Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 9361 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 9361 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 28919/2022 R.G. proposto da :
NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE, domiciliata ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di TRENTO, SEZ.DIST. DI BOLZANO n. 136/2022 depositata il 24/08/2022. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Fatti di causa
1.-NOME COGNOME ha incaricato la società RAGIONE_SOCIALE di rappresentarlo nella trattativa con la controparte volta ad ottenere da quest’ultima un risarcimento del danno, cui il COGNOME dichiarava di avere diritto.
È stato a tal fine stipulato un contratto di mandato con rappresentanza, al cui articolo 11 era previsto che, nel caso in cui la mandataria avesse ottenuto un risarcimento in nome e per conto del mandatario, avrebbe avuto diritto ad un compenso del 10%.
È accaduto che il COGNOME ha concluso da sé le trattative stipulando direttamente lui una transazione con la controparte, e, riferendosi a quell’articolo 11, ha negato il compenso alla società mandataria, accusandola tra l’altro di aver fatto naufragare le trattative a causa delle richieste eccessive e dunque di aver costretto il mandante a riprenderle direttamente lui, per poi portarle a termine personalmente.
2.- La società ha agito davanti al Tribunale di Bolzano, il quale ha accolto la domanda, ed ha riconosciuto dunque il compenso, sulla base del fatto che la mandataria aveva comunque svolto attività prodromiche che giustificavano quindi il corrispettivo, pur se le trattative erano state poi concluse dal mandante personalmente e direttamente.
3.- Questa tesi è stata però smentita dalla Corte di Appello, la quale ha osservato che l’accordo prevedeva espressamente il diritto al compenso solo ove le trattative fossero state concluse dalla mandataria, ossia solo ove quest’ultima le avesse condotte e
portate a termine lei, ottenendo il risarcimento in nome e per conto del mandante.
4.- La sentenza delle Corte di Appello, che dunque ha negato il corrispettivo alla società, è da quest’ultima impugnata con ricorso per cassazione basato su cinque motivi di censura e memoria. Ne chiede il rigetto il NOME COGNOME con controricorso.
Ragioni della decisione
1.-Con il primo motivo di ricorso si prospetta violazione dell’articolo 342 c.p.c.
Secondo la ricorrente l’appellante, ora controricorrente, aveva proposto un appello con motivi non specifici e dunque tali da rendere inammissibile l’impugnazione.
Sostiene la ricorrente che affinché un motivo sia specifico occorre che alla parte cosiddetta volitiva (cioè le richieste) si accompagni una parte argomentativa, secondo quanto imposto da Cass. Sez., Un n. 27199/ 2017. In sostanza, non basta chiedere la riforma della sentenza, ma occorre formulare precise censure alla decisione impugnata che non siano di generica violazione di legge, come invece nel caso presente, in cui l’appellante si sarebbe limitato a prospettare una generica ingiustizia della decisione impugnata senza contrapporle argomenti specifici.
Il motivo è infondato.
Come risulta chiaramente dalla sintesi dei motivi di appello riportati nel controricorso, l’impugnazione era basata su precisi argomenti, tra cui il fatto che la condotta della società aveva reso difficile o fatto arenare la trattativa che dunque era stata portata avanti dal mandante direttamente.
È sufficiente che dunque siano chiari gli argomenti con cui la decisione impugnata è contestata anche se essi si trovano già esposti in primo grado e costituiscono la mera riproposizione di quelli. Non per ciò stesso l’appello può dirsi generico. Esso è tale quando manchino del tutto argomenti a sostegno della
impugnazione e la contestazione della decisione impugnata sia apodittica. Mentre l’appello è sufficientemente specifico anche se gli argomenti che lo sorreggono sono analoghi a quelli già utilizzati in primo grado, ma riferibili alla decisione impugnata.
2.- Il secondo motivo prospetta violazione degli articoli 1363 e ss. c.c.
La ricorrente contesta il modo con cui la Corte di Appello ha interpretato il contratto perché si sarebbe limitata a riferirsi al significato, peraltro frainteso, di una singola clausola, senza tuttavia leggere quest’ultima unitamente alle altre e senza tener conto dei criteri interpretativi previsti rispettivamente dagli articoli 1363 e 1365 c.c.
La questione prospettata è la seguente.
L’articolo 11.3 del contratto riconosceva alla società il compenso solo ove fosse riuscita ad ottenere un risarcimento in nome e per conto del mandante.
Secondo la ricorrente questa clausola andava letta tenendo conto della altre (art. 1363 c.c.) ed in particolare modo dell’articolo 11.1. secondo cui <>.
Questa clausola, secondo la ricorrente, significa che il compenso è dovuto solo che la società abbia contribuito causalmente al risultato, in qualunque modo, anche indiretto, come dimostra il fatto che viene fatto riferimento all’azione giudiziaria, che la mandataria non può esercitare se non coinvolgendo.
Inoltre, andava tenuto conto dell’articolo 7.1. del contratto che prevede che <>.
Secondo la ricorrente, la clausola dimostra che il mandante non poteva evitare che la mandataria conseguisse il risultato sostituendola con altra mandataria all’ultimo minuto. O recedendo dal contratto. Il che significa altresì che, nel caso in cui ciò fosse avvenuto, la ricorrente avrebbe comunque avuto diritto al compenso.
Infine, sarebbe stato violato l’articolo 1365 c.c., il quale prevede che quando le parti esemplificano un caso al fine di illustrare un patto non significa che ogni altro caso è escluso. Se ne deduce che, pur essendosi le parti riferite al caso in cui la mandataria ‘ottenga un risarcimento in nome e per conto del mandante’ non significa che abbiano voluto escludere che il compenso spettasse anche per altri casi, diversi da quello.
Infine, ancora l’articolo 1369 c.c. avrebbe dovuto imporre alla Corte di Appello di intendere la clausola, in caso di dubbio, secondo un significato conforme alla causa concreta, che era quella di consentire il compenso in caso di contributo fornito alla transazione della controversia.
3.Il terzo motivo prospetta una violazione dell’articolo 2909 c.c. società aveva compiuto le attività propedeutiche alla transazione.
Secondo la ricorrente, in primo grado era stato accertato che la Questo accertamento non è mai stato messo in discussione, poiché il mandante non lo ha impugnato, e dunque deve ritenersi ormai definitivo.
La Corte di Appello avrebbe dovuto prenderne atto, e trarne ragione di decisione: avrebbe cioè dovuto tener conto di tale contributo, causalmente decisivo, ed ammettere dunque che alla società, che quel contributo ha fornito, spettasse il compenso pattuito.
Il secondo ed il terzo motivo sono logicamente connessi e possono dunque scrutinarsi congiuntamente.
Essi sono infondati.
Come si è ricordato, la ricorrente censura la decisione impugnata per violazione di specifici canoni interpretativi, così ponendosi nella logica della prospettazione della loro violazione o falsa applicazione, ma, come emergerà da quanto si osserverà l’illustrazione è inidonea a dimostrare sia l’una che l’altra.
Queste le ragioni.
Il primo canone esegetico evocato è quello che impone una lettura congiunta della clausola direttamente applicabile con altre clausole del contratto.
La clausola in questione sarebbe la seguente ‘ nessun compenso è dovuto alla mandataria nel caso in cui essa non ottenga alcun risarcimento, nemmeno a seguito di azione giudiziaria ‘. Questa clausola secondo la ricorrente implicherebbe che il compenso è dovuto solo che la società abbia contribuito causalmente al risultato, in qualunque modo, anche indiretto, come dimostra il fatto che viene fatto riferimento all’azione giudiziaria, che implica il coinvolgimento di terzi.
In realtà, la clausola lega il corrispettivo al risultato, e prevede di conseguenza che, ove il risultato non sia propiziato dalla mandataria, a costei non spetta alcunché. E si intende che il risultato è propiziato dalla mandataria solo ove quest’ultima l’abbia procurato lei in quanto mandataria: questo il senso del riferimento al fatto di ottenerlo in nome e per conto.
La clausola in questione conferma questa lettura: niente è dovuto senza risultato, che può anche essere ottenuto promuovendo azioni giudiziarie, ma sempre per iniziativa della mandataria e dunque attivandosi essa stessa.
Pertanto, la lettura delle due clausole non smentisce ma conferma la tesi della Corte di appello: il compenso spetta a risultato ottenuto per propria iniziativa, pur se mediante azione giudiziaria: ciò che conta è che il risultato deve essere imputabile all’agire della
mandataria e tanto ricorre, lo si ripete, anche nel caso che la mandataria agisca tramite l’azione giudiziaria.
Il che nella specie non è stato. Il risultato è pacificamente stato ottenuto dal mandante personalmente.
Né si può dire che quelle due clausole lette insieme consentono il corrispettivo anche in presenza di un qualsiasi contributo causale: questo argomento infatti presuppone che il contributo sia decisivo, mentre qui la ricorrente stessa ammette di avere dato solo avvio alle trattative, e dunque anche ad ammettere che il contratto va interpretato nel senso che prevede un compenso per il semplice fatto di avere contribuito causalmente al risultato, resta da dimostrare che ciò è avvenuto, e non basta dire che si è stati artefici dell’avvio delle trattative, le quali poi hanno bisogno di essere portate ad un risultato utile per l’interessato.
Inoltre, non c’è violazione dell’articolo 1365 c.c. che è norma che ha un significato diverso da quello suggerito dalla ricorrente. Essa sta a dire che quando le parti, per significare cosa esse intendono, indicano un caso, ossia fanno un esempio, non è detto che ogni altro caso sia escluso, se ovviamente rientrante nella previsione contrattuale, cioè se il modo di previsione del ‘caso’ abbia un significato esemplificativo.
Nella clausola di cui è processo, tuttavia, le parti non hanno individuato fanno alcun caso esemplificativo. L’uso della espressione ‘nel caso in cui la mandataria ottenga un risarcimento’ non è, infatti, secondo il senso fatto manifesto dalle parole usate e dall’intenzione che esse sono idonee a rivelare, un’espressione esemplificativa, ossia espressione che indica un caso quale esempio di tanti altri analoghi. Qui l’espressione è utilizzata secondo la struttura propria del giudizio ipotetico e condizionante: se ottieni un risultato hai diritto al compenso. L’espressione ‘in caso di’ significa niente altro che ‘a condizione che’.
Parimenti, non si può citare a proprio frutto la clausola secondo cui ‘ il mandante si obbliga, per tutta la durata del presente contratto, a non conferire a soggetti diversi dalla mandataria incarichi professionali o d’opera dal contenuto coincidente, anche solo in parte, con l’oggetto del presente contratto ‘. La clausola prevede infatti un patto di esclusiva, che attribuisce alla mandataria il diritto di essere l’unica a trattare l’affare per conto della mandante ma non le attribuisce il diritto al corrispettivo pur senza avere ottenuto il risultato.
Infine, non ha rilievo, ed è la censura del terzo motivo, la circostanza che, con effetto di giudicato, è emerso che la mandataria ha comunque dato avvio alle trattative, o meglio, ha posto in essere le attività propedeutiche, poiché anche ad ammettere e la decisione impugnata non ne ha dubitato, che sia cosi, resta il fatto che quell’attività, a norma del contratto, non è sufficiente a giustificare il corrispettivo, che invece presuppone il risultato ottenuto.
4.- Il quarto motivo prospetta una violazione dell’articolo 1709 c.c.
La tesi della ricorrente è che il mandato con rappresentanza, quale era il contratto in questione, si presume oneroso, e dunque va inteso come tale: ogni interpretazione che lo renda invece gratuito, in difetto di una espressa pattuizione delle parti sulla gratuità, deve dirsi vietata.
Il motivo è infondato.
Infatti, il contratto è oneroso e come tale è stato inteso. Solo che il corrispettivo è condizionato al risultato. E’ previsto, ma nel solo caso di risultato utile. Dunque, nel dire che il corrispettivo non spetta perché il risultato non è stato conseguito, non si trasforma il contratto da oneroso a gratuito, ma semplicemente si stabilisce che il corrispettivo, pur se previsto, non compete.
5.- Il quinto motivo prospetta mancata valutazione delle prove offerte -errore processuale ex art. 360, comma 1, n. 4 e n. 5 c.p.c.
La tesi della ricorrente è che dai documenti risultava l’attività compiuta, che era di preparazione della trattativa e di avvio di essa, ma quelle prove non sono state considerate.
Il motivo è inammissibile.
In primo luogo, lo è perché non chiarisce in alcun modo l’alternativa indicata nella intestazione.
In ogni caso, se si procede a raccordare l’indicazione dell’errore processuale ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c. ad una norma, ed essa si individua -supplendo all’omissione di indicazione espressa -nell’art. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c., del relativo vizio non ricorrono i presupposti, atteso che l’illustrazione del motivo su fonda su elementi aliunde rispetto alla motivazione della sentenza, evocando documenti. Tanto, secondo le note sentenze delle S.U. nn. 8053 e 8054 del 2014 colloca il motivo al di fuori della logica della violazione di quella norma.
Se si raccorda poi l’evocazione del n. 5 alla nozione di omesso esame ivi indicata, il motivo non prospetta adeguatamente dove e come si era argomentato sui fatti rappresentati nei documenti evocati e, soprattutto, con quale rilevanza rispetto alla domanda, di cui pure si dice che era fondata sull’articolo 11 dell’accordo.
Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite nella misura di 2.000,00 euro, oltre 200,00 euro per esborsi, ed oltre spese generali al 15%, ed accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della
ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 17/02/2025.