Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 9739 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 9739 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/04/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 13662/2020 R.G. proposto da: COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende -ricorrente- contro
Avvocato COGNOME e Avvocato COGNOME, domiciliati ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentati e difesi da se stessi
-controricorrenti- avverso la ORDINANZA di TRIBUNALE PISA n. 3574/2019 depositata il 14/05/2020.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/04/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Udite le conclusioni della Procura Generale, in persona del Dottor NOME COGNOME che ha chiesto rigettarsi il ricorso.
FATTI DELLA CAUSA
1.Con ordinanza del 14 maggio 2020, il Tribunale di Pisa ha respinto l’opposizione proposta da NOME COGNOME contro il decreto con cui a quest’ultimo era stato ingiunto il pagamento di euro 64.400,00 a favore degli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME per il patrocinio reso in un giudizio, svoltosi davanti al Tribunale di Firenze, in cui il predetto COGNOME era stato convenuto con azione di responsabilità ex art. 146 l.fall., quale ex amministratore della fallita società RAGIONE_SOCIALE
Contro l’ordinanza il COGNOME propone ricorso per cassazione affidato ad undici motivi.
Gli avvocati COGNOME e COGNOME resistono con controricorso.
La Procura Generale ha depositato requisitoria con richiesta di rigetto del ricorso.
Ricorrente e controricorrenti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Col primo motivo si lamenta la violazione degli artt. 3, comma 1. Lett. a) e 33, comma 2, lett. u) del d.lgs 206 del 2005, per avere il Tribunale di Pisa disatteso l’eccezione dell’allora opponente secondo cui detto Tribunale sarebbe stato incompetente, essendo invece competente, in base alla regola del foro del consumatore, il Tribunale di Roma, città nella quale l’opponente risiedeva al tempo del conferimento dell’incarico. Il Tribunale ha disatteso tale eccezione rilevando la stretta connessione tra l’attività professionale ed imprenditoriale svolta dall’opponente quale ex amministratore della società fallita e l’oggetto del contratto di assistenza legale.
Il motivo è infondato.
Il Codice del consumo (d.lgs. n. 206 del 2005) definisce (art. 3) consumatore o utente ‘la persona fisica che agisce per scopi
estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta’. Definisce (allo stesso articolo) professionista ‘la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario’.
Il requisito soggettivo di applicabilità della disciplina legislativa consumeristica deve essere valutato con riferimento alla giurisprudenza unionale per cui l’amministratore di una società, così come il socio che abbia una partecipazione notevole al capitale sociale, può essere considerato imprenditore. Secondo la giurisprudenza dell’Unione la nozione di «consumatore», ai sensi dell’articolo 2, lettera b), della direttiva 93/13, ha un carattere oggettivo. Essa deve essere determinata alla luce di un criterio funzionale consistente nel valutare se il rapporto contrattuale in esame rientri nell’ambito di attività estranee all’esercizio di una professione (v. ord. C-74/15, punto 27 e giurisprudenza citata). Spetta al giudice nazionale, investito di una controversia relativa a un contratto idoneo a rientrare nell’ambito di applicazione di tale direttiva, verificare, tenendo conto di tutte le circostanze della fattispecie e di tutti gli elementi di prova, se il contraente in questione possa essere qualificato come «consumatore» ai sensi della suddetta direttiva, dando rilievo -alla stregua della giurisprudenza comunitaria (CGUE, sentenza 19 novembre 2005, in causa C-74/15 Tarcau) – all’entità della partecipazione al capitale sociale e all’eventuale qualità di amministratore della società garantita assunto dal fideiussore (v. Cass. 1666/2020; Cass. 32225/2018).
In quest’ottica il cliente di un avvocato è stato qualificato come professionista, con conseguente esclusione dell’applicazione delle protezioni assicurate dal codice del consumo, in un caso in cui l’avvocato era stato richiesto di prestare patrocinio in un procedimento tributario avente ad oggetto la pretesa tributaria nei
confronti del cliente in qualità di socio ed amministratore unico di una società di capitali (v. a titolo di esempio, Cass. n. 780 del 2016).
Nel caso di specie il contratto di prestazione d’opera professionale è stato stipulato dal ricorrente per esigenze di difesa rispetto ad una azione di responsabilità ex art. 146 l.fall. contro di lui intentata quale presidente del c.d.a. della RAGIONE_SOCIALE
Il codice del consumo mira a tutelare il consumatore quale soggetto che si trova in una situazione d’inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda il potere nelle trattative e in particolare il grado di informazione (Cass. 28162/2019).
Non vi è differenza, dal punto di vista delle esigenze di tutela che il codice del consumo mira ad assicurare, tra la posizione di chi si rivolga all’avvocato per essere tutelato in un giudizio inerente all’attività professionale in essere e chi si rivolga all’avvocato per essere tutelato in un giudizio inerente all’attività professionale ormai cessata al momento del conferimento dell’incarico difensivo. Il collegamento funzionale tra oggetto del mandato professionale conferito dal ricorrente ai controricorrenti e l’attività professionale del ricorrente sussiste, pur se detta attività non era più in essere al momento della stipula.
Col secondo motivo di ricorso si lamenta violazione degli artt. 2237 c.c., 7 d.m. 55 del 2014, 7 della legge n,794 del 1942, 29 e 45 del codice di deontologia forense, 13 della l. 247 del 2012, dell’art. 1418 c.c. per avere il Tribunale ritenuto valida la pattuizione inter partes in base alla quale il compenso degli attuali controricorrenti era stabilito a forfait e dunque avrebbe dovuto essere pagato per intero anche nel caso -concretamente verificatosi in cui l’incarico non fosse stato portato a termine. Il motivo è infondato.
In linea generale una clausola, come quella riportata a pagina 4 del ricorso e presa in esame dal Tribunale, che preveda un compenso
per l’intera attività difensiva, non è nulla mirando la stessa a soddisfare l’interesse, meritevole di tutela e non contrastante con alcuna disposizione, a pattuire un corrispettivo fisso a fronte di prestazioni variabili nella loro consistenza.
L’art. 13 della L. 247 del 2012 prevede al comma 3, che ‘La pattuizione dei compensi è libera: è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione’.
Come ricordato dal Tribunale, questa Corte, già con sentenza 5987 del 1994, ha affermato che la pattuizione nel contratto d’opera professionale di un compenso forfettario è valida potendo implicare la dispensa del professionista dalla esposizione specifica dell’attività compiuta e delle spese sostenute, fermo restando che il professionista non ha diritto a ricevere o trattenere il compenso medesimo qualora nessuna prestazione sia stata eseguita (v. Cass. 13.2.1976 n. 467).
Va poi precisato che, nel caso di specie, la questione concreta che si è posta al Tribunale non è stata quella della forfetizzazione del compenso, ma della forfetizzazione del risarcimento dovuto ai difensori per inadempimento dell’attuale ricorrente.
Il Tribunale ha infatti espressamente dato conto della previsione per cui l’attuale ricorrente avrebbe dovuto pagare l’intero onorario agli avvocati a fronte di un suo inadempimento legittimante la risoluzione del contratto stesso.
Il Tribunale ha dato conto del fatto che ‘la pretesa del pagamento del residuo compenso è sorta solo all’esito di un inadempimento qualificato del cliente’, dopo che gli avvocati avevano compiuto
l’attività delle fasi di ‘studio e introduttiva, comprensiva della chiamata in causa di terzi, all’esito dell’udienza ex art. 183 c.p.c.’ Il Tribunale ha altresì affermato che, ‘in considerazione dello stadio di avanzamento del contenzioso’, non vi erano i presupposti per la riduzione della penale ai sensi dell’art. 1384 c.c.
Questa affermazione non è censurata. Il motivo, sotto questo profilo, non è centrato.
La sentenza peraltro rispetta i principi affermati da questa Corte ‘Ai fini dell’esercizio del potere di riduzione della penale, il giudice non deve valutare l’interesse del creditore con esclusivo riguardo al momento della stipulazione della clausola – come sembra indicare l’art. 1384 c.c., riferendosi all’interesse che il creditore “aveva” all’adempimento – ma tale interesse deve valutare anche con riguardo al momento in cui la prestazione è stata tardivamente eseguita o è rimasta definitivamente ineseguita, poiché anche nella fase attuativa del rapporto trovano applicazione i principi di solidarietà, correttezza e buona fede, di cui agli artt. 2 Cost., 1175 e 1375 c.c., conformativi dell’istituto della riduzione equitativa, dovendosi intendere, quindi, che la lettera dell’art. 1384 c.c., impiegando il verbo “avere” all’imperfetto, si riferisca soltanto all’identificazione dell’interesse del creditore, senza impedire che la valutazione di manifesta eccessività della penale tenga conto delle circostanze manifestatesi durante lo svolgimento del rapporto’ ( Sez. 3, sentenza n.11908 del 19/06/2020).
3. Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 13 della L. 247 del 2012 riproponendosi la questione già proposta con il motivo precedente. Valgono le osservazioni già fatte. La censura è infondata. Si denuncia inoltre violazione ‘degli artt. da 1362 c.c. a 1371 c.c.’ per non avere il Tribunale ‘considerato che, in caso di scioglimento del contratto, il compenso stabilito doveva essere inteso in senso proporzionale all’attività svolta se non compiuta fino al termine del giudizio di primo grado’. Per quanto concerne questa
ulteriore censura la stessa è inammissibile. Il ricorrente si limita ad affermare che, essendo stato il compenso pattuito per il primo grado del procedimento de quo, allora il Tribunale avrebbe errato nel ritenere che il compenso spettasse agli avvocati anche in caso di prestazione parziale. Premesso che il ricorrente stesso riporta la clausola secondo cui ‘in caso di scioglimento del rapporto che non sia imputabile al professionista rimane l’obbligo del cliente di corrispondere al professionista … il compenso stabilito ma non ancora saldato’, la censura è formulata nella completa inosservanza del principio per cui ‘il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata’ (Sez. 1,ordinanza n.9461 del 09/04/2021 – Rv. 661265 – 01).
4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta violazione dell’art. 112 c.p.c. Si sostiene che il Tribunale avrebbe violato il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato perché avrebbe dichiarato risolto il contratto pur se la domanda degli avvocati era stata solo quella di pagamento dell’intero compenso.
Il motivo è inammissibile perché scollegato dal contenuto della ordinanza impugnata.
In quest’ultima non è stata dichiarata la risoluzione del contratto. È stato dichiarato invece che i professionisti avevano esercitato il diritto ‘allo scioglimento del contratto conformemente al vincolo’. Il
ricorrente stesso riporta il testo della clausola contrattuale per cui ‘il mancato o ritardato pagamento di uno qualsiasi dei compensi pattuiti entro le scadenze fissate (…) costituisce causa di risoluzione ai sensi dell’art. 1456 c.c. ed autorizza il professionista alla immediata rinuncia del mandato conferitogli’. Il Tribunale ha accolto la domanda degli avvocati volta ad ottenerne l’esatto adempimento della clausola già ricordata per cui ‘in caso di scioglimento del rapporto che non sia imputabile al professionista rimane l’obbligo del cliente di corrispondere al professionista (…) il compenso stabilito ma non ancora saldato’.
Con il quinto motivo di ricorso si lamenta violazione degli artt. 1453 e 1455 c.c. Si deduce che il ricorrente aveva tardato a pagare solo uno degli acconti (‘una rata’) del compenso entro il termine previsto e che tale inadempimento era di scarsa importanza ai sensi e per gli effetti dell’art. 1455 c.c.
Il motivo è inammissibile perché introduce una questione non solo del tutto nuova – il ricorrente non allega che, nei gradi di merito, sia mai stata posta una questione di importanza dell’inadempimento e il Tribunale ha affermato che gli avvocati avevano ‘esercitato il diritto allo scioglimento conformante al vincolo e con modalità congrue a seguito di inadempimento del cliente (pre)qualificato come rilevante’, che tale inadempimento era ‘indiscusso e, per quanto processualmente emerso, ingiustificato’ -ma irrilevante alla luce del principio per cui ‘la pattuizione di una clausola risolutiva espressa esclude che la gravità dell’inadempimento possa essere valutata dal giudice nei casi già previsti dalle parti’ (Cass. n. 29301 del 2019).
Con il sesto motivo di ricorso si lamenta violazione degli artt. 1195 c.c. per avere il Tribunale ‘considerato una fattura elettronica degli avvocati mai consegnata al soggetto pagatore’ e violazione dell’art. 1193 c.c. perché ‘il COGNOME aveva inteso imputare il versamento al debito per cui è causa’ e perché ‘in mancanza di
altri elementi il pagamento di 3.000 euro doveva essere imputato’ al debito oggetto di causa.
Il motivo è inammissibile.
Il Tribunale ha ricordato che il COGNOME aveva eccepito l’erronea imputazione da parte dei creditori di un pagamento di 3.000,00 euro effettuato il 18 marzo 2019 ad altro debito ed ha dichiarato tale eccezione infondata in quanto il COGNOME non aveva dichiarato, al momento della effettuazione del pagamento, a quale debito il pagamento dovesse essere imputato con la conseguenza che legittimamente i creditori avevano emesso una quietanza (documento 28) imputando il pagamento ad altro debito.
Il ricorrente ora, senza dar conto di averlo mai fatto prima nei gradi di merito, e quindi inammissibilmente, prospetta che una email, in data 26 marzo 2019, con cui l’avvocato COGNOME aveva contestato al medesimo ricorrente di avere pagato un acconto di 3.000,00 euro inferiore a quello che era stato pattuito, avrebbe dovuto essere interpretata dal Tribunale nel senso di un ‘riconoscimento espresso da parte del creditore che il debitore aveva inteso imputare il versamento di 3.000 euro proprio alla difesa’. Sotto altro profilo, il motivo è formulato senza tener conto del principio per cui ‘In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità’ (Cass. 3340/2019).
7. Con il settimo motivo si lamenta la violazione dell’art. 2 della legge 22 maggio 2017, n.81 in relazione al d.lgs. 9 ottobre 2002 n. 231 e dell’art. 1344 c.c. per avere il Tribunale ritenuto ‘valida la
clausola che prevede la corresponsione degli interessi moratori ex d.lgs. 231 del 2002 siccome pattuita per scritto ai sensi dell’art. 1284 c.c.’ Deduce il ricorrente che le disposizioni del citato d.lgs. avrebbero dovuto ritenersi inapplicabili, non trattandosi, nel caso di specie, di una transazione commerciale tra lavoratori autonomi e imprese, né tra lavoratori autonomi e amministrazioni pubbliche, né tra lavoratori autonomi.
Il motivo è inammissibile perché non tiene conto del fatto che il Tribunale ha ritenuto che la clausola in questione fosse valida essendo stato il tasso degli interessi moratori specificamente concordato per scritto ‘ai sensi dell’art. 1284 c.c.’. I controricorrenti ricordano che con la clausola n. 4 del contratto, gli interessi erano stati pattuiti ‘in misura pari’ agli interessi di cui al citato d.lgs.
Con l’ottavo motivo di ricorso si lamenta violazione dell’art. 1224 c.c. per avere il Tribunale concesso gli interessi moratori ‘dalle scadenze al saldo’ laddove ‘il cliente può essere ritenuto in mora solo al momento della liquidazione giudiziale del debito, che avviene solo con il provvedimento conclusivo del procedimento di contestazione’.
Il motivo è infondato.
Il Tribunale ha applicato ‘gli interessi convenzionali’. La decorrenza degli interessi, come notano i controricorrenti, era stata specificamente pattuita, con la clausola 4 del contratto, ‘dalla data di scadenza del pagamento’.
Con il nono motivo di ricorso si lamenta violazione ‘nullità o comunque invalidità e inefficacia delle ulteriori clausole del patto di conferimento dell’incarico e determinazione del compenso che contrastano con il principio di proporzionalità di cui sopra tra compenso e attività effettivamente svolta e con la normativa generale in materia di contratto di patrocinio giudiziale’. Si lamenta altresì ‘violazione dell’art. 2237 c.c. che prevede la facoltà di
recesso ad nutum del cliente che verrebbe vanificata ove lo stesso fosse costretto e pagare l’intero compenso anche per l’attività ancora da svolgere e non più svolta’.
Il motivo è inammissibile, nella prima parte in cui viene riproposta la censura del secondo motivo, per le ragioni già esposte nell’esame di questo motivo e per la seconda parte in cui viene fatto riferimento al recesso del cliente, perché del tutto scollegata dal caso concreto e dalla decisione impugnata. Quest’ultima parla non di recesso dell’attuale ricorrente ma di ‘scioglimento del contratto’ da parte degli attuali controricorrenti ‘in conformità’ alla previsione contrattuale relativa alle conseguenze de ‘l’inadempimento del cliente’.
10. Con il decimo motivo di ricorso si lamenta violazione dell’art. 1384 c.c. per ‘mancato esercizio del potere di ridurre la penale manifestamente eccessiva’ nonché ‘violazione dell’art. 1373 c.c. per inconferenza del richiamo ad una multa penitenziale non prevista in contratto.
Il motivo è inammissibile.
Per la parte relativa alla dedotta violazione dell’art. 1384 c.c. il motivo è inammissibile perché, senza riferimento alle specifiche affermazioni del Tribunale, si riduce ad allegazioni in fatto per cui il compenso era ‘collegato allo sforzo intellettuale o professionale degli avvocati’ i quali si sarebbero invece ‘sottratti sia all’uno che all’altro peso’ con la conseguenza che la clausola penale avrebbe dovuto essere ‘certamente ridotta’.
Per la parte relativa alla dedotta violazione dell’art. 1373 c.c., il motivo è inammissibile perché relativo alla affermazione ipotetica per cui, anche se la clausola che consentiva agli avvocati di pretendere il pagamento della penale fosse stata interpretata come ‘multa penitenziale’, la multa, per le ragioni già espresse riguardo alla clausola intesa come clausola penale, non sarebbe stata riducibile ‘nel solco del canone della buona fede’.
Con l’undicesimo motivo si lamenta violazione degli artt. 1175, 1366, 1374 e 1375 c.c.
Il motivo è inammissibile perché si riduce ad allegazioni in fatto -‘il compenso globalmente pattuito era riferito ad una assistenza totale fino alla sentenza (…) ed avere interrotto prima il rapporto ha reso eccessivo anche quanto concordato in quell’ottica ormai venuta meno per fatto dei difensori incaricati e unilateralmente rinuncianti’ – del tutto scollegate dal contenuto della ordinanza.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza.
PQM
la Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente a rifondere ai controricorrenti le spese del giudizio di legittimità liquidate in € 7.500,00, per compensi professionali, € 200,00 per esborsi oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% e altri accessori di legge se dovuti.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater del d.p.r. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, ad opera del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma 3 aprile 2025.