Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 25430 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 25430 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26257/2019 R.G. proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata a ll’i ndirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
-ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME difeso in proprio ed elettivamente domiciliato al proprio indirizzo PEC iscritto nel REGINDE;
-controricorrente – avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Matera il 28/5/2019, depositata il 5/6/2019, nell’ambito del procedimento ex artt. 702bis cod. proc. civ. e 14 d.lgs. 150 del 2011, iscritto al n. 2304/2017, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 7 maggio 2025 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
1. Di COGNOME NOME propose opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 601/2017, depositato il 5/10/2017 e notificato il 26/10/2017, col quale il Tribunale di Matera le ingiunse il pagamento della somma di € 39.993,00 in favore dell’avv. NOME COGNOME per compensi professionali maturati per l’attività professionale svolta nel suo interesse, eccependo la prescrizione dei predetti crediti ai sensi dell’art. 2956 cod. civ., parte dei quali già pagati, e contestandone l’ammontare.
L’avv. NOME COGNOME costituendosi, si oppose alle avverse deduzioni.
Con ordinanza del 5/6/2019, il Tribunale di Matera, in composizione collegiale, revocò il decreto ingiuntivo e condannò l’opponente al pagamento della somma di € 29.819,00, oltre alle spese di lite, ritenendo che soltanto alcuni dei crediti si fossero prescritti, ma non anche quelli (R.G. n. 924/2006 e R.G. 1233/1988) non ancora definiti al momento dell’introduzione del rito monitorio, siccome proseguiti in appello e definiti rispettivamente il 19/11/2015 e il 19/5/2015; che il legale avesse dimostrato di aver prestato il proprio ministero in favore dell’opponente, non avendo l’opponente contestato l’ an della pretesa, ma il solo intervenuto parziale adempimento; che, con riguardo al procedimento n. R.G. 1233/1988, andasse applicato il d.m. 8 aprile 2004 e, quanto ai restanti, il d.m. n. 55 del 2014, siccome conclusi in epoca successiva alla sua entrata in vigore; e, infine, che, quanto al procedimento R.G. n. 25/2015, il compenso andasse quantificato nella misura stabilita nella sentenza definitoria della Corte d’Appello, potendo gli avvocati formulare richiesta di onorari
superiori a quelli liquidati in sentenza in ragione della libertà propria degli accordi negoziali.
Contro la predetta ordinanza, COGNOME NOME propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. COGNOME NOME si è difeso con controricorso, illustrato anche con memoria.
Considerato che :
1.1 Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in via preliminare e pregiudiziale, la violazione e falsa applicazione degli artt. 14, comma 2, e 3, comma 2, d.lgs. n. 150 del 2011, e della relativa normativa in ordine all’individuazione del giudice e alla composizione del collegio giudicante, con riferimento agli artt. 111 Cost. e 360, primo comma n. 3, cod. proc. civ., e la nullità del procedimento e dell’ordinanza sempre per effetto delle violazioni di cui agli artt. 14, comma 2, e 3, comma 2, d.lgs. n. 150 del 2011, nonché della relativa normativa in ordine all’individuazione del giudice e alla composizione del collegio giudicante, con riferimento agli artt. 111 Cost. e 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., perché il procedimento era stato trattato ab origine da un giudice monocratico, dott.ssa NOME COGNOME peraltro non facente parte del collegio che aveva pronunciato la decisione, benché la rimessione ad esso potesse essere fatta soltanto per lo svolgimento dell’attività istruttoria e non anche per la trattazione e la delega andasse conferita esclusivamente ad un componente del collegio e non, come accaduto, ad un giudice ad esso estraneo. Inoltre, la causa era stata chiamata a decisione davanti al medesimo giudice monocratico, benché questo non facesse parte del collegio, né avesse ricevuto alcuna nomina, né delega al riguardo, mentre, ad avviso del ricorrente, qualora fosse cambiata la composizione del collegio e, specialmente, del giudice relatore, avrebbe dovuto essere assunto un atto formale di nomina di un nuovo collegio
ovvero di uno dei suoi componenti, con successiva riconvocazione delle parti davanti a esso e successiva delega al suo nuovo componente.
1.2 Il primo motivo è infondato.
L’art. 14 del d.lgs. 11 settembre 2011, n. 150, che disciplina il rito delle controversie in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti degli avvocati di cui all’art. 28 della legge n. 794 del 1942, come sostituito dal medesimo d.lgs., disponeva al comma 2, nella versione ratione temporis applicabile, che il Tribunale “decide in composizione collegiale”, senza prescrivere la trattazione collegiale del procedimento (v., al riguardo Cass., Sez. 6-2, 4/3/2020, n. 6012).
L’art. 3 del medesimo d.lgs., al comma 2, prevede, oltre alla designazione del giudice relatore, la sola delega da parte del presidente a uno dei componenti del collegio dell’assunzione dei mezzi istruttori, con la conseguenza che le restanti attività devono svolgersi davanti all’intero collegio, in particolare la discussione della causa e la precisazione delle conclusioni (cfr. al riguardo la pronuncia delle sezioni unite, 20/7/2012, n. 12609, che sottolinea come, anche alla luce della relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 150/2011, i processi in materia di liquidazione degli onorari degli avvocati “devono essere trattati in composizione collegiale”).
Come affermato da Cass., Sez. 2, 3/5/2022, n. 13856, il primo comma dell’art. 276 cod. proc. civ., secondo il quale alla deliberazione della decisione possono partecipare soltanto i giudici che hanno assistito alla discussione, va interpretato nel senso che i giudici che deliberano la sentenza devono essere gli stessi dinanzi ai quali sono state precisate le conclusioni, sicché il collegio che delibera la decisione deve essere composto dagli stessi giudici dinanzi ai quali è stata compiuta l’ultima attività processuale, ossia la discussione o la precisazione delle conclusioni, conseguendone la
nullità della sentenza nel caso di mutamento della composizione del collegio medesimo (in questi termini, in fattispecie corrispondente a quella in esame, v. Cass., Sz. 1, 6/6/2016, n. 11581).
Ciò comporta che poco rileva il fatto che il collegio sia stato composto originariamente da giudici diversi da quelli che hanno poi deciso la causa e che il giudice delegato all’attività istruttoria non facesse parte dell’originario collegio, allorché quest’ultimo abbia infine integrato il collegio al momento della discussione, della precisazione delle conclusioni e della decisione, come accaduto nella specie, nella quale il giudice COGNOME, asseritamente non facente parte dell’originario collegio, ha poi integrato l’organo giudicante nella fase conclusiva del procedimento, ivi compresa la decisione.
2.1 Con il secondo motivo si lamenta la nullità della sentenza o del procedimento per inosservanza delle norme di diritto di cui all’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., e 118 disp. att. cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., nonché la violazione delle norme di diritto di cui all’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., e degli artt. 111 Cost e 360, quarto comma, cod. proc. civ., come modificato dal d.lgs. n. 40 del 2006, perché i giudici di merito, nonostante la molteplicità delle cause oggetto di liquidazione, avevano del tutto omesso di motivare in ordine a ciascuna di esse, con indicazione dell’attività svolta nell’ambito delle stesse e della relativa durata, al numero delle parti, al grado di difficoltà, al valore della causa e dello scaglione e all’entità degli onorari applicati ovvero nella misura minima, media o massima; avevano del tutto omesso di richiamare e analizzare i pareri del Consiglio dell’ordine, senza sindacarne merito e congruità; avevano applicato, nella liquidazione relativa al proc. n. 256/2015 R.G., i maggiori compensi determinati nella
sentenza definitoria dello stesso, anziché quelli minori stabiliti dal Consiglio dell’Ordine, senza considerare che detta liquidazione non era opponibile dall’avvocato al cliente perché non effettuata direttamente in suo favore, ma a carico della parte soccombente, e avrebbe dovuto essere sindacata nel merito.
2.2 Il secondo motivo è parimenti infondato.
La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (tra le varie, Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629830). Scendendo più nel dettaglio sull’analisi del vizio di motivazione apparente, la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che il vizio ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. da ultimo, Cass., Sez. U,
30/1/2023, n. 2767; vedi anche, tra le tante, Cass., Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016 Rv. 641526; Cass., Sez. U, Sentenza n. 16599 del 2016; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022 Rv. 664061; Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019 Rv. 654145).
Poiché la sentenza, sotto il profilo della motivazione, si sostanzia nella giustificazione delle conclusioni, oggetto del controllo in sede di legittimità è la plausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze, posto che è l’implausibilità delle conclusioni che può risolversi tanto nell’apparenza della motivazione, quanto nell’omesso esame di un fatto che interrompa l’argomentazione e spezzi il nesso tra verosimiglianza delle premesse e probabilità delle conseguenze e assuma, quindi, nel sillogismo, carattere di decisività (Cass., Sez. Un., 07/04/2014 n. 8053 cit.).
In sostanza, il vizio di nullità è configurabile in quanto la sentenza è inidonea raggiungere lo scopo, ovvero di spiegare le ragioni del decidere, sicché la mancanza della motivazione, agli effetti del requisito della sentenza di cui all’art. 132, n. 4, cod. proc. civ., si estrinseca attraverso affermazioni logicamente inconciliabili e fondate su dati erroneamente valutati, emergenti dallo stesso provvedimento decisorio.
Tali criteri non sono stati, però, violati nella specie, avendo i giudici di merito argomentato in ordine alle ragioni del proprio convincimento allorché hanno circoscritto la decisione ai soli procedimenti nn. 924/2006 e 1233/1988, proseguiti in fase d’appello e definiti rispettivamente il 19/11/2015 e il 19/5/2015, evidenziando di avere valutato la copiosa documentazione dimostrativa della prestazione del ministero da parte del legale, costituita dalla copia integrale di tutti gli atti dei processi esaminati, di avere tenuto conto del fatto che l’opponente non avesse
contestato l’ an della prestazione, ma si fosse limitata a dedurre il parziale pagamento del proprio debito, e di avere applicato le tariffe sulla base della normativa ratione temporis rilevante e i relativi parametri.
Non rileva del resto il parere di congruità espresso dal Consiglio dell’ordine degli avvocati, atteso che il giudice, per il quale lo stesso non è vincolante, può discostarsene, indicando, sia pure sommariamente, le voci per le quali ritiene il compenso non dovuto oppure dovuto in misura ridotta, tenuto conto degli elementi forniti dall’attore a dimostrazione della propria pretesa (Cass., Sez. 6 -2, 15/1/2018, n. 712; Cass., Sez. 1, 18/5/2005, n. 10428).
3.1 Con il terzo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 12 cod. proc. civ. e 6 d.m. 8 aprile 2004 e dell’art. 5 del d.m. n. 55 del 2014, con riferimento all’erronea applicazione del valore della causa in ordine alle procedure iscritte rispettivamente ai nn. 1233/1988 R.G. Tribunale Matera e 288/2012 R.G. Corte d’Appello Potenza, entrambe aventi ad oggetto la divisione ereditaria, nonché l’inapplicabilità del valore relativo all’intero compendio dividendo di cui all’art. 12 cod. proc. civ., in relazione agli artt. 111 Cost. e 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, in una causa avente ad oggetto il solo scioglimento di una comunione ereditaria, avevano tenuto conto del valore dell’intero compendio dividendo (pari a euro 265.538,86), anziché della quota riferita alla propria assistita, pari a euro 2.856,27, ove si considerassero i conguagli derivanti dagli immobili già ricevuti in vita e dalle somme di denaro ricevute post mortem , o a euro 33.192,28, ove si considerasse la quota senza detti conguagli. Inoltre, i giudici avrebbero dovuto considerare che il valore dichiarato in citazione era indeterminato e che la causa di divisione non presentava particolari problemi giuridici, siccome affidata prevalentemente alla c.t.u.
3.2 Il terzo motivo è inammissibile.
Occorre, innanzitutto, evidenziare come nel provvedimento impugnato, non vi sia alcun richiamo alla questione giuridica afferente al valore della causa da prendere a base del calcolo dei compensi.
Ciò comporta che, implicando essa un accertamento di fatto, la ricorrente, nel proporla in sede di legittimità, avrebbe dovuto, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, indicare in quale atto del giudizio precedente lo avesse fatto, onde consentire a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa (Cass., Sez. 6-5, 13/12/2019, n. 32804; Cass., Sez. 6-1, 13/6/2018, n. 15430), non essendo consentita la prospettazione di nuove questioni di diritto o contestazioni che modifichino il thema decidendum ed implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito, anche ove si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (Cass., Sez. 2, 15/3/2022, n. 12877; Cass., Sez. 2, 06/06/2018, n. 14477).
4.1 Con il quarto motivo si lamenta, infine, la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., degli artt. 1 e ss. r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736, 2697 cod. civ., 2729 cod. civ., e 116 cod. proc. civ., nonché delle norme basilari e, specificamente, dell’art. 1244 cod. civ., nonché degli usi e delle consuetudini riguardanti i pagamenti, le dilazioni e gli acconti, specialmente rispetto ai professionisti, in relazione agli artt. 111 Cost. e 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., con riferimento al mancato riconoscimento degli ulteriori acconti di € 14.430,00, portato dall’assegno circolare n. 50485389 del 27/12/2005, e di €
625,00, portato dall’assegno circolare n. 8106690477 del 15/1/2013, entrambi emessi dalla Banca Popolare del Materano all’ordine dell’avv. NOME COGNOME
La ricorrente ha, sul punto, affermato che i giudici avevano imputato la somma di € 14.430,00 ad altre cause diverse da quello azionate con il decreto ingiuntivo, senza considerare che spettava al legale dimostrare la diversa imputazione; che il documento da questi prodotto a comprova di quanto da esso dedotto non recava alcuna sottoscrizione della controparte, ma era stato da lui redatto; che nel corso del procedimento venivano pagati, per consuetudine, acconti, specie in una causa, come quella in questione, durata vent’anni, mentre non necessariamente il compenso andava liquidato alla fine della vertenza; che il documento prodotto dal legale, quand’anche fosse stato considerato in termini di indizio, non era accompagnato da altri elementi gravi, precisi e concordanti; che le presunzioni non potevano ammettersi in caso di inammissibilità della prova per testi, come in caso di pagamento di somme di denaro.
4.2 Il motivo presenta profili di inammissibilità e di infondatezza.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che, in tema di prova del pagamento, soltanto a fronte della comprovata esistenza di un pagamento avente efficacia estintiva, ossia puntualmente eseguito con riferimento ad un determinato credito, l’onere della prova viene nuovamente a gravare sul creditore il quale controdeduca che il pagamento deve imputarsi ad un credito diverso, sicché tale principio non può trovare applicazione quando il pagamento venga eccepito mediante la produzione di assegni o cambiali, che per la loro natura presuppongono l’esistenza di un’obbligazione cartolare (e l’astrattezza della causa), così da ribaltare nuovamente l’onere probatorio in capo al debitore, che deve dimostrare il collegamento dei titoli di credito prodotti con i
crediti azionati, ove ciò sia contestato dal creditore (Cass., Sez. 2, 25/9/2023, n. 27247; Cass., Sez. 6-1, 06/11/2017, n. 26275).
Alla stregua di tale principio deve allora ritenersi che i giudici di merito abbiano correttamente deciso, allorché hanno affermato che l’opponente non avesse fornito prova idonea a dimostrare gli asseriti pagamenti parziali, avendo prodotto in causa solo copia di un assegno risalente al 2005 che non poteva ritenersi essere stato versato per pagare crediti maturati solo in epoca successiva.
Quanto, invece, alla dedotta omissione in ordine all’assegno dell’importo di € 625,00, ferme restando le medesime considerazioni svolte con riguardo all’assegno sopra esaminato, si osserva come, nella sentenza impugnata, non vi sia alcun richiamo alla questione afferente all’asserito intervenuto pagamento di siffatto acconto, che non risulta né descritta nella parte relativa allo svolgimento del processo, né trattata nella parte riguardante la decisione, con la conseguenza che, implicando essa un accertamento di fatto, la ricorrente avrebbe dovuto specificare di averla dedotta già nella fase di merito e in quale atto, onde evitare di incorrere nella inammissibilità per novità della censura, secondo i principi già descritti nel punto che precede.
Ne consegue che, non avendo la ricorrente specificato alcunché nel ricorso in ordine alla deduzione, nella fase di merito, sulla parziale estinzione del credito per effetto di tale pagamento, la censura deve ritenersi sotto questo profilo inammissibile.
Quanto, infine, alla lamentata violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., va richiamato il principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente
apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass., Sez. U, 30/9/2020, n. 20867; Cass., Sez. 5, 9/6/2021, n. 16016).
Nessuna di tali condizioni è però ravvisabile nella specie, sicché le deduzioni in ordine alla violazione della citata disposizione si risolvono in un’inammissibile istanza di rivisitazione nel merito del compendio probatorio.
In conclusione, dichiarata l’infondatezza del primo, secondo e quarto motivo e l’inammissibilità del terzo, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico della ricorrente.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle
spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, in data 7 maggio 2025.
Il Presidente NOME COGNOME