevato d’ufficio e dichiarato la nullità parziale del contratto senza sottoporre la questione al contraddittorio delle parti.
Con il secondo motivo si deduce la nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 n. 4 c.p.c., la violazione del giudicato interno, nonché la violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c., 324 e 329 c.p.c. e 1421 c.c., contestando alla Corte di appello di aver dichiarato la nullità parziale del contratto, relativamente alla clausola di determinazione del compenso, in violazione del giudicato interno sulla validità dell’incarico, non potendo applicare
neppure un criterio di quantificazione del corrispettivo diverso da quello adottato dal Tribunale.
I due motivi sono infondati.
Il primo giudice, nel respingere l’opposizione dell’Eas all’ingiunzione con cui era intimato il pagamento di un importo pari all’intero compenso dovuto in applicazione della tariffa professionale, aveva ritenuto che le parti avessero validamente derogato al disposto dell’art. 7 L. R. 21.1985, norma che, nel testo all’epoca in vigore, disponeva che l’incarico di collaudo a commissioni, ai fini dell’ applicazione delle tariffe professionali, s’intendeva affidato a professionisti non riuniti in collegio (norma poi modificata dall’ art. 120, L.R. 2/2002 e che ora contempla una disposizione analoga a quella dell’art. 7 L.P.).
Nel ritenere applicabile l’originario testo della norma regionale – e perciò spettante al ricorrente una quota del compenso unitario – la Corte d’appello non ha affatto dichiarato d’ufficio la nullità parziale dell’accordo, essendosi limitata ad interpretarne il contenuto e ad affermare, contrariamente al primo giudice, che l’incarico era conforme alle previsioni della normativa regionale in tema di lavori pubblici, prevedendo la frazionabilità del compenso unico spettante alla Commissione.
Su tale profilo non occorreva provocare il contraddittorio tra le parti, essendo la questione dedotta con i motivi di appello ed essendo tema controverso sin dal primo grado; non risulta poi adottata alcuna statuizione in contrasto con il giudicato interno implicito sulla validità del contratto, avendo il giudice solo individuato quale fosse il criterio di calcolo del compenso stabilito dalle parti.
Con il terzo motivo il ricorrente si duole della violazione e/o della falsa applicazione dell’art. 7 della L. 143/1949 e dell’art. 7 della L.R. 21/1985, nonché degli artt. 1418, comma primo, 1421, 2233 c.c., 81, 82 e 86 del Trattato CE, 101 del TFUE e degli artt. 3
e 117 Cost., per aver la Corte d’appello ritenuto applicabile l’art. 7 della L.R. n. 21/85, intesa quale norma inderogabile, e non la legge professionale che, in caso di incarico collegiale, attribuisce ai singoli componenti il diritto ad ottenere l’intero compenso per l’opera svolta.
Il quarto motivo denuncia la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 1362 e 1370 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma primo, nn. 3 e 5 c.p.c., contestando alla Corte di merito di aver omesso di considerare il fatto decisivo dell’avvenuto pagamento da parte dell’RAGIONE_SOCIALE di ben due fatture d’acconto calcolate secondo i criteri previsti dalla tariffa professionale, elemento decisivo per ritenere che le parti avevano voluto regolare il rapporto in base alle previsioni della legge n. 143/1949, e per non aver dato rilievo al dato letterale dell’atto di incarico che prevedeva espressamente che per lo svolgimento del collaudo i professionisti si intendevano riuniti in collegio.
Il quinto motivo denuncia la violazione degli artt. 13 L. 143/1949 e 26 L.R. 21/1985 nonché l’omesso esame di un fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360, comma primo, nn. 3 e 5 c.p.c., censurando la pronuncia per aver ritenuto erroneamente applicabile la disciplina regionale e perciò riconosciuto il rimborso delle sole spese vive documentate e non un importo calcolato a percentuale in via forfettaria.
I tre motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
2.1. Occorre preliminarmente ribadire che la Corte di appello, interpretando il contenuto dell’atto di incarico, ha escluso che le parti avessero concordato una deroga alla disciplina regionale in tema di frazionabilità del compenso unico dovuto alla Commissione di collaudo, essendosi invece conformate alla previsione dell’art. 7 L. 21/1985, la cui applicazione al caso concreto è stato, perciò,
ritenuta effetto di una precisa scelta contrattuale, indipendente dall’eventuale inderogabilità della disposizione.
2.2. Va, in ogni caso, posto in rilievo che la legge regionale 21/1985 disciplina i contratti di affidamento dei lavori pubblici di interesse regionale, per la realizzazione delle opere di competenza dell’Amministrazione regionale, di aziende ed enti pubblici da essa dipendenti e/ o comunque vigilati, degli enti locali territoriali e/ o istituzionali, nonché degli enti ed aziende da questi dipendenti e/ o comunque sottoposti a vigilanza, qualunque sia l’importo dell’ opera e la fonte dei finanziamenti, salvo speciali, esplicite disposizioni legislative per opere finanziate dallo Stato o da enti statali.
Ciascuna amministrazione è, in particolare, tenuta ad elaborare un programma triennale delle opere tenendo conto, per il triennio considerato, delle disponibilità economiche, dei mezzi finanziari acquisibili per assegnazione dalla Regione, dallo Stato, dalla RAGIONE_SOCIALE, dalla RAGIONE_SOCIALE e da qualsiasi ente abilitato al finanziamento di opere pubbliche.
E’ fatto divieto di finanziare opere non incluse nei programmi, salvo ipotesi eccezionali (art. 3).
L’Amministrazione regionale provvede al finanziamento delle predette opere pubbliche con programmi di spesa o con programmi derivanti da speciali provvedimenti legislativi.
Ai sensi dell’art. 5 competono ai singoli enti le iniziative relative alla progettazione, appalto ed esecuzione delle opere pubbliche di rispettiva competenza, dovendo provvedere a tutti i costi che ne conseguono; per le spese tecniche dei lavori in appalto (art. 7) è previsto nei progetti l’importo del finanziamento, comprensivo degli oneri fiscali a carico dell’ ente committente, sottoposto al controllo dell’organo destinato ad esprimere i pareri tecnici.
La quantificazione dei compensi deve avvenire in applicazione della tariffa professionale degli architetti o ingegneri; specifiche
previsioni riguardano le spettanze dell’ingegnere capo (quantificati in misura pari al 10% o al 20% dell’aliquota della tabella A della legge 143/1949 e successive modificazioni), e la misura del rimborso delle spese, con rinvio al D.M. 22608/1955 (Disciplinare tipo» per il conferimento di incarichi a liberi professionisti per la progettazione e direzione di opere pubbliche).
Alla commissione di collaudo sono dedicate le previsioni dell’art. 8, secondo cui gli incarichi di vengono affidati con apposita delibera dell’ente interessato, del comma nono dell’art. 7, secondo cui l’incarico di collaudo a commissioni o a più professionisti, ai fini dell’applicazione delle tariffe professionali, s’intende affidato a professionisti non riuniti in collegio, e dall’art. 26, che prevede il rimborso delle spese del collaudo solo se documentate.
La disciplina dei compensi si inscrive, pertanto, in un sistema caratterizzato dalla rigida programmazione delle opere, modulata a sua volta sulle disponibilità economiche di ciascun ente e sulle possibili fonti di finanziamento, con previsione di controlli, specie di sostenibilità finanziaria, per obiettivi di razionale pianificazione degli interventi e di efficienza della pubblica amministrazione, obiettivi al cui conseguimento concorrono anche le disposizioni che regolamentano i criteri di calcolo dei compensi a tutela di interessi generali ricollegabili alla prevedibilità dei costi (anche nel sancire l’applicazione delle tariffe per il calcolo delle spettanze professionali, non potendo l’amministrazione prescindere da tali criteri o eccedere dalla misura risultante dalla loro corretta applicazione), dovendo condividersi la conclusione cui è pervenuta la Corte di merito in ordine all’inderogabilità delle relative previsioni.
2.3. Per rispondere ai quesiti posti dall’ordinanza interlocutoria, va evidenziato inoltre che l’art. 7, comma nono, della L.R. 21/1985, nella formulazione applicabile ratione temporis, è stato adottato dalla Regione Siciliana prima della riforma costituzionale dell’art.
117 Cost., nell’esercizio della potestà normativa primaria contemplata dallo Statuto speciale in materia di lavori pubblici di esclusivo interesse regionale (art. 3, ora art. 14, comma primo, lettera g), dello Statuto, che assegna alla Regione la materia dei lavori pubblici, eccettuate le grandi opere di interesse prevalentemente nazionale), regolando i criteri e gli oneri delle spese tecniche relativamente a tale settore, non incidendo sull’intera della disciplina delle professioni relativamente alle misura dei compensi.
Il carattere settoriale della disposizione e la sua riconducibilità alla materia riservata per Statuto appaiono innegabili, pur tenendo conto che i lavori pubblici «non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono» e pertanto possono essere ascritti, di volta in volta, a potestà legislative statali o regionali; non essendo configurabile un ambito materiale afferente al settore dei lavori pubblici di interesse regionale, i problemi, anche di costituzionalità, delle norme devono essere esaminati in rapporto al contenuto precettivo delle singole disposizioni impugnate, al fine di stabilire quali siano gli ambiti materiali in cui esse trovano collocazione (cfr., con riferimento alla disciplina del novellato art. 117 Cost., Corte cost. 303/2003).
Per quanto poi più specificamente attiene alla disciplina delle professioni, solo a seguito della riforma dell’art. 117 Cost. essa è divenuta oggetto di legislazione concorrente e, peraltro, spetta attualmente allo Stato la determinazione dei principi fondamentali, mentre la potestà legislativa regionale deve svolgersi – anche rispetto alle regioni a Statuto speciale – nel rispetto del limite che riserva allo Stato l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti didattici, e l’istituzione di nuovi albi (cfr. Corte Cost. 353/2003; Corte cost. 424/2005).
Non è predicabile -infine -una preclusione assoluta all’intervento del legislatore regionale nel settore dei compensi professionali
nonostante la possibile interferenza con gli istituti di diritto privato generale, posto il principio per cui ‘ le condizioni che consentono a una disposizione regionale, che intersechi la materia privatistica, di superare il vaglio di legittimità costituzionale in riferimento all’«ordinamento civile» consistono nel fatto che l’intervento deve essere connesso con una materia di competenza regionale, deve essere marginale e deve risultare conforme al principio di ragionevolezza, proprio nel rispetto del principio di eguaglianza, che incarna la ratio del limite medesimo (cfr. testualmente, Corte cost. 132/2023; Corte cost. 283/2016 e Corte cost. 295/2009).
2.3. In conclusione la disciplina regionale non si espone ai dubbi sollevati dall’ordinanza interlocutoria: l’art. 7 L.R. 21/1985 conteneva, appunto, una misura di contenimento delle spese tecniche per ragioni di finanza pubblica in una materia (i compensi) strettamente interrelata ad altra materia oggetto di riserva legislativa statutaria (i lavori pubblici di interesse regionale: cfr., nell’attuale regime dell’art. 117 Cost. Corte cost. 187/2013), con effetti limitati solo a tale ambito. La norma appare ispirata da ragioni di interesse pubblico (contenimento e prevedibilità dei costi in funzione della programmazione degli interventi) senza porsi in contrasto con i principi cardine dell’ordinamento nazionale e senza introdurre ingiustificate discriminazioni.
La stessa norma statale di cui all’art. 7 L. 143/1949 (secondo cui, quando un incarico viene dal committente affidato a più professionisti riuniti in collegio, a ciascuno dei membri del collegio è dovuto l’intero compenso risultante dalla applicazione della presente tariffa), non ha, difatti, valore imperativo ed è derogabile per volontà delle parti.
Si era già ritenuto da questa Corte che eventuali accordi difformi non ledessero il principio di inderogabilità dei minimi di tariffa all’epoca vigenti, in considerazione del fatto che l’art. 6 della L. 404/1977, interpretando autenticamente l’articolo unico della L.
340/1976 – che aveva sancito l’inderogabilità dei minimi delle tariffe professionali degli ingegneri e degli architetti – ne aveva limitato l’applicazione ai rapporti intercorrenti tra privati, con previsione reputata non in contrasto con l’art. 3 Cost., poiché la derogabilità dei minimi tariffari prevista dall’art. 6, cit., riguardava anche i professionisti privati (Cass. 20296/2004; Cass. 14187/2011; Cass. 22482/2018).
2.4. In conclusione, il terzo motivo è infondato perché la sentenza ha ritenuto, con motivazione logica, che l’atto di incarico fosse conforme e non avesse derogato alla legislazione regionale in tema di incarichi collegiali, senza dichiararne la nullità parziale relativamente al criterio di calcolo delle spettanze professionali, non essendovi un obbligo di sottoporre la questione al contradditorio delle parti, in quanto già dedotta dall’EAS sin dal primo grado e con il successivo gravame.
E’ insussistente anche la violazione dell’art. 1362 c.c. poiché la Corte di merito, interpretando il contenuto della delibera di incarico, ha affermato che il riferimento, ivi contenuto, alla natura collegiale delle attività di collaudo valeva a ribadire l’inscindibilità della prestazione (non eseguibile individualmente dai singoli componenti), non a rendere applicabile in toto la legge professionale, con interpretazione che appare del tutto plausibile e coerente con il criterio letterale, dato che tale inciso non era formulato anche ‘ai fini dell’applicazione delle tariffe’, come invece aveva cura di precisare il testo originario dell’art. 7 L. R. 21/1985.
Nessun rilievo interpretativo, quale comportamento successivo dei contraenti (art. 1362, comma secondo, c.c.), poteva assumere il pagamento di acconti, considerata la natura pubblica dell’ente conferente e le modalità, anche formali e vincolanti, di conferimento dell’incarico previsti dall’art. 8 L.R. 21/1985, il cui contenuto era insuscettibile di essere esplicitato o integrato mediante successivi comportamenti attuativi.
Legittimo era anche il riconoscimento delle sole spese documentate, in ottemperanza al disposto dell’art. 26, comma decimo, della L.R. cit., vigente all’epoca della costituzione del rapporto.
Il sesto motivo denuncia la violazione dell’art. 13 legge n. 143/1949 e dell’art. 26 L.R. n. 21/1985 e l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte distrettuale commesso un errore di calcolo per difetto, avendo applicato un ‘ulteriore riduzione del 50% sull’importo base, recependo acriticamente le risultanze della relazione peritale, benché il ricorrente avesse tempestivamente e ritualmente segnalato l’erroneità del calcolo.
Il motivo è inammissibile per difetto di specificità.
La sentenza impugnata ha confermato la quantificazione del compenso base (salva la ripartizione di tale importo base tra i componenti della Commissione) già oggetto della decisione di primo grado e l ‘errore , in cui sarebbe già incorso il Tribunale, non risulta oggetto dei motivi di appello, di esso non fa menzione la sentenza impugnata, né il ricorso chiarisce se e quando sia stata dedotto in appello, limitandosi a denunciarne la sussistenza mediante un mero rinvio alle deduzioni difensive di primo grado e al contenuto della c.t.u., senza offrire indicazioni adeguatamente dettagliate sulle ragioni della dedotta violazione.
In conclusione, il ricorso è respinto, con aggravio delle spese processuali liquidate in dispositivo.
Si dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, pari ad € 7200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%.
Dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda