Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 5878 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 5878 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 05/03/2025
Oggetto: Compensi Ingegnere
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26097/2019 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE rappresentati e difesi dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO
-ricorrenti –
contro
COGNOME NOMECOGNOME NOME e COGNOME, rappresentati e difesi dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME.
-controricorrenti e ricorrenti incidentali – avverso la sentenza n. 508/2019 della Corte d’Appello di Perugia, depositata il 21/8/2019 e non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 4/2/2025 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
Con sentenza n. 187/16, pubblicata il 2/2/2017, il Tribunale di Perugia accolse parzialmente l’opposizione, proposta dalla società RAGIONE_SOCIALE e da RAGIONE_SOCIALE NOME avverso il decreto ingiuntivo n. 256/2012, emesso dal medesimo giudice, con il quale era stato ingiunto ai predetti il pagamento, in favore dei ricorrenti COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, quali eredi dell’Ing. NOME COGNOME, della somma di euro 208.036,39, oltre accessori, a titolo di corrispettivo spettante al loro dante causa per l’attività professionale da questi svolta, revocando il predetto decreto, condannando gli opponenti al pagamento della somma di euro 176.021,02, oltre accessori, compensando per 1/5 le spese del giudizio e ponendo il residuo a carico degli opponenti. NOME proposero appello avverso la predetta sentenza, incardinando un giudizio nel quale si costituirono gli appellati che ricevettero, in corso di causa, dagli appellanti la somma di euro 75.000,00, oltre a
La società RAGIONE_SOCIALE quella di euro 10.260,00 per le spese legali.
Con sentenza n. 508/2019 depositata il 21/8/2019, la Corte d’Appello di Perugia, affermando di accogliere parzialmente l’appello, condannò gli appellanti, in solido, al pagamento, in favore degli appellati, della somma di euro 135.795,82, oltre interessi, detratto quanto già pagato, e condannando i medesimi al pagamento delle spese del grado e della c.t.u.
Contro la predetta sentenza, RAGIONE_SOCIALE e COGNOME Salvatore propongono ricorso per cassazione affidato a nove motivi, illustrati anche con memoria. COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME si sono difesi con controricorso.
Considerato che :
Con il primo motivo di ricorso principale, si lamenta la nullità della sentenza o del procedimento, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito reso una motivazione affetta da contrasto non superabile tra affermazioni inconciliabili, allorché avevano affermato, in motivazione, che l’appello andava rigettato, per poi dichiararlo parzialmente accolto in dispositivo; avevano liquidato compensi in via equitativa anche per attività definita non svolta dal professionista; avevano omesso di applicare la decurtazione del 25% delle prestazioni a vacazione, come, invece, affermato dal c.t.u., senza motivare sul punto.
Con il secondo motivo di ricorso principale, si lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697, 2222 e 2225 cod. civ., nonché del protocollo d’intesa tra gli ordini professionali e la Regione Umbria dal 07/02/2001, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, pur partendo dal corretto principio secondo non poteva utilizzarsi la notula prodotta, in quanto occorreva dimostrare l’effettività delle prestazioni svolte, avevano poi riconosciuto prestazioni per le quali, secondo il c.t.u., non vi erano supporti probatori, come nel caso dei compensi a vacazione (incidenti per il 40% sul totale dei compensi), concessi per intero nella somma complessiva di euro 59.224,43, con la sola decurtazione della somma di euro 7.703,57 (dovuta all’errore del professionista che aveva comportato il mancato riconoscimento del contributo da parte dell’Ente pubblico per la ricostruzione), nonostante il c.t.u. avesse evidenziato l’assenza di documentazione illustrativa, oltre ad avere omesso di motivare.
Con il terzo motivo di ricorso principale, si lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697, 2222 e 2225 cod. civ., nonché del protocollo d’intesa tra gli ordini professionali e Regione Umbria
del 07/02/2001, art. 13 legge n. 143 del 1949, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito ritenuto facoltativo il riconoscimento della maggiorazione di cui all’art. 13 legge n. 143 del 1949, senza considerare che, a tali fini, è sempre necessario allegare e provare i fatti e le prestazioni poste a giustificazione della richiesta, essendo forfetaria la sola quantificazione, prova sulle attività extra che non era stata invece fornita, non essendo sufficiente il ricorso agli usi, come suggerito dal c.t.u.
Con il quarto motivo di ricorso principale, si lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 1194 e ss., 1199, 2702, 2708 cod. civ., 112, 115 e 116, 215 e ss. cod. proc. civ., e la nullità della sentenza o del procedimento, in relazione all’art. 360, nn. 4-3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito omesso di pronunciarsi in ordine alla fattura, vergata dal professionista defunto, dicente ‘saldato il 4/2/2006, 16.000,00 euro’, in virtù della quale avrebbero dovuto decurtare detto importo dal totale, nonostante la questione fosse stata sollevata in tutti i gradi di merito.
Con il quinto motivo di ricorso principale, si lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 1194 e ss., 1199, 2702 e ss. e 2708 cod. civ., 112, 115 e 116, 215 cod. proc. civ., 2730 cod. civ., e la nullità della sentenza o del procedimento, in relazione all’art. 360, n. 3-4, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito posto in essere la condotta descritta nel precedente quarto motivo, così omettendo di esprimersi sulla dovuta rivalutazione delle voci esposte nella nota del 16/2/2005 rispetto alle corrispondenti voci presenti nelle note del 13/3/2012, depositate dagli eredi in allegato al ricorso per decreto ingiuntivo. Inoltre, i giudici avevano erroneamente ritenuto irrilevante il certificato di regolare esecuzione dei lavori, redatto dal professionista e presentato al Comune di Foligno al fine di ottenere
l’erogazione di contributi pubblici per il terremoto, in quanto privo di valenza ricognitiva, trattandosi di credito e non di debito. Ad avviso dei ricorrenti, questo documento, contenente l’indicazione del minor importo di euro 50.620,73, con le giustificazioni e causali anche con riferimento alle prestazioni a vacazione, avrebbe dovuto, invece, essere qualificato in termini di atto confessorio stragiudiziale ed essere valutato al fine di contenere entro quei limiti l’accoglimento della domanda di pagamento del compenso, mentre i giudici non ne avevano fatto menzione.
Con il sesto motivo di ricorso principale, si lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 1226 cod. civ., 113, 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici di merito avevano liquidato equitativamente il compenso per attività non svolte dal professionista, senza considerare che non potevano porre in essere liquidazioni equitative per attività non svolte e che il ricorso a detto criterio era subordinato alla condizione dell’impossibilità o estrema difficoltà di provare la pretesa nel suo preciso ammontare, mentre la sentenza era sul punto priva di motivazione.
Con il settimo motivo di ricorso principale, si lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., perché i giudici di merito avevano omesso di considerare che non poteva provvedersi alla liquidazione delle vacazioni e della maggiorazione forfetaria ex art. 13 legge n. 143 del 1949 senza che fosse dimostrata l’attività anche extra svolta dal professionista; avevano omesso di analizzare il documento n. 1 (ossia la fattura dicente ‘saldato il 4/2/2006, 16.000,00 euro’), così violando l’art. 2708 cod. civ., oltre a non avere considerato che lo stesso professionista aveva indicato importi inferiori rispetto a quelli chiesti in sede monitoria; avevano omesso di considerare il
certificato di regolare esecuzione dei lavori, presentato dal professionista al Comune di Foligno, nel quale il compenso del predetto era stato indicato nella minor misura di euro 50.620,73, benché avesse natura confessoria; avevano omesso di decurtare del 25% in via forfetaria, come affermato dal c.t.u., la liquidazione per vacazioni.
Con l’ottavo motivo di ricorso principale, si lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2229 e ss., 2236, 1223 e 1460 cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito rigettato la domanda riconvenzionale proposta in sede di opposizione in relazione all’errore commesso dal professionista, allorché aveva dichiarato l’avvenuto avvio dei lavori afferenti al fabbricato n. 3058, benché ciò non fosse vero, come rilevabile dalla relazione del medesimo professionista inviata per rimediare all’errore, e avere così determinato, con la sua condotta, la perdita del contributo e l’esclusione della società dal bando. Secondo i ricorrenti il predetto, a causa della propria condotta, aveva perso il diritto al compenso, non essendo rilevante il fatto che nel 2001 fosse o meno prevedibile l’uscita del bando, come affermato dai giudici.
Con il nono motivo di ricorso principale, si lamenta, infine, la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito posto a carico dei ricorrenti nella misura di 4/5 le spese del giudizio e integralmente quelle della c.t.u., senza considerare la reale soccombenza e senza considerare l’avvenuto pagamento, in corso di giudizio, della somma di euro 75.000,00 in favore degli eredi COGNOME
Preliminarmente, occorre respingere le eccezioni di inammissibilità del ricorso, per omessa esposizione dei fatti di
causa, e dei singoli motivi, in assenza di specificazioni su quale errore fosse riferibile ai singoli vizi enunciati.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito (tra le tante Cass., Sez. 6-3, 28/5/2018, n. 13312; Cass., Sez. 6-3, 3/2/2015, n. 1926).
Tali incombenze sono state ampiamente rispettate nel ricorso, nel quale si dà conto dello svolgimento e dell’esito del giudizio di primo e secondo grado e delle questioni sottoposte all’attenzione dei giudici, con conseguente infondatezza della prima eccezione.
Quanto alla seconda, non è fondata la generica eccezione di inammissibilità delle singole censure, essendo chiara per ciascuna di esse la doglianza prospettata in relazione alla decisione.
11. Venendo al merito, il primo motivo è infondato.
Costituisce principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (affermato recentemente anche da Cass., Sez. U, 30/1/2023, n. 2767, in motivazione), quello secondo cui «la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo
costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (tra le varie, Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629830).
L’anomalia motivazionale che si concretizza nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” sussiste nell’ipotesi in cui la motivazione non renda percepibile l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, di conseguenza, non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice (Cass., Sez. L, 17/05/2018, n. 12096; Cass., Sez. 6-L, 25/06/2018, n. 16611).
Tale situazione non è però configurabile in caso di contrasto tra dispositivo e motivazione allorché sussista una parziale coerenza tra le due parti della sentenza e la motivazione sia ancorata a elementi obiettivi che la sostengono (Cass., Sez. L, 27/8/2024, n. 23157), ove si consideri che l’esatto contenuto della sentenza deve essere individuato non alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione nella parte in cui la medesima riveli l’effettiva volontà del giudice, sicché va ritenuta prevalente la parte del provvedimento maggiormente attendibile e capace di fornire una giustificazione del dictum giudiziale (Cass.,
Sez. 2, 21/08/2023, n. 24867; Cass., Sez. 6-1, 18/10/2017, n. 24600; Cass., Sez. 1, 10/09/2015, n. 17910).
Sulla base di tali principi, deve allora ritenersi che nella specie non sussista una reale impossibilità di verificare se l’appello fosse stato respinto o accolto parzialmente, in quanto, nonostante l’effettiva discrasia esistente tra motivazione (nella quale si parla di infondatezza della impugnazione e di conferma della sentenza di primo grado) e dispositivo (nel quale risulta, invece, il parziale accoglimento dell’appello), è rimasta comunque chiara la reiezione della pretesa degli appellanti di nulla dovere agli appellati e altrettanto evidente la riduzione dell’importo liquidato, rispetto a quello calcolato dal giudice di primo grado, sicché il contratto lamentato poteva essere emendato attraverso il procedimento di correzione di errore materiale.
Ne può dirsi che il vizio lamentato possa ravvisarsi in quelle parti della motivazione che attengono al rapporto tra prova dell’attività svolta dal professionista e liquidazione dei compensi e, in particolare, alla determinazione equitativa del compenso per attività asseritamente non svolte, posto che la frase in questione è stata dai giudici riferita ai calcoli compiuti dal c.t.u. e successivamente rettificata allorché è stato precisato che quest’ultimo aveva compiuto un’indagine approfondita sulla reale entità delle opere eseguite dal dante causa degli appellati, precisando che esse non erano limitate all’attività di progettazione e direzione dei lavori, ma erano estese anche ad attività collaterali. Ne consegue l’infondatezza della censura.
12.1 Il secondo, terzo e sesto motivo, da trattare congiuntamente perché strettamente connessi, sono fondati.
Al riguardo occorre considerare come l’art. 13 della legge 2 marzo 1949, n. 143, stabilisca che ‘ gli onorari a percentuale comprendono tutto quanto è dovuto al professionista per l’esaurimento
dell’incarico conferitogli, restando a carico di esso tutte le spese di ufficio, di personale di ufficio – sia di concetto che d’ordine – di cancelleria, di copisteria, di disegno in quanto strettamente necessarie allo svolgimento dell’incarico ‘, sebbene siano dovuti a parte e in aggiunta ‘ gli eventuali compensi a rimborso di cui agli articoli 4, 6 e 17 ‘ (primo comma), tali essendo gli onorari correlati a prestazioni di carattere normale nelle quali il tempo concorre come elemento precipuo di valutazione e alle quali non sarebbero perciò applicabili le tariffe a percentuale o a quantità, che devono essere valutati in ragione di tempo e computati a vacazione (art. 4) e il rimborso delle spese, come ad esempio quelle di viaggio, di bollo, di registro ecc. (art. 6), salva la facoltà, per il professionista, di ‘ essere compensato a norma del presente articolo, ovvero, d’accordo col committente, di conglobare tutti i compensi accessori di cui agli articoli 4 e 6 in una cifra che non potrà superare il 60 per cento degli onorari a percentuale ‘ (secondo comma).
In sostanza, ai sensi degli artt. 4 e 6 della citata legge il professionista ha diritto ad ottenere, oltre agli onorari a percentuale (in ragione dell’importo dell’opera), comprensivi di tutte le spese di ufficio, di personale di ufficio, di cancelleria, di copisteria o di disegno da lui sostenute, anche e in aggiunta gli eventuali rimborsi delle spese da questi anticipate, necessarie per lo svolgimento dell’incarico (rimborso di spese di viaggio, vitto, alloggio per il tempo passato fuori ufficio, nonché di spese di bollo, di registro, postali, telegrafiche, telefoniche, telefoniche, di cancelleria, di autentica di relazioni o disegni, ecc.), e i compensi per le prestazioni accessorie, previste dagli artt. 4 e 6 della stessa legge (studi preliminari, viaggi per lavori da svolgersi fuori ufficio, spese riguardanti tali viaggi e aiuti di collaboratori fuori ufficio), i quali ultimi possono essere liquidati a vacazione e devono essere tenuti distinti dalle spese comprese nei compensi a percentuale
previste nel primo comma dell’art. 13, di genere diverso e dirette a differenti fini (Cass., Sez. 2, 18/10/1991, n. 11026), salvo contrarie pattuizioni ai sensi del citato art. 6 della tariffa, dirette a stabilire il compenso a vacazioni, in misura forfettaria e onnicomprensiva (Cass., Sez. 2, 7/7/1999, n. 7070).
Proprio nell’interpretare l’art. 13, primo comma della tariffa professionale approvata con legge 2 marzo 1949 n. 143, questa Corte ha evidenziato come i compensi accessori contemplati dagli artt. 4 e 6 possano essere liquidati, anziché secondo i criteri ordinari fissati da dette norme (vacazione e rimborso spese), secondo il diverso criterio previsto dall’art. 13 secondo comma della citata legge, consistente in un conglobamento dei compensi stessi in una percentuale forfettaria degli onorari, solo quando vi sia stata l’adesione del cliente sulla misura di tale percentuale, come richiesta dal professionista, ovvero, in difetto di adesione, essa sia stata determinata dal competente consiglio dell’ordine (Cass., Sez. 2, 07/05/1984, n. 2757).
La facoltà concessa al professionista di conglobare, in accordo col committente, tutti i predetti compensi accessori (e, quindi, anche quelli per rimborso di spese di viaggio, vitto, alloggio per il tempo passato fuori ufficio, nonché di spese di bollo, di registro, postali, telegrafiche, telefoniche, telefoniche, di cancelleria, di autentica di relazioni o disegni, ecc.) in una misura che non potrà superare il 60% degli onorari a percentuale (art. 13, comma secondo) e, “in caso di disaccordo con il committente”, in una misura che sarà determinata dal Consiglio dell’Ordine, non può però essere intesa in termini di automatico aumento degli onorari a percentuale in base alla sola prestazione dell’opera professionale, ma implica l’esistenza e la prova di quei fatti o prestazioni specifiche che, giustificando i compensi accessori, ne costituiscono il presupposto anche ai fini della determinazione del compenso devoluta al Consiglio
dell’Ordine, sicché il professionista è tenuto a provare non l’ammontare dell’esborso, dato che la liquidazione è forfettaria, ma la sua effettiva sussistenza, atteso che, se il diritto al “compenso accessorio conglobato” prescindesse sia dal preventivo accordo delle parti, sia dalla prova dell’espletamento di tali attività, esso si ridurrebbe ad un puro e semplice incremento immotivato degli onorari a percentuale che non avrebbe alcuna logica o ragion d’essere (Cass., Sez. 2, 20/6/2023, n. 17696; Cass., Sez. 2, 21/12/2006, n. 27331; Cass., Sez. 2, 22/01/1994, n. 626, secondo cui i fatti e prestazioni specifiche, giustificando i compensi accessori, ne costituiscono il presupposto).
Lo stesso principio vale anche in caso di mancato esercizio della facoltà di conglobamento, ossia quando i compensi e rimborsi per le prestazioni accessorie relative alle vacazioni e alle spese (eccettuate quelle di ufficio e del personale di ufficio, che restano a carico del professionista) debbano essere liquidate, ai sensi degli artt. 4 e 6, in aggiunta, dovendo il professionista anche in tal caso dimostrare, in caso di contestazione, gli elementi per calcolare il tempo impiegato – quanto ai compensi per vacazione – e gli esborsi sopportati – quanto alle spese (Cass., Sez. 2, 19/03/1993, n. 3264; Cass., Sez. 2, 22/06/1989, n. 2972; Cass., Sez. 2, 7/5/1984, n. 2757), costituendo l’accertamento che dette spese sono state effettivamente sostenute, siccome inerenti alla natura delle prestazioni richieste ed eseguite dal professionista, il risultato di una tipica valutazione in fatto, incensurabile in cassazione se sorretta da adeguata e logica motivazione, idonea a consentire di seguire e controllare il processo intellettivo sfociato in tale conclusione (Cass., Sez. 2, 18/10/1991, n. 11026, cit.).
12.2 Ciò detto, si legge nella sentenza impugnata che il c.t.u. aveva attribuito al professionista la maggiorazione di cui all’art. 13 legge n. 143 del 1949 sul presupposto che questa fosse di solito
riconosciuta, considerando, come elemento di valutazione, la dichiarazione del de cuius , contenuta nell’attestato di regolare esecuzione delle opere, riportante un’indicazione forfetaria dei compensi, reputata dai giudici congrua rispetto alle prestazioni effettuate, anche se facoltativa, e aveva eseguito una determinazione equitativa delle attività non svolte dal professionista, tenendo conto della reale entità delle opere eseguite, non limitate alla progettazione, ma estese ad attività collaterali.
Tali considerazioni non sono, però, affatto conformi ai principi sopra citati, giacché sembrano attribuire automaticamente gli aumenti percentuali e il calcolo delle vacazioni, senza in alcun modo esaminare le prove offerte a dimostrazione del tempo impiegato, quanto ai compensi accessori, e degli esborsi sostenuti, quanto al rimborso delle spese, necessarie sia in caso di richiesta di pagamento in aggiunta, sia in caso di “compenso accessorio conglobato”, con conseguente fondatezza delle censure.
13. Il quarto e quinto motivo, da trattare congiuntamente perché strettamente connessi, sono, invece fondati nei limiti che seguono.
Quanto alla questione afferente alla scrittura dicente ‘saldato 4/2/2006 16.000,00 euro’, deve dichiararsene l’inammissibilità.
Infatti, il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass., Sez. 1, 13/6/2024, n. 16583; Cass., Sez. 3, 26/6/2018, n. 16812).
Il carattere della decisività non è però ravvisabile nella specie, atteso che la laconica dicitura della scrittura non esaminata, peraltro priva di sottoscrizione del professionista, non consente di ricondurla alla prestazione il cui compenso è oggetto di contestazione, non essendovi alcun richiamo sul punto.
Peraltro, anche l’articolazione della censura è generica, giacché non specifica gli argomenti, deduzioni o istanze che, in relazione alla pretesa fatta valere, siano state formulate nel giudizio di merito, rendendo irrilevante giuridicamente la produzione del documento (Cass., Sez. 5, 21/05/2019, n. 13625; Cass., Sez. 3, 25/08/2006, n. 18506).
La censura è altrettanto inammissibile anche con riguardo alla questione del certificato di regolare esecuzione del lavori, redatto dal professionista e presentato al Comune di Foligno al fine di ottenere l’erogazione di contributi pubblici per il terremoto, reputato dai giudici di merito privo di valenza ricognitiva, trattandosi di credito e non di debito e considerato, invece, dal ricorrente atto confessorio stragiudiziale, sì da dover essere valutato al fine di contenere entro quei limiti l’accoglimento della domanda di pagamento del compenso.
Il ricorrente non considera, infatti, che una dichiarazione è qualificabile come confessione ove sussistano un elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all’altra parte, ed un elemento oggettivo, che si ha qualora dall’ammissione del fatto obiettivo, il quale forma oggetto della confessione escludente qualsiasi contestazione sul punto, derivi un concreto pregiudizio all’interesse del dichiarante e, al contempo, un corrispondente vantaggio nei confronti del destinatario della dichiarazione (Cass., Sez. U, 25/03/2013, n. 7381; Cass., Sez. L, 23/5/2018, n. 12798).
Consegue da quanto detto l’inammissibilità delle censure.
14. Il settimo motivo, in quanto riproduttivo delle medesime questioni afferenti alla liquidazione dei compensi accessori a vacazione, del documento n. 1 (il saldo di euro 16 mila) e del certificato di collaudo, già esaminati nei motivi che precedono, resta inevitabilmente assorbito.
15. L’ottavo motivo è inammissibile.
Prendendo posizione sulla domanda riconvenzionale riproposta dagli appellanti, i giudici di merito hanno ritenuto di escludere la responsabilità del professionista in ordine alla mancata ammissione dell’Hotel Plestina al finanziamento PIAT/TAC, avendo considerato giustificata la condotta posta in essere dal predetto in quanto il programma di investimento era iniziato prima della presentazione della domanda, nell’anno 2001, sicché, quando presero avvio i lavori di cui alla concessione edilizia n. 33 (conglobata alla comunicazione di inizio lavori dell’edificio n. 3058), il predetto non poteva ragionevolmente prevedere che i lavori relativi all’edificio n. 3058 avrebbero avuto inizio nell’anno 2004.
I ricorrenti insistono, invece, nel dire che i lavori al 2004 non erano iniziati, senza però chiarire, a ben vedere, cosa esattamente imputassero al professionista e in quali esatti termini si fosse sostanziata la sua responsabilità professionale, né quali fossero state le ragioni della reiezione del finanziamento (il cui provvedimento non è stato neppure descritto) e senza neppure descrivere i documenti, pur citati in sentenza e richiamati nella censura, da cui sarebbe stato possibile arguire l’inadempimento del predetto, ma limitandosi ad affermare una questione in fatto (la data di inizio lavori) già accertata.
In ragione di ciò, la censura non soltanto non si attiene al principio, che, a mente dell’art. 366, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, primo
comma, n. 3), cod. proc. civ., non solo di indicare le norme di legge (o eventualmente il principio di diritto) di cui intende lamentare la violazione, ma anche ad esaminarne il contenuto precettivo e a raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, onde dimostrare il contrasto tra esse e il precetto normativo (in tal senso, Cass., Sez. U., 28/10/2020, n. 23745; Cass. Sez. 6 – 1, 24/02/2020, n. 4905), non consentendosi altrimenti a questa Corte di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione in assenza di indicazioni su quali siano state le modalità e sotto quale profilo essa sia stata realizzata (Cass., Sez. 3, 28/10/2002, n. 15177; Cass., Sez. 2, 26/01/2004, n. 1317; Cass., Sez. 6 – 5, 15/01/2015, n. 635; Cass. Sez. 3, 11/7/2014, n. 15882, Cass. Sez. 3, 2/4/2014, n. 7692), ma, pur essendo stata sussunta sotto la fattispecie di cui all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., si duole, in realtà, di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (cfr. Cass., Sez. 1, 14/01/2019, n. 640).
16. Il nono motivo è assorbito dall’accoglimento dei motivi che precedono.
17.1 Con il primo motivo di ricorso incidentale, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2223 cod. civ. e della legge n. 143 del 1949, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito ritenuto applicabile ai compensi professionali il Protocollo d’Intesa 7/2/2001, in quanto considerato più rispondente all’entità dei lavori eseguiti e al fatto che le opere realizzate rientrassero tra quelle indicate in detta convenzione, e avere così quantificato i compensi nella misura di euro 143.499,39, da cui avevano detratto la somma di euro 7.703,57 per mancata
erogazione di tale importo in ragione dell’omessa produzione del DURC, liquidando così la minor somma di euro 135.795,82. Ad avviso dei ricorrenti incidentali, i giudici non avevano considerato che, in assenza di accordo, sarebbe stata applicabile la sola Tariffa degli Ingegneri ai sensi della legge n. 143 del 1949, non potendo considerarsi tale, ai sensi dell’art. 2223 cod. civ., il protocollo di intesa; che il Protocollo riguardava le sole opere pubbliche e non quelle private, come nella specie; che questo neppure esisteva nei primi quattro anni dell’incarico svolto dal professionista, essendo questo iniziato nel 1997 e proseguito per i successivi dieci anni, né aveva portata retroattiva; che una consistente parte dell’attività professionale svolta non aveva riguardato la ricostruzione post terremoto, ma altre attività.
17.2 Il primo motivo di ricorso incidentale è fondato.
Come questa Corte ha avuto modo di affermare, il compenso per prestazioni professionali va determinato in base alla tariffa, e adeguato all’importanza dell’opera, solo ove non sia stato liberamente pattuito, in quanto l’art. 2233 cod. civ. pone una garanzia di carattere preferenziale tra i vari criteri di sua determinazione, attribuendo rilevanza, in primo luogo, alla convenzione intervenuta fra le parti e poi, esclusivamente in mancanza di quest’ultima, ed in ordine successivo, alle tariffe ed agli usi e, infine, alla determinazione del giudice (Cass., Sez. L, 25/1/2017, n. 1900; Cass., Sez. 2, 4/6/2018, n. 14293).
Se è vero che la legge 4 agosto 2006, n. 248 (Pacchetto Bersani), di conversione del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, in conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonché al fine di assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, ha abrogato tutte le disposizioni legislative e
regolamentari che fissavano l’obbligatorietà delle tariffe, cui è seguito il d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv., con modif. dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, che ha eliminato le stesse tariffe professionali regolamentate nel sistema ordinistico e introdotto l’obbligo per il professionista di pattuire in forma scritta un compenso per l’incarico, è anche vero che, a mente dell’art. 9, comma 2, di quest’ultima legge, la liquidazione del compenso del professionista fatta da un organo giurisdizionale deve comunque essere calcolata secondo parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante oppure, fino alla data di entrata in vigore del decreto e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione dello stesso, secondo le tariffe all’epoca vigenti.
E’ dunque in applicazione del comma 2 del ridetto art. 9 che con decreto ministeriale n. 140 del 2012 sono stati determinati i parametri per la liquidazione giurisdizionale dei compensi e con decreto ministeriale n. 143 de 2013 (successivamente sostituito dal d.m. 17/6/2016 e poi dall’allegato I.13 del nuovo Codice dei Contratti Pubblici, approvato con d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36) quelli da applicare per la determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici, salva la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della legge 21 aprile 2023 n. 49, sul cosiddetto ‘Equo compenso’.
L’art. 1, comma 1, del d.m. n. 140, stabilisce, in particolare, che ‘ L’organo giurisdizionale che deve liquidare il compenso dei professionisti di cui ai capi che seguono applica, in difetto di accordo tra le parti in ordine allo stesso compenso, le disposizioni del presente decreto ‘, mentre il successivo comma 3 dispone che ‘ I compensi liquidati comprendono l’intero corrispettivo per la prestazione professionale, incluse le attività accessorie alla stessa ‘.
Considerato allora che la prestazione professionale svolta dall’ing. COGNOME risale ad epoca antecedente al 2012 (il decreto ingiuntivo è stato emesso proprio in questa data), ma è stata liquidata con la sentenza del 4/9/2019, è ai parametri di cui al decreto ministeriale n. 140 del 2012 che i giudici di merito avrebbero dovuto fare riferimento, in applicazione non soltanto del disposto di cui al comma 2 del d.l. m. 1 del 2012, conv., con modif., dalla legge n. 27 del 2012, ma anche del principio secondo il quale, nella determinazione dei compensi per l’attività professionale, deve applicarsi la tariffa vigente al momento della liquidazione (in questi termini Cass., Sez. 2, 13/12/2023, n. 34870).
E’, dunque, errata la sentenza in esame, nella parte in cui ha ritenuto applicabile il Protocollo d’Intesa intercorso tra la Regione Umbria e gli ordini degli Ingegneri e Architetti e il Collegio dei Geometri di Perugia e Terni per la determinazione dei compensi professionali relativi ai lavori di ricostruzione e ripristino di opere pubbliche danneggiate dal sisma del 7/2/2001, sul solo presupposto che se ne raccomandasse l’estensione anche ai lavori privati, ancorché siglato esclusivamente per i lavori pubblici, atteso che, in disparte la non estensibilità di tale Protocollo ai lavori privati, come quelli di specie, i giudici avrebbero dovuto applicare le tariffe di cui al d.m. del 2012, non derogabili se non da un diverso accordo intervenuto tra le parti.
Consegue da quanto detto, la fondatezza della censura.
18.1 Con il secondo motivo di ricorso incidentale, si lamenta la violazione e falsa applicazione della Legge Regione Umbria n. 30 del 1998 e degli artt. 1218 e 1223 cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere la Corte d’Appello ridotto l’importo dovuto nella misura di euro 7.703,57, in ragione dell’asserita mancata erogazione di tale somma di contributo pubblico ai richiedenti Altobello-Plastina per omessa
regolarizzazione degli obblighi contributivi (DURC) da parte di un’impresa appaltatrice dei lavori, causato dal fallimento della stessa, senza considerare che tale decisione si poneva in contrasto con quanto previsto dalla Legge Umbria n. 30 del 1998 e dal consequenziale Protocollo di Intesa della Regione del 20/4/1999, secondo cui il DURC poteva essere richiesto solo dall’impresa affidataria dell’appalto, senza attribuire alcun compito al progettista e direttore dei lavori, con conseguente assenza di responsabilità di quest’ultimo sul punto e sul mancato ricevimento del contributo pubblico, non avendo egli compiti di vigilanza in materia. In ragione di ciò, la somma in questione non avrebbe potuto essere decurtata, anche perché nessuna prova era stata fornita a dimostrazione del danno, ossia dell’intervenuto pagamento, da parte dei committenti all’impresa, di quell’importo.
18.2 Il secondo motivo di ricorso incidentale è infondato.
Occorre, innanzitutto, ricordare come, secondo quanto affermato da questa Corte, a Sezioni unite, con la sentenza n. 4092 del 16/2/2017, la finalità del DURC (documento unico di regolarità contributiva), nonostante i plurimi interventi che ne hanno modificato la disciplina, sia sempre rimasta quella di consentire di verificare che le imprese interessate da contratti pubblici (per lavori, servizi o forniture) siano in regola con gli adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi prima dell’aggiudicazione o della conclusione del contratti, al momento del pagamento delle fatture e prima della concessione di agevolazioni normative e contributive, e siano tecnicamente idonee ai fini della sicurezza sui luoghi di lavoro, in quanto, attestando “la correttezza nei pagamenti e negli adempimenti previdenziali, assistenziali ed assicurativi, nonché in tutti gli altri obblighi previsti dalla normativa vigente riferita all’intera situazione aziendale”, come attestato dall’art. 6, comma 1, d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, Regolamento
di esecuzione ed attuazione del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, che risponde all’esigenza di reprimere il lavoro nero e le irregolarità assicurative e contributive.
A questo fine, l’obbligo del possesso del DURC, al momento dell’aggiudicazione dell’appalto pubblico o della stipula del contratto con una pubblica amministrazione e, successivamente, in ogni fase contrattuale (specie per il saldo finale e il pagamento delle fatture per servizi e forniture), è stato esteso, a decorrere dal 10/1/2009, a tutte le ditte che lavorano in regime di appalto o di subappalto di qualsiasi lavoro anche fuori dall’ambito dell’edilizia, prevedendosi al riguardo precisi termini di validità dello stesso.
Al riguardo, le Sezioni unite di questa Corte hanno evidenziato come la produzione della certificazione che attesta la regolarità contributiva dell’impresa partecipante alla gara di appalto (c.d. “durc”) costituisca uno dei requisiti posti dalla normativa di settore ai fini dell’ammissione alla gara (Cass., Sez. U, 9/2/2011, n. 3169), sicché la verifica sul punto deve essere svolta sia nella fase preliminare dell’ammissione dell’impresa alla gara d’appalto, sia nella fase esecutiva, prima del pagamento, dal momento che all’Ente pubblico è imposto di sanare l’irregolarità contributiva nei confronti degli enti previdenziali e assicurativi utilizzando le somme spettanti al creditore (Cass., Sez. U, 2017, n. 4092), senza però incidere sull’esistenza o l’entità del credito (Cass.,Sez. 1, 2/3/2021, n. 5662).
Ebbene, la produzione di tale documento è stata inserita, dalla Legge Regionale Umbria 12 agosto 1998, n. 30, prevedente Norme per la ricostruzione delle aree colpite dalle crisi sismiche del 12 maggio 1997, 26 settembre 1997 e successive, tra i requisiti necessari per l’erogazione del contributo previsto per alcune tipologie di interventi, allorché ha stabilito all’art. 14, comma 4, che ‘ la Giunta regionale adotta uno schema di contratto di appalto
tipo ai fini della sicurezza nei cantieri, della verifica della regolarità contributiva, previdenziale e assicurativa e promuove intese con Inps, Inail, Cassa edile, nonché con le UU.SS.LL. e Ispettorato del lavoro per attestare la regolarità contributiva, mediante il documento unico di cui all’art.19 e l’avvenuta notifica preliminare di cui all’art. 11 d.lgs. 14 agosto 1996, n. 494 ‘, norma quest’ultima applicabile ratione temporis , atteso che il d.gs. 9 aprile 2008, n. 81, di attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, è entrato in vigore il 15/5/2008 e che il professionista è deceduto nel 2007.
Orbene, il d.lgs. n. 494 del 1996 prevedeva, in particolare, all’art. 3, comma 8, che il committente o il responsabile dei lavori, anche nel caso di affidamento dei lavori a un’unica impresa, erano tenuti non solo a verificare l’idoneità tecnico -professionale delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da affidare, anche attraverso l’iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato, e a chiedere alle imprese esecutrici una dichiarazione dell’organico medio annuo, distinto per qualifica, nonché una dichiarazione relativa al contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, applicato ai lavoratori dipendenti, ma anche, a mente della lett. bbis, a chiedere ‘ un certificato di regolarità contributiva ‘, il quale poteva essere rilasciato, oltre che dall’INPS e dall’INAIL, per quanto di rispettiva competenza, anche ‘ dalle casse edili le quali stipulano una apposita convenzione con i predetti istituti al fine del rilascio di un documento unico di regolarità contributiva ‘.
Come risulta dall’art. 2 del medesimo d.lgs., era responsabile dei lavori colui che fosse stato eventualmente ‘ incaricato dal committente ai fini della progettazione o della esecuzione o del
contro
llo dell’esecuzione dell’opera ‘ e, nel caso di appalto di pubblica opera, il responsabile unico del procedimento ex art. 7 legge 11 febbraio 1994, n. 109 e successive modifiche.
Soggetto incaricato, dal committente o dal responsabile dei lavori, dell’esecuzione dei compiti di cui all’art. 4, era invece il coordinatore in materia di sicurezza e di salute durante la progettazione dell’opera, denominato anche coordinatore per la progettazione, il quale, a mente dell’art. 5, era tenuto a ‘ segnalare al committente o al responsabile dei lavori, previa contestazione scritta alle imprese e ai lavoratori autonomi interessati, le inosservanze alle disposizioni degli articoli 7, 8 e 9, e alle prescrizioni del piano di cui all’articolo 12 e proporre la sospensione dei lavori, l’allontanamento delle imprese o dei lavoratori autonomi dal cantiere, o la risoluzione del contratto ‘.
Alla stregua di tali disposizioni, può dirsi allora che nella vigenza del d.lgs. n. 494 del 1996, vi fosse una sostanziale coincidenza tra il direttore dei lavori e il responsabile dei lavori, atteso che questo, come si è visto, si identificava, a mente dell’art. 2, nel soggetto incaricato della progettazione o della esecuzione o del controllo dell’esecuzione dell’opera, sicché spettava a lui l’obbligo di chiedere il certificato di regolarità contributiva (durc).
Ciò appare più evidente ove si consideri che l’art. 90 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che, come detto, ha abrogato il d.lgs. 14 agosto 1996, n. 494, prevede al comma 9, che il committente o il responsabile dei lavori, anche in caso di affidamento dei lavori ad un’unica impresa o ad un lavoratore autonomo, chiede alle imprese esecutrici, ‘ nei cantieri la cui entità presunta è inferiore a 200 uomini-giorno e i cui lavori non comportano rischi particolari di cui all’allegato XI ‘, la presentazione del documento unico di regolarità contributiva, laddove, a mente dell’art. 89, lett. c), è responsabile dei lavori colui che ‘ può essere incaricato dal committente per
svolgere i compiti ad esso attribuiti dal presente decreto ‘ e che ‘ nel campo di applicazione del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni’ è il responsabile del procedimento, e non più colui che si occupa della progettazione o della esecuzione o del controllo dell’esecuzione dell’opera.
Alla stregua delle disposizioni applicabili all’epoca dello svolgimento dell’incarico, deve allora ritenersi corretta la decisione assunta dai giudici di merito, allorché hanno ritenuto di dover decurtare dal compenso dovuto la somma di euro 7.703,57, dovuta dal professionista al committente per l’erogazione del contributo pubblico, siccome ‘dipendente dalla omessa regolarizzazione di una delle imprese esecutrici dei lavori rispetto agli obblighi contributivi, non essendo stato prodotto il DURC, a fronte dell’autorizzazione del pagamento all’impresa in assenza del predetto documento’, senza che possa dirsi non dimostrata l’entità della somma, avendo i giudici all’uopo richiamato la pg. 40 della relazione di c.t.u.
19. In conclusione, dichiarata la fondatezza del secondo, terzo, quarto, quinto, sesto motivo di ricorso principale, l’assorbimento del settimo e del nono, e l’inammissibilità dell’ottavo, nonché la fondatezza del primo motivo di ricorso incidentale e l’infondatezza del secondo, il ricorso deve essere accolto e la sentenza cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Perugia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il secondo, terzo, quarto, quinto e sesto motivo di ricorso principale, nonché il primo motivo di ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Perugia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 4/2/2025.