Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 3568 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3   Num. 3568  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 08/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19009/2021 R.G. proposto da:
COGNOME  NOME,  in  proprio  e  quale titolare  dell’RAGIONE_SOCIALE,  elettivamente  domiciliato    in  INDIRIZZO  INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME che lo rappresenta  e  difende  unitamente  agli  avvocati  COGNOME  NOME COGNOME NOME;
-ricorrente-
 contro
COGNOME NOME, COGNOME NOME in proprio e nella qualita’ di erede di COGNOME NOME (deceduto), COGNOME NOME, domiciliati ex  lege  in  ROMA,  INDIRIZZO  presso  la  CANCELLERIA  della CORTE  di  CASSAZIONE,  rappresentati  e difesi dagli avvocati COGNOME  NOME  (CODICE_FISCALE),  COGNOME  NOME;
avverso la SENTENZA  della CORTE  D’APPELLO di ROMA  n. 106/2021 depositata il 11/01/2021. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/10/2023 dalla Consigliera NOME COGNOME. nella generalità e degli altri dati identificativi di………riportati sentenza.
Rilevato che:
Con atto di riassunzione dinanzi al Tribunale di Rieti notificato nel 2015, in conseguenza della dichiarazione di incompetenza territoriale del Tribunale di Roma, NOME COGNOME, quale titolare della ditta individuale RAGIONE_SOCIALE, premesso di aver ricevuto da NOME COGNOME (poi deceduta in data 6 aprile 2008) mandato per essere assistita, anche sotto il profilo tecnico legale e medico, ai fini del risarcimento per i danni subiti a seguito di errata diagnosi medica presso una struttura ospedaliera e di aver concordato, per tale attività, un compenso nella misura percentuale del 30% della somma che sarebbe stata liquidata in favore della mandante, convenne in giudizio NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, in qualità di eredi della COGNOME, per sentirli condannare al pagamento in suo favore di una somma pari al 30% dell’importo incassato dai convenuti a titolo risarcitorio a seguito di transazione con la struttura ospedaliera.
I  convenuti  si  costituirono  eccependo,  tra  l’altro,  il  difetto  di legittimazione del COGNOME per inesistenza della ditta individuale, la nullità della procura rilasciata ai difensori da soggetto inesistente, il difetto di legittimazione passiva degli eredi, la nullità della citazione introduttiva  del  giudizio.  Inoltre,  i  signori  COGNOME  disconobbero  la
sottoscrizione apposta sul contratto di mandato, deducendo altresì la carenza di data certa, la vessatorietà delle clausole contrattuali, l’abuso del diritto ed infine l’annullabilità del contratto per incapacità della COGNOME.
Il Tribunale adito, istruita la causa anche mediante CTU grafologica, accolse la domanda attrice e condannò i convenuti, pro quota, al pagamento in favore dell’attore dell’importo richiesto.
Il giudice di prime cure, respinte le eccezioni preliminari e rilevato che il contratto risultava sottoscritto dalla dante causa dei convenuti e che vi era stato l’incasso del risarcimento nella misura indicata  dall’attore,  ritenne  che  vi  fosse  l’obbligo  di  pagamento  a carico degli eredi in quanto il mandato non era stato revocato e gli eredi stessi avevano beneficiato dell’opera del RAGIONE_SOCIALE.
Con  particolare  riguardo  al  contratto,  il  Tribunale  evidenziò  che l’assenza della data era irrilevante e che le allegazioni dei convenuti sulla  vessatorietà  delle  clausole  e  sull’abuso  del  diritto  erano  del tutto  generiche.  Infine,  il  primo  giudice  escluse  l’incapacità  della COGNOME in assenza di prove delle patologie e delle invalidità allegate.
La decisione è stata riformata dalla Corte d’appello di Roma, con la sentenza n. 106/2021, depositata l’11 gennaio 2021.
Il giudice dell’appello, pur confermando le statuizioni del Tribunale in ordine alla sussistenza della legittimazione attiva e alla validità della  procura,  ha  ritenuto,  nel  merito,  che  non  potesse  applicarsi nel caso di specie il principio secondo cui il diritto al compenso del mandatario è riconosciuto  anche  se  l’affare  non  è  andato  a  buon fine. Ciò in quanto nell’accordo sottoscritto dalle parti in giudizio le parti  avevano  condizionato  il  pagamento  del  compenso  ad  un risultato.
Secondo la Corte territoriale, la formulazione testuale della clausola determinativa  del  compenso,  con  l’utilizzo  del  verbo  coniugato  al futuro  (‘…  riconoscerà  alla  medica  una  somma  pari  al  30%  della somma  liquidata,  onorari  del  legale  esclusi,  comprese  le  spese
mediche  sostenute  dallo  studio’),  deponeva  nel  senso  che  il momento di maturazione del compenso era stabilito in concomitanza con l’effettiva liquidazione della somma.
Detta liquidazione, però, sarebbe avvenuta dopo la cessazione del rapporto  di  mandato,  a  seguito  dell’intervenuto  decesso  della mandante, con la conseguenza che nessun credito sarebbe insorto in capo al mandatario.
Inoltre,  poiché  i  COGNOME  contestavano  l’attività  svolta  dal  COGNOME, qualificata  come  indeterminata,  e,  quindi,  di  aver  usufruito  della stessa, sarebbe stato onere del COGNOME allegare e provare di aver svolto detta prestazione anche nei confronti degli eredi della COGNOME, essendosi invece egli limitato a fare riferimento in via esclusiva al rapporto instauratosi con la de cuius .
Né, secondo la Corte di merito, poteva ritenersi che si trattasse di mandato conferito anche nell’interesse del mandatario (irrevocabile ai sensi dell’art. 1723, comma 2 c.c.). Al riguardo, i giudici dell’appello hanno richiamato il principio secondo il quale, nel mandato in rem propriam , l’interesse del mandatario non coincide con quello generico a conservare l’incarico a proseguire l’attività gestoria al fine di conseguire il compenso, essendo invece necessario un interesse giuridico del mandatario all’esecuzione dell’incarico, vale a dire un rapporto obbligatorio tra mandante e mandatario generalmente preesistente al mandato, o comunque con esso costituito, in cui il debitore sia il mandante e il creditore il mandatario.
Nel  caso  in  esame,  a  parere  della  Corte,  non  poteva  ritenersi esistente  un  credito  del  COGNOME,  separato  e  distinto  rispetto  a quello per il compenso, a titolo di spese sostenute per far ottenere alla  COGNOME  la  liquidazione  risarcitoria.  Infatti,  le  spese  vive  erano state  inglobate  nel  compenso,  pattuito à  forfait ,  con  accettazione da parte del COGNOME del rischio che la liquidazione del danno nei confronti della COGNOME fosse di entità tale che  la misura  del
compenso che da tale liquidazione dipendeva potesse risultare non sufficiente a coprire le stesse spese.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione, sulla base di  due  motivi,  il  signor  NOME  COGNOME,  in  proprio  e  in  qualità  di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE.
Resistono con controricorso i signori NOME COGNOME (in proprio e  nella  qualità  di  erede  di  NOME  COGNOME),  NOME  COGNOME  e NOME COGNOME.
4.1. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in  adunanza camerale.
Il  Collegio  si  è  riservato  il  deposito  dell’ordinanza  nei  successivi sessanta giorni.
Considerato che:
5.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c., ‘la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss., nonché in relazione all’art. 1360 c.c.’.
La  Corte  d’appello  avrebbe  erroneamente  interpretato  la  clausola relativa  al  compenso,  non  tenendo  conto  degli  effetti  giuridici desumibili  da  un’interpretazione  combinata  di  tutte  le  clausole contrattuali.
L’interpretazione  fornita  sarebbe  cavillosa,  non  rispondente  alle intese  raggiunte  tra  le  parti  ed  anzi  in  contrasto  con  la  stessa ragione pratica o causa concreta dell’accordo negoziale.
In  realtà,  la  previsione  contrattuale  analizzata  dalla  Corte  non individuerebbe  il  completamento  del  mandato,  e  la  correlativa maturazione del diritto al compenso, al momento della liquidazione del  danno,  ma  si  limiterebbe  a  stabilire  la  misura  del  compenso stesso, sottoponendone la debenza ad una condizione sospensiva.
Di  conseguenza,  gli  effetti  dell’avveramento  della  condizione,  ai sensi  dell’art.  1360  c.c.  retroagirebbero  al  tempo  in  cui  è  stato concluso  in  contratto,  in  quanto  né  la  natura  del  rapporto,  né l’espressa  volontà  delle  parti,  indurrebbero  a  riportarli  ad  un
momento  differente.  Il  diritto  sottoposto  a  condizione  sarebbe quindi  stato  trasmesso  per  eredità  rimanendo  sottoposto  alla condizione originaria.
Peraltro, alla morte della COGNOME, l’attività del COGNOME quale titolare della  ditta  individuale  RAGIONE_SOCIALE  era  ormai  completa,  essendosi giunti alla fase giudiziale della pretesa.
5.2. Con  il  secondo  motivo  di  ricorso,  il  ricorrente  denuncia,  in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. la ‘violazione e falsa applicazione di legge, in relazione all’art. 1723 c.c.’.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’appello, nel caso in  esame  sarebbe  ravvisabile  un  mandato in  rem  propriam ,  che sussiste tutte le volte che emerga un interesse economico diverso rispetto a quello alla mera percezione del corrispettivo.
L’interesse del mandatario sarebbe chiaramente espresso nel contratto,  considerato  che  la  sua  attività  concerneva  anche  il recupero delle somme anticipate, ricomprese e non più differenziabili rispetto al corrispettivo per il servizio prestato.
Per ragioni di ordine logico, occorre preliminarmente esaminare il secondo motivo di ricorso, che è infondato.
L’art. 1723 c.c. dispone che il mandato conferito anche nell’interesse  del  mandatario  o  di  terzi  (c.d.  mandato in  rem propriam ) ‘non si estingue per revoca da parte del mandante salvo che sia diversamente stabilito o ricorra una giusta causa di revoca; non si estingue per la morte o per la sopravvenuta incapacità del mandante”.
Il  mandato in rem propriam si  distingue dall’ordinario mandato in quanto è diretto al soddisfacimento di un interesse del mandatario, diverso da quello strettamente limitato all’esecuzione del mandato o, in ipotesi di mandato oneroso, al conseguimento del corrispettivo, e costituisce il negozio-mezzo per l’attuazione di uno scopo ulteriore rispetto a quello tipico del mandato, connesso alla
realizzazione di un altro rapporto o di un altro negozio intercorso tra le parti e sottostante al mandato.
Il punto qualificante del mandato conferito anche nell’interesse del mandatario consiste nella concomitanza del conferimento con un diverso rapporto che intercorre tra il mandante e il mandatario (o un terzo), concomitanza tale da imprimere al conferimento il carattere di un atto obbligatorio, essenziale per la realizzazione dell’utilità specifica della combinazione negoziale di cui il mandato sia componente (Cass. 01/02/1983 n. 857; Cass. civ., Sez. III, 24/02/1987, n. 1931; Cass. civ., Sez. III, 04/12/2000, n. NUMERO_DOCUMENTO).
La  sentenza  impugnata  si  pone  in  linea  con  questo  principio  di diritto, in quanto ha escluso che nel caso di specie sia ravvisabile un  interesse  economico  del  mandatario  diverso  rispetto  a  quello alla  percezione  del  compenso,  nel  quale  è  ricompreso  anche  il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del mandato.
Non esiste, quindi, un rapporto giuridico autonomo fra mandante e mandatario,  da  cui  sorga  un  interesse  economico  di  quest’ultimo che le parti si siano ripromesse di tutelare mediante il conferimento del mandato.
Alla luce di ciò, la Corte d’appello ha correttamente escluso che il mandato conferito dalla COGNOME al COGNOME possa essere configurato quale mandato in rem propriam , come tale non estinguibile per la morte del mandante.
6.1. E’,  invece,  fondato  il primo  motivo  di  ricorso,  in  cui  il ricorrente  lamenta  la  violazione,  da  parte  della  Corte  territoriale, dei canoni legali in materia d’interpretazione del contratto.
La  sentenza  di  merito,  nel  caso  di  specie,  non  appare  aver  fatto corretta applicazione dei parametri legali di ermeneutica contrattuale,  avendo  fondato  sul  solo  utilizzo  del  verbo  al  tempo futuro nella clausola relativa alla  determinazione del compenso la ricostruzione  d ella  volontà  negoziale  di  far  coincidere  l’insorgenza del diritto al compenso con la data della liquidazione del
risarcimento nei confronti della COGNOME, senza che però tale interpretazione trovi conforto sul piano semantico-grammaticale e senza  nemmeno  giustificare  l’opzione  ermeneutica  alla  luce  degli ulteriori criteri interpretativi stabiliti dalla legge.
Infatti, la clausola in questione non individua nella liquidazione del danno  a  favore  della  COGNOME  la  fonte  del  diritto  del  COGNOME  al pagamento  del  compenso,  ma  si  limita  a  parametrare  la  misura dello stesso compenso alla somma liquidata (di fatto, condizionandone l’esigibilità all’effettiva liquidazione di un risarcimento).
L’interpretazione fornita dalla sentenza impugnata, oltre a non essere sorretta dal tenore letterale del testo negoziale, non risulta giustificata neppure dalla disciplina del mandato prevista dal codice civile (e in particolare dagli artt. 1709 e 1720 c.c.), secondo cui il mandato è un contratto presuntivamente oneroso, cosicché costituisce specifica obbligazione del mandante “rimborsare al mandatario le anticipazioni, con gli interessi legali dal giorno in cui sono state fatte e ‘pagargli il compenso che gli spetta”.
Tali  norme  prevedono  quindi  che,  salvo  diverse  pattuizioni,  delle quali però deve essere fornita prova in giudizio, il mandatario abbia il diritto al compenso per l’attività svolta, oltre al diritto al rimborso delle  spese  effettuate  (salvo  nel  caso  in  cui  le  parti,  nella  loro autonomia  negoziale,  abbiano  predeterminato  l’entità  delle  spese rimborsabili  in  una  somma  che  comprenda  forfettariamente  il compenso e le spese stesse).
Contrariamente a quanto sostiene la Corte d’appello, la circostanza che l’incarico conferito al ricorrente si configurasse come un’obbligazione di risultato, volto a far ottenere il risarcimento del danno  alla COGNOME, e che tale risultato si sia realizzato solo successivamente alla morte della mandante, quando il mandato si era estinto ai sensi dell’art. 1722 c.c., non consente di escludere il diritto al compenso da parte del COGNOME.
Difatti, al momento della estinzione del mandato il diritto di credito non  era  ancora  esigibile,  ma  le  attività  svolte  in  esecuzione  del mandato stesso, quando ancora era vigente, erano già state svolte.
Il  diritto  di  credito  è  divenuto  esigibile  solo  in  un  momento successivo  all’estinzione  del  mandato,  ma  pur  sempre  in  forza  di un’attività  posta  in  essere  prima.  È  pertanto  nell’esecuzione  del mandato  che  trae  fonte  il  diritto,  divenuto  poi  efficace  solo  al raggiungimento del risultato cui il mandato era funzionale.
In  conclusione,  il  fatto  che  la  liquidazione  del  risarcimento  sia avvenuta dopo la morte della mandante  non influisce sulla circostanza che l’attività prestata dal mandatario al fine di ottenere tale risultato, in esecuzione del mandato  conferitogli, debba essergli retribuita.
L’obbligo di pagare il compenso al ricorrente che sarebbe sorto in capo alla mandante per il solo fatto dell’ottenimento del risarcimento, è sicuramente transitato in capo agli odierni resistenti in ragione delle regole generali sulla successione a titolo universale.
Pertanto, la Corte accoglie il  primo  motivo di ricorso, rigetta il secondo,  cassa  in  relazione  la  sentenza  impugnata,  come  in motivazione,  e  rinvia,  anche  per  le  spese  di  questo  giudizio,  alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione personale.
P.Q.M.
la Corte accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta il secondo, cassa in relazione la sentenza impugnata, come in motivazione, e rinvia, anche per le spese di questo giudizio, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione personale.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza